Si ringraziano Alessandro Politi e il sito
ufficiale dell'Arma che hanno reso possibile la pubblicazione di
questo articolo, che trovate in versione integrale all'indirizzo
www.carabinieri.it
L'inizio della guerra
1. Premessa
La via dell'inferno
è lastricata di buone intenzioni: in un certo senso anche quella verso una
guerra lo è. Da quando la svastica nazista, originariamente un simbolo solare di
molte civiltà indoeuropee, aveva cominciato a,diffondere la sua luce oscura,
tanti avevano ripetuto come non mai attraverso l'Europa democratica la parola
"pace". Gli argomenti dei sostenitori della pace, contro la follia di una nuova
guerra devastatrice, non erano solo quelli generici ai quali ricorrono da sempre
tutti i pacifisti. Erano sostenuti dal vivido, recente orrore della Grande
Guerra, quella che aveva per la prima volta industrializzato il macello bellico
e cancellato l'idea della lotta come nobile, anche se sanguinoso, gioco intriso
di regole cavalleresche. Romanzi come "Niente di nuovo sul Fronte Occidentale"
del tedesco Erich Maria Remarque o "Il fuoco" del francese Henri Barbusse resero
con realistica crudezza e disperata poesia la distruzione di una generazione tra
il fango delle trincee e l'incubo dei gas asfissianti. Quello che i pacifisti
non vollero vedere era che i loro valori e i loro tentativi di trovare una
ragionevole risposta alle rivendicazioni tedesche contro il diktat di Versailles
erano meno di carta straccia per un dittatore spregiudicato come Hitler. Chi
gode e approfitta dell'impunità della violenza, non può capire altro argomento
della forza usata con dura fermezza. Tutto il resto non è che un dannoso e
penoso palliativo, come le vicende storiche hanno abbondantemente dimostrato.
2. Le prove
generali
Dopo la
Conferenza di Monaco dei 1938, HitIer invade la Cecoslovacchia, rendendo di
fatto ineluttabile la Seconda guerra mondiale. Nel frattempo, l'Italia annette
l'Albania dopo che il re Zogu è stato deposto
Mentre Benito Mussolini sperpera soldi, uomini e materiali in Spagna, Adolfo
Hitler si prepara ad attirare l'Italia nella sua orbita e a procedere alle sue
conquiste territoriali, rifacendosi di alcuni scacchi temporanei. Nel 1936
convince l'Italia a creare l’Asse Roma-Berlino, vanificando rapidamente ogni
traccia di politica italiana di mediazione e di equilibrio tra le grandi potenze
europee. Un anno dopo, complici le spettacolari parate e manovre militari
organizzate dai tedeschi per il duce, Roma aderisce al patto anti-Komintern che
la vede unita insieme a Berlino e Tokio nella lotta globale al comunismo. A
questo punto Mussolini il 13 marzo 1938 non può più rifiutare all'alleato
germanico il tanto agognalo AnschIuss (annessione) dell'Austria. Tra due ali
folte di folla plaudente e commossa, Hitler fa il suo ingresso trionfale a
Vienna, che in quel momento non si sente affatto vittima del nazismo bensì
partecipe dell'esaltante espansione del grande Reich tedesco. Seguendo la
classica tecnica del carciofo, il capo nazista piazza un altro colpo nella
vulnerabile Cecoslovacchia. Quello Stato che oggi vediamo pacificamente separato
in due repubbliche, oltre ad essere percorso da analoghe tensioni tra ceki e
slovacchi, aveva anche una forte minoranza tedesca nei Sudeti.
I tedeschi dei
Sudeti erano già in uno stato di grande effervescenza non fosse altro che per il
potente richiamo esercitato dalla grande madrepatria, un passo oltre la
frontiera. La Francia era teoricamente impegnata dal trattato di Locarno i
difendere la Cecoslovacchia, che era l'unica democrazia funzionante in tutta la
Mitteleuropa, anche perché nei Sudeti si trovava l'importante risorsa strategica
delle celebri acciaierie Skoda. In pratica, l'Europa ebbe modo di assistere a
una resa vergognosa mediata da una teatrale conferenza a quattro (HitIer,
Mussolini, Daladier e Chamberlain), convocata dal dittatore fascista a Monaco
(settembre 1938). La Cecoslovacchia, come già prima l'Etiopia, viene
letteralmente offerta in pasto. Il Signore della Guerra si era reso
perfettamente conto della situazione e nel marzo 1939, dopo aver annesso i
Sudeti, occupò il resto della Cecoslovacchia proclamando unilateralmente il
protettorato di Boemia e Moravia. La Slovacchia sotto la guida di monsignor Tiso
si proclamò indipendente ponendosi sotto la protezione tedesca. Fu il primo
serio campanello d'allarme per i politici dell'appeasement, i quali si
ripromettevano di puntare i piedi per il successivo drammatico appuntamento in
Polonia. Mentre si consumava la tragedia nazionale ceka e slovacca, Mussolini
(visibilmente irritato per non essere stato preventivamente informato della
mossa dal sua alleato) decise di invadere l'Albania (7 aprile 1939). In realtà
non valeva nemmeno la pena di spodestare il debole Re Zogu: sarebbe stato forse
meno costoso continuare a mantenerlo nell'orbita italiana, anziché montare
un'operazione militare. Ma la logica del fascismo voleva un facile trionfo.
