Si ringraziano Alessandro Politi e il sito
ufficiale dell'Arma che hanno reso possibile la pubblicazione di
questo articolo, che trovate in versione integrale all'indirizzo
www.carabinieri.it
La caduta del fascismo
1. Premessa
Quel che sta
accadendo oggi in Somalia ha forse riportato alla mente di molti anziani i
ricordi della guerra in Africa, all'inizio degli anni Quaranta. Piazze e strade
delle nostre città sono ancora dedicate all'Amba Alagi o al Duca d'Aosta, il
segno di un'epopea che non può essere dimenticata, anche perché la lotta fu
allora impari e dolorosa, con una drammatica inferiorità di mezzi e di uomini. I
Carabinieri scrissero pagine di gloria in Etiopia su quel fronte intriso di
fatica e di dolore: caldo, marce spossanti, poca acqua e poco cibo, molte
mosche. La guerra avrebbe riservato altre tragedie di pari, se non maggiore,
entità: la campagna di Russia, con il dramma dell'ARMIR, e poi la disfatta, la
caduta del fascismo, l'8 settembre, lo sbandamento del "Tutti a casa". Soltanto
dopo di allora i nostri soldati, e non soltanto loro, poterono rialzare la testa
nella lotta contro gli invasori nazisti, nella guerra partigiana. Questa è la
cronaca delle pagine più amare, del periodo che va dalla sconfitta in Africa ai
giorni immediatamente successivi all'armistizio.
2. Le prove
generali
Nel 1941, in
Africa, i soldati italiani si coprirono di gloria, ma non riuscirono a resistere
alle truppe alleate. Fu quello il segno della svolta che si consumò poi in
Russia e, infine, sul fronte occidentale.
L'Etiopia, pilastro
dell'impero fascista, non era mai stata completamente soggiogata e i Carabinieri
Reali avevano continuato la loro opera dura e tenace. Le prime vittime del
dovere furono proprio due carabinieri sorpresi poco dopo lo scoppio del
conflitto dal voltafaccia di un capo tribale appena sottomesso. Un gruppo di
armati piombò dentro la stazione dei Carabinieri a Marmarefià intimando ai due
militi di cedere le armi. Savino Cossidente rifiutò, ingaggiando una lotta
selvaggia. Il suo collega, Mariano Vincenti, tentò di lanciare bombe a mano.
Entrambi furono uccisi a pugnalate. L'Arma li ricorda rispettivamente con una
medaglia d'oro e una d'argento. All'inizio il rapporto di forze era ancora
favorevole agli italiani: l'impero britannico doveva ancora mobilitare appieno
il suo potenziale militare. Una fortunata offensiva (luglio 1940) sviluppò un
saliente nella zona di Cassala, per conquistare poi tutto il Somaliland
britannico. Per una volta, l'offensiva non era stata motivata da manie di
grandezza, ma dall'esigenza di conquistare un avamposto strategico da cedere, in
caso di necessità, per guadagnare tempo. Le linee logistiche con la madrepatria
erano totalmente controllate dal canale di Suez e solo un esito positivo della
guerra nel deserto avrebbe potuto riaprirle. Già nel settembre 1940 i britannici
avevano raccolto forze sufficienti per passare al contrattacco e nel gennaio del
nuovo anno Cassala fu ripresa, il Somaliland fu riconquistato e la Somalia fu
invasa da sud.
La guerra si
snodava in una serie di assedi inglesi a punti chiave del territorio occupato
dagli italiani, i quali opponevano una ostinata resistenza. Gli stessi inglesi
definirono la piazzaforte di Cheren "a hard not to crack" (una noce dura da
schiacciare). Solo dopo averla espugnata, il 27 marzo, furono in condizione di
avanzare nella prima settimana di aprile fino a Massaua. A Cheren si distinse la
3ª Compagnia Carabinieri e Zaptjé, comandata dal capitano Felice Levet. Appena
giunta in zona, il 5 marzo, fu scaraventata a riconquistare la quota 1702 sul
monte Tetri. I mezzi erano esigui come sempre, mitragliatrici leggere e bombe a
mano, ma la furia dell'assalto fu tale da costringere i nemici ad abbandonare la
posizione. Sei giorni dopo, la Compagnia, rinforzata da un altro plotone di
carabinieri, fu dislocata nella posizione critica di quota Forcuta. Preceduto da
un vigoroso bombardamento, avanzò un battaglione dello storico reggimento
scozzese dei Camerons. Erano soldati consci della tradizione di gloria che il
loro reggimento rappresentava ed erano ben decisi a sloggiare gli italiani. Ma
non ce la fecero. La 3ª Compagnia bloccò il loro attacco e con una squadra di
Carabinieri arditi stroncò rapidamente un riuscito sfondamento nemico. Una delle
anime della resistenza, il tenente Giovanni Satta, non lascia la postazione
benché gravemente ferito, mentre il brigadiere Attilio Basso, che aveva perso
una mano, lanciò con l'altra l'ultima bomba gridando "Fino a quando i
Carabinieri sono qui, il nemico non passa". Satta e Basso furono decorati con la
medaglia d'oro. Soltanto il giorno 26, ricevuto l'ordine di ritirata, gli eroi
superstiti ripiegarono mestamente. Pagine altrettanto degne di ammirazione
furono scritte dai carabinieri del II Gruppo mobilitato nella difesa dell'Amba
Alagi. La posizione dominante dell'Amba Uoghelè fu tenuta da una trentina di
militi, che riuscirono a far credere al nemico di essere in numero,superiore.
Insieme ai rinforzi respinsero gli avversari a valle dopo un feroce corpo a
corpo.
L'ULTIMA
BANDIERA A CULQUALBER.
La resistenza
eroica dell'Amba Alagi si era appena chiusa con l'onore delle armi (18 maggio
1941), ma il generale Guglielmo Nasi non si era ancora arreso nella città di
Conciar. Un quadrilatero di capisaldi avanzati (Uolchefit, Celga Blagir, Tucul
Dinghià, Sella Culqualber) proteggeva l'ultima città, nel raggio di una
cinquantina di chilometri, nella quale sventolasse ancora il tricolore. Durante
il mese di febbraio si era deciso di evacuare Gondar in modo da ridurre i
problemi di alimentazione per la guarnigione. Man mano che il nemico (lento,
metodico, attento a risparmiare uomini e mezzi) si avvicinava, i ras locali si
ribellavano rendendo sempre più insicura la periferia della città. Il 29
settembre cadde per fame il presidio di Uolchefit, mentre una nuova posizione fu
ricostituita al passo Ualag a 25 km da Gondar. Sella Culqualber era importante
perché controllava l'unica rotabile di buona qualità, al contrario del passo
Fercaber scarsamente transitabile. In agosto era giunto il I Gruppo mobilitato
Carabinieri e Zaptié che fu assegnato alla posizione detta del Costone dei
Roccioni in posizione dominante rispetto alla rotabile. I Carabinieri non
persero tempo e con mezzi di fortuna fortificarono il Costone con tronchi
d'albero, scavando nella roccia feritoie in ogni direzione. I viveri
scarseggiavano e anche le immancabili sigarette erano un vago ricordo
soppiantato da sigaretti di ogni tipo di foglia secca.
A settembre le
comunicazioni con Gondar furono tagliate e i Carabinieri effettuarono numerose
sortite per allentare la morsa dell'assedio. L'acqua veniva raccolta, correndo
molti pericoli, da due fiumiciattoli fuori dal raggio delle artiglierie amiche
oppure, in alternativa, da una minuscola sorgente o dallo sfruttamento della
condensa dell'umidità notturna. Ai primi dell'ottobre 1941 la fame si fece
sentire a tal punto, che il comandante del caposaldo di Culqualber, colonnello
Ugolini, decise una serie di puntate offensive al solo scopo di procurarsi i
viveri necessari. Il 18 ottobre le forze italiane conquistarono la ben fornita
posizione di Lamba Mariam e, grazie alla copertura dei carabinieri, i reparti
(dopo aver raccolto i viveri) riuscirono a rientrare con lievi perdite,
nonostante un pesante contrattacco nemico. Si trattò di un successo effimero. I
britannici intensificarono la pressione con continui bombardamenti,
cannoneggiamenti e attacchi di fanteria ed irregolari etiopi. Il 6 novembre un
potente assalto avversario si spezzò sul margine sud del caposaldo. I comandanti
britannici, esprimendo ammirazione per la resistenza opposta, invitarono gli
italiani alla resa. Invano. A partire dal 10 novembre gli inglesi prepararono
una nuova offensiva. Nella notte del 12 una valanga di bande Uollo, appoggiate
da battaglioni sudanesi e kikuyu si rovesciò sul Costone dei Roccioni. I
contrattacchi dei Carabinieri e degli zaptié, spesso all'arma bianca,
costrinsero il nemico a ripiegare la sera del 13. Per tutta la settimana gli
attacchi, spesso appoggiati da carri e blindati, si susseguirono senza sosta. Il
20, nonostante l'appoggio dell'aviazione e di molti mortai, gli avversari ancora
una volta fallirono l'obiettivo. Soltanto con un attacco generale su tutta la
linea e dopo sette pesanti assalti, la forza anglo-etiopica riuscì a domare
definitivamente questo manipolo di valorosi il 21 novembre. Furono i Carabinieri
ad ammainare l'ultima bandiera e a ripiegarla, prima di partire per la
prigionia.