NEL PAESE DELLE
AQUILE.
I carabinieri erano
entrati in terra di Albania già nel 1928 con un gruppo di istruttori di
educazione fisica appartenente alla missione militare italiana, Questa missione
aveva seguito le due precedenti missioni (una delle quali aveva fornito
l'occasione per il bombardamento di Corfù) incaricate essenzialmente di
delineare i confini greco-albanesi. Durante lo svolgimento di quelle missioni
dal 1923 al 1926 i militari italiani avevano assistito alla rapida ascesa al
potere di un giovane ed ambizioso feudatario della regione del Mali. Alimed Bej
Zogolli, alla testa della sua fedele milizia di dibrani e di sudditi del Mati,
era riuscito al termine di una serie di complicate lotte intestine a conquistare
il potere a Tirana. Nel gennaio 1925 Zogolli si era fatto proclamare presidente
e capo del governo, affrettandosi prima a sostituire il precedente esercito con
una milizia a lui fidata e poi a creare la coscrizione obbligatoria. Insieme ai
loro colleghi di altre armi, i carabinieri avevano tenuto corsi di istruzione
post-militare, propedeutici al servizio di leva, e corsi di educazione
post-militare per migliorare la qualità dei riservisti. La loro attività,
coronata dal successo dell'introduzione della leva obbligatoria, si era conclusa
nel 1933.
Nel 1939 i
Carabinieri Reali sbarcarono nuovamente in Albania insieme con 16 sezioni e
plotoni mobilitati al seguito della forza d'invasione. Il compito loro affidato
era fondamentalmente quello di mantenere l'ordine tra la popolazione civile e
svolgere le usuali funzioni di polizia militare, complicate dalla presenza di
numerose spie straniere. Il 12 aprile 1939 un'assemblea costituente, sostenuta
dal governo d Roma, dichiarò decaduto Zogu (che nel 1928 si era fatto proclamare
Re d'Albania dal Parlamento) decretando l'unione personale di Italia e Albania
nella persona di un luogotenente del Re. A partire da quella data fu avviata la
costruzione di un apparato statale fedele al nuovo governo. Per rimettere ordine
nella polizia locale il governo albanese affidò il comando generale della
gendarmeria albanese al divisionario dei Carabinieri, generale Agostinucci (24
maggio). La gendarmeria era stata creata proprio vent'anni prima da ufficiali
italiani ed Agostinucci era un buon conoscitore della situazione locale, in
quanto era stato proprio lui il capo di quel famoso gruppo di istruttori di
ginnastica. L'allora Comandante Generale dell'Arma, generale Riccardo Moizo,
dispose lo scioglimento di nove sezioni e plotoni mobilitati per affiancarli nel
servizio territoriale alla gendarmeria albanese. Nell'estate del 1939 si dette
luogo alla fusione tra le forze armate italiane ed albanesi, nonché all'invio di
altri effettivi dall'Italia per infittire il dispositivo di sicurezza. I compiti
operativi erano tre: disarmare le popolazioni, arrestare sovversivi e
resistenti, restaurare la pubblica sicurezza specialmente nelle zone montane.
Missioni difficili, che furono compiute con l'ausilio di apposite compagnie
miste mobili (due nel Mali e nello Scutarino) e di plotoni mobili (regioni del
Dibran e del Kossovo). Queste unità, insieme al dispositivo territoriale,
riuscirono, in circa un anno, a cogliere risultati sostanziali pacificando
quelle zone turbolente. Una fatica di Sisifo presto vanificata da un'altra
grande guerra.
IL PATTO
D’ACCIAIO.
Ancora inebriato
dalla sua conquista albanese, Mussolini firma il 22 maggio 1939, un patto che si
rivelerà una vera e propria cambiale in bianco. Sotto l'altisonante nome di
Patto d'Acciaio, i tedeschi ottengono in pratica l'alleanza militare automatica
di Roma quali che siano le cause del conflitto. L'astuto e cinico ministro degli
Esteri del Reich germanico, Joachim veri Ribbentropp, al momento della firma si
premura di rassicurare gli alleati che Berlino non sarà pronta alla guerra se
non dopo tre anni. La verità è che lo stato maggiore della Wehrmacht ha già
ricevuto l'ordine di preparare la campagna della Polonia. L'ambasciatore
italiano in Germania, Attolico, tenta di mettere in guardia Mussolini ma non
viene ascoltato . Il dittatore italiano e i suoi collaboratori si illudono che
il trattato assicuri loro il diritto ad una preventiva consultazione con il
grande alleato: Hitler non è disposto a consultarsi con nessuno. La trama
diplomatica del Fuhrer si apre con la richiesta aggressiva del ritorno della
città di Danzica alla Germania e la relativa creazione di un corridoio stradale
tra la madre patria e la città. Inoltre Berlino invita Varsavia ad entrare nel
patto anti-Komintern, anticamera per una definitiva satellizzazione. Questa
volta Francia e Gran Bretagna offrono precise garanzie alla Polonia, che
irrigidisce la sua posizione, e cercano l'appoggio diplomatico dell'URSS nella
speranza di creare una tenaglia che intimidisca Hitler. Ma Stalin non è un
alleato naturale delle democrazie occidentali e i polacchi, molto diffidenti nei
confronti dei russi, negano ogni diritto di transito alle truppe sovietiche per
la difesa del loro Paese. Come se non bastasse fra Ribbentropp e Molotov, il
ministro degli Esteri sovietico, si intesse un proficuo dialogo diplomatico che
sfocia in un patto di non-aggressione, che prelude di fatto all'ennesima
spartizione della Polonia.
3. La guerra
lampo
Il 1° settembre
1939 le truppe tedesche varcano la frontiera con la Polonia. L'esercito polacco,
forte di 800.000 uomini al comando del maresciallo Edward Smiglv-Rydz, vive in
una specie di allucinazione collettiva. I polacchi hanno ancora reparti di
cavalleria molto ben addestrata che ha compiuto grandi gesta nella guerra
russo-polacca. "Vestiti di ferro, sotto la guida di Smigly-Rydz, marceremo su
Berlino", cantano le truppe. L'illusione dura lo spazio di un mattino. La Luftwaffe scatena 1.600 apparecchi in una sistematica campagna di bombardamento
su tutti gli obiettivi di un qualche interesse. Ponti, concentramenti di truppe,
aeroporti, sedi di comando, officine vengono distrutti da continui attacchi
accuratamente coordinati. Il servizio d'informazioni tedesco, che dispone di
molti collaboratori in Polonia, viene tempestivamente a conoscenza di tutte le
mosse e le dislocazioni importanti. In tre giorni la debole aeronautica polacca
è completamente annientata. Mentre il rombo degli aerei perseguita dall'alto
civili e militari, a terra si assiste fin dalle prime ore alla massiccia
avanzata di centinaia di Panzer che allargano una gigantesca tenaglia da nord,
ovest e sud. Sono 60 divisioni di cui nove corazzate, strutturate in due gruppi
di armate agli ordini dei generali Fedor von Bock e Gerd von Rudstedt. Le armate
polacche sono disposte a cordone lungo la frontiera, mentre i tedeschi
sviluppano potenti cunei . che affondano senza sforzo nel debole dispositivo
avversario.
Hitler, memore che
la rovina del suo Paese nella passata guerra fu causata dalla lotta su due
fronti, chiede ai suoi generali di sviluppare un nuovo tipo di tattica. Basta
con le grandi battaglie d'attrito che consumano tempo, uomini e materiali in
macine senza fondo. Occorre folgorare l'avversario in una girandola di colpi ben
assestati da truppe sempre in movimento. Nel periodo tra le due guerre i
migliori cervelli dello stato maggiore prussiano hanno studiato a fondo il
problema, sfruttando le lezioni del passato. Da Moltke senior è stata ereditati
l'attenta pianificazione e la fluida esecuzione delle fasi della mobilitazione e
del concentramento, dal generale Hutier l'intuizione che i centri di resistenza
devono essere aggirati per essere poi conquistati, dall'italiano Douhet
l'importanza dell'aeronautica. Le prime esercitazioni vengono effettuate con
finti carri armati, poi l’URSS mette a disposizione campi segreti per
l'addestramento delle prime formazioni corazzate in cambio del know-how tedesco.
La guerra di Spagna, come abbiamo visto, fornisce un tragico banco di prova, ma
il debutto vero e proprio avviene in Polonia. Il mondo, grazie anche
all'abbondante materiale fotografico e filmato fornito dalle efficienti unità di
propaganda da combattimento della Germania, assiste impotente ad una guerra
nuova fiammante: il Blitzkrieg (guerra lampo).
Così, in bianco e
nero nei popolari cinegiornali e nelle salette dei circoli di governo, gli
spettatori vedono le terrificanti picchiate degli aggressivi Junkers Ju-87
Stukas (abbreviazione per aereo d'attacco in picchiata) che colpiscono con
tremenda precisione gli obiettivi e l'avanzata inarrestabile dei Panzer o gli
sbarramenti perfettamente coordinati delle artiglierie, seguite dai grandi balzi
delle fanterie nel caratteristico elmo d'acciaio. In 17 giorni la Polonia è
schiantata, Varsavia è invasa, le armate polacche sono ridotte a branchi erranti
di sbandati. Poco dopo calano le truppe sovietiche per reclamare la loro fetta
di quello sventurato Paese. Come reagiscono la Francia e la Gran Bretagna? Dove
sono le loro truppe mentre si compie lo scempio di Varsavia? L'insieme delle
democrazie ad ovest del Reno commette un fatale e, sembra, ricorrente errore.