3. L'inferno
dei Balcani
Dopo la disgraziata
campagna di Grecia e l'inseguimento della vittoriosa avanzata tedesca per tutta
la penisola balcanica, le truppe italiane di occupazione pensavano che quello
sarebbe stato un fronte tranquillo. Lontani dalle roventi pietraie libiche e
dalle sconfinate steppe russe, li sarebbe stato possibile godere la quiete di
una retrovia. Anche i carabinieri per quanto impegnati a creare la loro rete di
stazioni e tenenze, svolgendo i loro compiti d'istituto, non si immaginavano che
cosa sarebbe capitato nel giro di pochi mesi. Una parte della Slovenia (Lubiana)
venne occupata e annessa all'Italia; in Croazia i tedeschi appoggiarono la
creazione di un regno, destinato ad Aimone di Savoia, ma che in pratica era
nelle mani del poglavnik (duce) Ante Pavelic; la Serbia era ridotta ad un
protettorato guidato dal generale Nedic; alcune zone limitrofe erano occupate
dagli alleati ungheresi.
La Jugoslavia,
considerata un'artificiale creazione della pace di Versailles, sembrava
traumatizzata dalla sconfitta, ma nei boschi si nascondevano uomini armati che
stavano organizzando la resistenza. Molti erano ufficiali e sbandati
dell'esercito iugoslavo. In maggioranza serbi, orgogliosi della loro nazione,
niente affatto disposti ad accettare passivamente il crollo della loro patria e
pronti a lottare contro gli invasori perché il re potesse fare ritorno dal suo
esilio londinese. Molti avevano scelto la guerriglia, il sabotaggio, le
imboscate di cui furono spesso vittima i nostri soldati: ruote sgonfie, motori
mal riparati, fili della luce e del telegrafo tagliati, binari divelti. Quando i
carabinieri trovarono le prime sentinelle sgozzate a tradimento fu chiaro per
tutti che quei luoghi erano l'anticamera dell'inferno. Da allora in poi le
placide cittadine slovene, i pittoreschi paesaggi croati, i folti boschi della
Bosnia, le piane della Serbia, i monti macedoni ed albanesi si trasformarono in
zone inospitali nei quali la morte era in agguato continuo. Alla guerriglia
serba, bosniaca, slovena, reagirono con grande durezza i tedeschi e gli ustascia
croati: i primi erano addestrati alla controguerriglia; i secondi erano appena
riusciti a realizzare, con l'aiuto dei nazisti, il sogno della grande Croazia e
non intendevano davvero arrendersi ai loro nemici mortali, comunisti o
filomonarchici che fossero.
PARTIGIANI
OVUNQUE.
In Grecia i
rapporti con la popolazione locale erano progressivamente migliorati.
Inizialmente i greci avevano diviso i loro sentimenti nei confronti delle truppe
dell'Asse, che avevano occupato il Paese, riservando ammirazione ai tedeschi, la
cui avanzata era apparsa inarrestabile, e disprezzo agli italiani che avevano
penato così tanto sui monti del Pindo. L'arroganza dei tedeschi e l'umanità
degli italiani avevano mutato, in un secondo momento, l'atteggiamento della
popolazione. Ma anche questa seconda fase fu presto superata. La guerra
partigiana divise la Grecia fra collaborazionisti e patrioti, comunisti e
filomonarchici, traditori ed eroi. Gli agguati si moltiplicarono, le strade
diventarono insicure, nemmeno le caserme offrirono più un rifugio sicuro. Vi
furono episodi sanguinari e vergognosi, con imboscate e rappresaglie incivili,
senza più alcun rispetto umano. I prigionieri venivano spesso sottoposti a
maltrattamenti e torture. I rastrellamenti si susseguivano senza sosta, e anche
i carabinieri parteciparono a scontri durissimi. Molti pagarono con la vita la
loro fedeltà alla consegna ed alla bandiera. Il carabiniere Rahaman Gjanaj cadde
nel 1940 presso Scutari durante uno scontro con sei fuorilegge. Il suo collega
Alfredo Gregori fu preso prigioniero a Veli-Dolac e passato per le armi perché
non cantava con i partigiani (1941).