Invece di lanciare vigorosamente le forze congiunte per stroncare l'aggressione,
si lasciano avvolgere dalle divergenze d'interessi, dalle chiacchiere, da
un'opinione pubblica naturalmente pavida e da miti sempre verdi e sempre
nefasti. Nascono così le illusioni del blocco navale, dello strangolamento
economico, della neutralità, dell'efficacia delle difese apprestate. Belgio ed
Olanda pensano di salvarsi con la neutralità, invece di coordinare le difese con
quelle franco-inglesi. L'Inghilterra spedisce la BEF (British Expeditionary
Force), composta da 400.000 uomini, nell'area di Lilla e Arras, con il compito
di attendere gli eventi.
I maggiori errori
vengono commessi dalla Francia, che dopo aver pagato nella Grande Guerra un
tributo atroce di uomini nel fango delle trincee, decide di puntare, per la
difesa delle proprie frontiere su una immensa trincea attrezzatissima. Il
ministro della Difesa André Maginot ha chiesto a suo tempo i fondi necessari per
le fortificazioni. Cemento e acciaio sono stati profusi per creare una barriera
inespugnabile, irta di sensori, cannoni e mitragliatrici. Chilometri di gallerie
sotterranee permettono di spostare truppe e munizioni al coperto. Depositi
protetti assicurano cibo e riposo. Non è stato possibile, per motivi economici,
far arrivare la fortezza fino al mare: ci si affida, per il versante nord alle
fortificazioni belghe e alle foreste delle Ardenne. Soltanto una voce si leva a
raffreddare le certezze dei militari francesi: è quella di un giovane ed
arrogante colonnello, Charles Da Gaulle, che ha il coraggio di scrivere che la
vera corazza del futuro è quella semovente rappresentata dai carri
armati,autentica cavalleria di sfondamento. Parole al vento, solo i tedeschi
meditano su di esse. Gli altri fanno affidamento sullo scudo della Maginot,
impresa di un politico previdente, ma non preveggente. La marcia tedesca prima
sommergerà Danimarca e Norvegia con una serie di audacissimi sbarchi navali ed
aerei. Poi inonderà la Francia e raggiungerà Parigi, aggirando la fortezza,
inutile come una nave in secca.
4. L'Italia
nel conflitto
Mussolini è al
corrente della scarsa preparazione bellica italiana. Ha ricevuto ripetuti
avvertimenti in proposito. Lui stesso ha una volta ammesso che l'Italia era
meglio preparata alla guerra nel 1915 che nel 1939 e ha potuto verificare di
persona che le divisioni pronte al conflitto non hanno la consistenza
necessaria. Non sono motti i rapporti delle gerarchie militari che denunciano le
carenze del nostro armamento: molti generali preferiscono tacere, convinti che
questo sia il modo migliore per non compromettere la propria carriera. E
tuttavia alcuni alti ufficiali fanno arrivare al duce le proprie osservazioni e
riserve. Il colonnello Canevari, un mese prima dello scoppio della guerra,
avverte che la motorizzazione del regio esercito è precaria e che le divisioni
sono corazzate solo di nome. Il generale Graziani mette in rilievo lo scarso
coordinamento fra aviazione e marina, definendo antiquata la prima e del tutto
inadeguata la seconda, che non ha a disposizione portaerei. Per circa un anno
Mussolini frena le proprie velleità belliche a causa della troppo evidente
impreparazione militare. Ma le vittoriose campagne germaniche in Belgio e in
Francia lo convincono ad affrettare i tempi, nell'illusione che un sacrificio di
qualche migliaio di morti risulterà sufficiente per conquistare il diritto di
sedersi al tavolo dei vincitori. Senza nemmeno consultare il gran consiglio del
fascismo, il 10 giugno 1940 il duce proclama dal balcone di palazzo Venezia
l'entrata in guerra.
Annota amaramente
nel diario l'esule antifascista Pietro Nenni: "E’ una guerra senza ragione,
senza scusa, anche senza onore. Senza ragione, perché non è in giuoco alcun
reale interesse italiano. Senza scusa, perché una vittoria tedesca in questa
guerra importerebbe a noi, come al resto dell'Europa, l'intollerabile e brutale
egemonia di Hitler. Infine senza onore, perché Mussolini attacca una Francia già
invasa e agonizzante, facendo assumere all'Italia la parte dello sciacallo».
Anche l'Arma partecipa alla cosiddetta battaglia delle Alpi, una modesta
penetrazione nella Savoia che non si risolve in un disastro solo perché
l'armistizio con la Francia entra in vigore il 25 giugno. Nell'imminenza del
conflitto il regime aveva emanato per i Carabinieri Reali un nuovo regolamento,
denominato Servizio in Guerra, che concentrava la sua attenzione sulle misure di
polizia per la prevenzione e l'eliminazione di danni arrecati dalla diffusione
di notizie militari o da infrazioni alle leggi vigenti. Particolare cura, sulla
scorta delle dure esperienze antiguerriglia compiute in Libia ed Abissinia,
veniva rivolta al controllo della popolazione civile con la missione di «far
osservare alle popolazioni civili delle operazioni le leggi, i regolamenti, le
ordinanze e i bandi dell'autorità militare; prevenire e reprimere i reati;
custodire gli arrestati".
GRECIA AMARA.
Per lo sforzo
bellico l'Arma mette a disposizione un notevole numero di unità: 36 battaglioni;
un battaglione paracadutisti; uno squadrone a cavallo; un gruppo autonomo; 19
compagnie autonome; un nucleo per la base tradotte; 410 sezioni (miste, alpine,
motorizzate, celeri, per l'aeronautica); nuclei per gli uffici postali, nonché
comandi Carabinieri presso tutte le grandi unità dal gruppo d'armate alla
brigata e presso le basi aeree e navali. La campagna di Grecia sarà il vero
battesimo del fuoco per i Carabinieri in guerra. E’ un'avventura decisa
d'impulso da Mussolini, irritato per l'inattesa invasione tedesca della Romania;
pianificata in modo molto approssimativo (anche perché il duce ha ignorato
ostinatamente le cifre della forza greca fornitegli dai servizi) ed eseguita
ancor peggio. Le dieci divisioni comandate dal generale Visconti-Prasca urtano
ben presto contro le munite difese apprestate dal generale Alexandros Papagos
lungo l'asperrima catena del Pindo. E’ una catastrofe perché dopo appena un mese
l'offensiva italiana viene frustrata da duri contrattacchi di soldati greci,
maestri nell'uso del mortaio e nell'assalto di fanteria, fierissimi nella difesa
della loro antica patria e disgustati per l'attacco da parte di un popolo
considerato confratello.
Tra il novembre e
il dicembre 1940 i greci attaccano con successo la posizione chiave di Koritza e
ributtano indietro gli italiani in Albania con gravi perdite di uomini e
materiali. L'inverno 1940-41 vede una difesa della linea Valona-Tepelino-Lago di
Ocrida. La campagna di Grecia viene generalmente ricordata per le imprese degli
alpini, in particolare quelli della divisione Julia, ma accanto a loro vi sono
anche i carabinieri del terzo battaglione. I seicento uomini del battaglione
vengono accolti a Durazzo e a Tirana da un violento bombardamento della
britannica RAF (Royal Air Force). Il 19 novembre sono Schierati cori il IX
reggimento alpini sulla linea a cavallo della strada Premeti-Perati. Quando il
nemico attacca la critica quota 665, i carabinieri comandati dal tenente
colonnello Giuseppe Contadini tengono duro e non accennano alla ritirata nemmeno
quando la pressione avversaria diventa quasi insostenibile. I militi fanno
piovere dozzine di micidiali bombe a mano e solo il cedimento di un altro
settore li obbliga ad arretrare. Una loro compagnia ha il difficile incarico di
coprire la ritirata e guaderà il fiume Sarandaporos dopo che i genieri italiani
hanno fatto saltare il ponte di Perati.
LE QUOTE DI
KLISURA.
Nel settore di
Premeti, presso il comando della Julia, il battaglione agisce come forza di
pronto intervento nei settori più minacciati. Il 16 dicembre presso il delicato
settore di Klisura la seconda compagnia difende con le unghie e con i denti la
quota 1117 di Shesh Mal. Costretti nuovamente alla ritirata, i carabinieri
cercano di fermare i greci lungo la mulattiera per Klisura. Accerchiati,
lanciano un violento contrattacco. E’ la vittoria, ma pagata con la morte del
loro comandante tenente Ronchey (medaglia d'oro) e con la perdita di un quinto
degli effettivi. Per tutto dicembre e gennaio l'esistenza del terzo battaglione
si sgrana in un doloroso rosario di sofferte resistenze e tremendi assalti in
una zona i cui nomi resteranno impressi nelle menti dei superstiti: Chiarista,
Fratint, quota 287 a Klisura. Le loro gesta varranno una medaglia di bronzo alla
bandiera dell'Arma. In tutto il settore greco-albanese sono presenti 106
ufficiali dell'Arma, 280 sottufficiali e 5.800 militari a piedi, più 97 uomini
dello squadrone a cavallo. Oltre al III battaglione mobilitato ve ne sono altri
nove, tutti impiegati a fondo sia nei combattimenti intorno a Monastir, sia
nella sicurezza contro il numero crescente di bande partigiane nella zona del
Kossovo e di Scutari, sia nella difesa del passo Llogorà o di altri punti
critici del fronte greco, sia nel servizio di polizia. La disgraziata campagna
avrà un sussulto in marzo con un tentativo di offensiva italiana per spezzare le
reni alla Grecia. Il sangue versato è molto, il valore indiscutibile, ma i
risultati militari sono scarsi.
La soluzione arriva
attraverso le operazioni del potente alleato. Hitler, visto sfumare il piano di
invadere la Gran Bretagna, è pronto a sgombrare la scacchiera per aprire la
mortale partita con il regime di Stalin. L'Ungheria e la Romania sono già
entrate nella sua orbita, ma la Jugoslavia potrebbe rappresentare una minaccia
al suo fianco strategico. Prima di impiegare le sue preziose divisioni, il
Fuhrer cerca di ottenere il suo scopo con i mezzi della diplomazia. I suoi
proconsoli attuano un piano di forti pressioni sul principe reggente Paolo di
Jugoslavia per convincerlo ad entrare nell'Asse. L'obiettivo sembra raggiunto il
25 marzo 1941, quando Belgrado annuncia di essere entrata nel patto. Due giorni
dopo però un colpo di Stato depone il reggente, confidando nell'aiuto degli
inglesi sbarcati in Grecia. Invano: Belgrado verrà spazzata in nove giorni. La
possente macchina bellica della Wehrmacht è entrata in azione dopo appena dieci
giorni di preparativi spinta da un Hitler irritato per le scelte operate da
Mussolini, che hanno avuto l'unico effetto di allargare il fronte del conflitto.
Ma la partita in Grecia viene comunque risolta dai tedeschi in tempi
straordinariamente brevi: elementi dell'armata comandata dal maresciallo List
sfondano la linea fortificata Metaxas, volgendo in rotta i nemici e conquistando
la Grecia in meno di un mese.
5. In Africa
il fuoco nel deserto
I racconti della
guerra del deserto evocano automaticamente tre nomi carichi di emozioni e di
memorie: Rommel, Afrika Korps e Folgore. Anche dalla parte dei vincitori la
campagna d'Africa richiama alla memoria nomi carichi di gloria: Montgomery,
Desert Rats, France Libre. Ma, una volta tanto, i nomi che hanno conservato la
maggiore suggestione sono quelli degli sconfitti, anche se responsabili di una
guerra iniqua. La campagna africana non comincia bene per gli italiani, al
comando del generale Graziani. Forti di cinque divisioni potrebbero cacciare le
deboli forze inglesi dall'Egitto, ma l'inettitudine, la cautela e le difficoltà
logistiche li bloccano a Sidi Barrani. Bastano due divisioni rinforzate e un po'
di fortuna al generale Wavell per espellere alla fine del 1940 le forze fasciste
dall'Egitto. Nel febbraio del 1941 la Cirenaica viene invasa, Tobruk capitola e
a Beda Fomm si conclude la distruzione di un totale di nove divisioni italiane.
Il morale è a terra ma, quando arriva Erwin Rommel con la XXI divisione Panzer,
la situazione si modifica profondamente. Rommel, un prussiano di antenati
polacchi, aveva già combattuto nella Prima guerra mondiale e proprio a Caporetto
aveva imparato una grande lezione: la massa conta meno della concentrazione di
forze nel punto giusto e della manovra condotta con audacia.
Il 24 marzo Rommel
decide di riprendere l'iniziativa agli inglesi respingendo prima la loro forza
di copertura ad El Agheila, poi effettuando una decisa puntata sulla fortezza di
Tobruk. Wavell è colto di sorpresa e la sua II divisione corazzata viene
sfasciata nel tentativo di intercettare la manovra tedesca. In Africa compaiono,
al fianco delle "scatole da sardine" italiane, i moderni Panzer III e il
formidabile cannone da 88 millimetri. Inizialmente concepito come pezzo
antiaereo, le sue doti di micidiale ammazzacarri vengono scoperte per caso
durante la campagna di Francia. E’ Rommel che ne inventa un impiego più
aggressivo: li utilizza non solo come mezzo di sbarramento difensivo, ma anche
come moltiplicatore di fuoco, lanciato insieme alle corripagnie carri. Un
apparente buon senso consiglierebbe alle forze del Commonwealth britannico una
ordinata ritirata, ma a Wavell non sfugge l'importanza di tenere Tobruk, chiave
del vitale sistema di comunicazioni lungo la costa. Per questo decide di mettere
dentro la fortezza l'intera VII divisione australiana in modo da costituire una
spina nel fianco dell'Asse. Fallito un frettoloso assalto. Rommel cinge
d'assedio Tobruk e avanza sui passi di Sollum e Halfaya. Wavell, già fortemente
indebolito dall'inutile spedizione britannica in Grecia, è costretto da
pressioni politiche a Londra a far qualcosa per spezzare l'assedio di Tobruk.
L'offensiva ha scarse probabilità di successo, che vengono immediatamente
cancellate dall'abilità di Rommel; Wavell viene sostituito dal generale Sir
Claude Auchinleck. Mentre le armate dei due avversari si rafforzano e si dotano
di nuovi mezzi, arriva anche una piccola, ma scelta unità dei Carabinieri.
PARA' CON GLI
ALAMARI.
Il battaglione
Carabinieri paracadutisti nasce nella stessa culla delle aviotruppe italiane, la
scuola paracadutisti di Tarquinia. Sulle stesse torri di lancio dove si
addestrano i ragazzi della divisione Folgore, dal 15 luglio 1940 si svolge anche
l'istruzione dei carabinieri. Sono identici i paracadute impiegati (prima il
Salvator D, poi il più sofisticato IF 41/SP, la cui sigla vuol dire "Imbracatura
Fanteria mod. 41/ Scuola Paracadutisti"); sono identici i velivoli impiegati per
i lanci, tra cui i mediocri Caproni Ca. 133. L'addestramento e la selezione sono
durissimi, qualcuno non supera gli esami, qualcuno rimane vittima di incidenti
mortali. Alla metà di luglio arriva improvviso l'ordine di partenza per l'Africa
"a disposizione di quel Comando Superiore FFAA". Rinunciando a un piano di
invasione dell'isola di Malta, i paracadutisti italiani vengono impiegati nella
fornace libica come semplice fanteria scelta. Tra luglio ed ottobre le forze dei
due contendenti in Libia si riorganizzano in vista del prossimo cielo di
operazioni. L’VIII armata britannica viene portata alla forza di sette divisioni
e di 700 tank. La Desert Air Force raggiunge i 1.000 aerei. Nelle forze
dell'Asse l'Afrika Korps si espande con la XV divisione Panzer e le più ridotte
90° e 164ª divisioni leggere, alle quali si aggiunge un corpo di sei divisioni
italiane. Sono schierati per l'offensiva 260 Panzer e 154 carri italiani, più
120 aerei germanici e 200 italiani. La sproporzione di forze neri è
trascurabile, anche se Rommel, soprannominato “la volpe del deserto", non mostra
di preoccuparsene eccessivamente.
La mossa di
apertura tra le desolate pietraie e la stretta fascia verde costiera viene
compiuta da Auchinleck con un attacco di sorpresa a Marsa Matruh che mira a
insaccare le forze dell'Asse a Sollum e Bardia. Rommel riesce a battere gli
inglesi in una confusa battaglia a Sidi-Rezegh e contemporaneamente a respingere
una sortita da Tobruk. Poi sferra un improvviso colpo nella profondità delle
retrovie nemiche. Soltanto le capacità di Auchinleck impediscono che il morale
degli Alleati venga distrutto dalle abili mosse di Rommel: il comandante
britannico riesce anzi a intrappolare parte dell'Atrika Korps. I tedeschi
rompono l'accerchiamento e attuano una rapida ritirata in dicembre, sotto la
continua pressione dei britannici che arriveranno fino a Bardia. E’ in questo
momento che il 1° battaglione Carabinieri paracadutisti, al comando del maggiore
Edoardo Alessi, riceve (il 14 dicembre) l'ordine di attestarsi sul bivio di
Eluet el Asel, a sud di Berta, con il secco ordine di resistere ad oltranza.
Sembra una richiesta di suicidio per fonogramma. Sono solo 400 uomini,
rinforzati da 6 cannoni controcarro da 47/32 millimetri dell'8° reggimento
bersaglieri, dotati di 400 bombe controcarro Passaglia e di una settantina tra
fucili mitragliatori e mitragliatrici. Come resisteranno all'VIII armata
avanzante? Dovranno arrangiarsi perché i loro commilitoni in ritirata sulla
litoranea hanno bisogno di tempo per sfuggire alla cattura. La sera del 18
dicembre una pattuglia riferisce di mezzi in avvicinamento. Alle 5,55 del 19 i
cannoni controcarro inquadrano il facile bersaglio di cinque camionette. E’
l'inizio di uno scontro violentissimo, che si apre con il tambureggiante fuoco
di preparazione dell'artiglieria inglese.
Alle 15,15 un
battaglione nemico tenta di colpire in una zona pianeggiante. Il maggiore Alessi
ha previsto la mossa e piazzato due dei suoi cannoni, ma la situazione diventa
sempre più critica. Nonostante l'intensa fucileria, i fanti nemici, appoggiati
da tank ed autoblindo, si avvicinano pericolosamente. Resistere sul posto
sarebbe l'annientamento, ritirarsi non è consentito. I Carabinieri parà si
lanciano dunque in un terribile contrattacco armati delle loro Passaglia. Ci
vuole arte e fegato per usarle. Bisogna correre verso il tank sferragliante con
le mitragliatrici che sparano dovunque, evitare di finire sotto i cingoli,
lanciare la bomba con precisione sul vano motore e buttarsi a terra. Quando
l'ordigno penetra dentro il carro, succede l'ira di Dio: le fiamme divampano, il
liquido idraulico schizza rovente per ogni dove e le munizioni possono saltare.
E’ una giostra infernale di attacchi e contrattacchi. A sera i britannici si
ritirano. Al diavolo questi italiani testardi, domani è un altro giorno e
saranno schiacciati con comodo. Per i carabinieri non c'è il domani. Alle 18,40
arriva finalmente l'ordine di ripiegare, restano tre plotoni di copertura e
l'appuntamento per tutti è fissato ad Agedabia. Lungo la via Balbia il
battaglione incontra un'altra colonna, ma è ferma.
LA NOTTE DEGLI
ASSALTI.
Gli inglesi hanno
bloccato in più punti la Balbia e questo al bivio di Lamluda è uno dei loro
posti di blocco. La zona è battuta da ogni tipo di arma: si sente lo gnaulio
delle pallottole, il fragore delle bombe da mortaio, la botta secca dei pezzi da
5 libbre. I parà scivolano silenziosamente ai due lati dello sbarramento e si
avventano sul nemico all'improvviso, preceduti dallo scoppio delle loro bombe
Passaglia. I nemici si danno alla fuga. Via libera, ma solo per qualche
chilometro. Un altro sbarramento, più solido del primo, ferma di nuovo la
difficile marcia. Gli inglesi fanno uso dei razzi verdognoli per chiamare a
raccolta gli uomini per fronteggiare la colonna di italiani, che si aprono la
strada lanciando le loro Passaglia. Alcuni mezzi prendono fuoco, si sentono le
urla dei feriti. Dopo tre ore di assalti l'ostacolo è rimosso. Forse gli uomini
potranno concedersi qualche ora di riposo. Non è così: una nutrita scarica di
armi automatiche avverte i carabinieri che, poco più in là ci sono altri
inglesi.
Alessi raduna di
nuovo i suoi uomini, anche se è ormai difficile far eseguire gli ordini e
mantenere l'ordine dei reparti. Dopo ore di battaglia, ciascuno si muove per
proprio conto. Ma anche il nuovo blocco viene superato. Non è finita: una mina
spezza in due la colonna. Chi resta indietro sarà catturato all'alba dopo una
disperata resistenza, ma il battaglione ce la fa ed arriva quasi senza problemi
ad Agedabia. Chi ha avuto qualche seccatura in più sono i tre plotoni di
retroguardia ad Eluet el Asel. I britannici hanno cercato in tutti i modi di non
farli sganciare. Solo con l'arrivo della notte i superstiti possono sgusciare
inosservati tra le maglie nemiche e raggiungere le proprie linee dopo molte
avventure.
L'INIZIO DELLA
FINE.
Per il battaglione,
che conta solo 91 superstiti in grado di combattere, è la fine come unità
operativa. Il 13 maggio 1942 arrivano al Comando Generale le congratulazioni del
Capo di Stato Maggiore dell'Esercito per il primo battaglione di paracadutisti
italiani per fondazione ed impiego bellico che si è cosi valorosamente distinto.
Un riconoscimento ancor più esaltante, che testimonia il grande coraggio
dimostrato, viene da parte del nemico. Radio Londra ammette nei suoi notiziari
che "i paracadutisti italiani si sono battuti come leoni: fino ad ora. in
Africa, i reparti britannici non avevano mai incontrato una resistenza cosi
accanita". Presto altri colleghi parà meriteranno la gloria per una resistenza
altrettanto eroica. Tutto il 1942 vede la vittoriosa avanzata di Rommel fino
alle porte dell'Egitto. Non lo ferma la superiorità dei mezzi nemici, ma lo
schieramento di fortini sulla linea di Ain Gazala, non la resistenza valorosa
delle truppe francesi a Bir Hacheim. non le potenti fortificazioni di Tobruk.
E’ solo per
esaurimento fisico e logistico che le sue armate si fermano nella strozzatura
creata nel deserto dalla depressione di Qattara. Rommel prova ancora un'audace
azione tra agosto e settembre con la battaglia di Alam Halfa. Lo fronteggia un
nuovo generale duro. prudente e metodico, Alan Montgomery, che resiste senza
cedere e lo costringe alla difensiva. Da allora si assiste all'impressionante
crescita delle forze dell'VIII armata, alla quale gli italo-tedeschi possono
solo contrapporre ingegnose difese e campi minati, che vengono soprannominati
"giardini del diavolo". Quando Montgomery é pronto ad El Alamein, le sue
fanterie dovranno sudare parecchio per penetrare le difese, anche se alla fine
lo sfondamento sarà inesorabile. Toccherà all’orgogliosa divisione Folgore
raccogliere l'eredità dei Carabinieri paracadutisti e scrivere un'altra pagina
di straordinario valore. I carabinieri continuano a combattere come sempre su
questo ed altri fronti. Li vedremo all'opera nella lontana Africa Orientale
Italiana e nelle distese della Russia, ma nulla potrà allontanare la sensazione
dell'inizio della fine.
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NOTE
FONTI
Il sito ufficiale dell'Arma dei Carabinieri
www.carabinieri.it