Al grido di "Viva
l'Italia" cadde sotto il piombo di un plotone improvvisato il vicebrigadiere
Bruno Castagna (Monte Maljnjek, 1942), anche lui catturato dopo un aspro
combattimento e rimasto insensibile alle minacce: non si era voluto togliere gli
alamari e i guerriglieri, scampati all'attacco della sua colonna mobile, lo
giustiziarono. Altri ebbero la fortuna di morire in combattimento. Il
vicebrigadiere Giovanni Calabrò scortava una disgraziata autocolonna che venne
falcidiata dalle raffiche di una imboscata. Benché ferito, prese il comando
della colonna, ma fu fulminato da una raffica mentre tentava di recuperare una
mitragliatrice. L'appuntato Sabato De Vita resistette con i suoi militi ad un
attacco nella sperduta stazione di Barmash. I nemici erano numericamente molto
superiori, ma lui non si arrese neppure quando fu incendiata la caserma. Morì
scagliando le ultime bombe a mano (Albania, dicembre 1942).
4. La
campagna di Russia
Una volta
sbarazzatosi del fastidioso inconveniente creatogli dall'alleato in Grecia e dai
nazionalisti jugoslavi, Adolf Hitler era pronto per scagliare la grande
offensiva con la quale contava di risolvere definitivamente in suo favore il
conflitto: l'operazione Barbarossa. Non era una campagna come le altre. Era la
prova suprema nello scontro con gli odiati comunisti e il mezzo per realizzare
il progetto della conquista di un "Lebensraum" (spazio vitale) ai danni della
razza slava. Stalin, che aveva favorito il riarmo segreto della Germania,
affiancando i nazisti nella guerra contro la Finlandia e partecipando alla
spartizione polacca, diffidava di Hitler, ma riteneva improbabile un attacco
tedesco contro la Russia. E non dette molto credito alle spie che moltiplicavano
le notizie allarmistiche in tal senso. Fu così che l'esercito sovietico si
presentò all'appuntamento con il destino con uno stato maggiore decimato degli
elementi più brillanti e con le armate disposte nel peggiore dei modi, a cordone
lungo la frontiera. Il 22 giugno 1941 i marescialli tedeschi mobilitarono la più
imponente forza corazzata mai vista sulla faccia della terra, la "Luftwaffe"
schierò centinaia di aerei e le divisioni tedesche e alleate erano così numerose
da rendere necessaria la creazione di gruppi di armate. Tre milioni di uomini
erano pronti all'attacco.
Il gruppo d'armate
Sud, agli ordini del brillante Rundstedt, doveva puntare su Kiev. Il gruppo
d'armate Centro, comandato dal maresciallo Bock (che aveva a propria
disposizione uno specialista di corazzati come il generale Heinz Guderian) aveva
come obiettivo Mosca, mentre Leningrado era la meta del gruppo d'armate Nord di
Leeb. I sovietici non avevano capito la tecnica del "Blitzkrieg". Nonostante la
macchina bellica nazifascista fosse inadeguata da un punto di vista logistico a
causa delle sterminate estensioni russe, le armate teutoniche macellarono e
catturarono in gigantesche battaglie d'annientamento intere armate sovietiche. I
tre marescialli Budionny, Timoshenko e Voroshilov assistettero impotenti alla
disintegrazione dei loro fronti nel giro di poche settimane. Il tridente
dell'Asse si avvicinò pericolosamente a Leningrado, Mosca e Stalingrado. Per
evitare la disfatta (che sembrava prossima), Stalin fu costretto a mettere in
subordine la fedeltà di partito facendo appello al nazionalismo russo. La
mobilitazione generale e l'arrivo del terribile inverno scongiurarono la
sconfitta. Nuovi marescialli, come Georgi Zhukov, organizzarono magistralmente
le difese di Mosca e si impadronirono rapidamente dei segreti della guerra
moderna. Carri tenuti segreti (come il leggendario T-34) uscirono finalmente
dalle fabbriche e i soldati invasori impararono presto a riconoscere l'ululato
sinistro delle katjushe, ironicamente chiamate dai tedeschi organi di Stalin.
TRA IL GELO E LA
MITRAGLIA.
Mussolini ancora
una volta era afflitto da un pernicioso presenzialismo. Hitler avrebbe preferito
che l'Italia fosse rimasta lontana dal fronte orientale e certamente sarebbe
stato più utile per noi impegnarci maggiormente nel delicato scacchiere
mediterraneo, ma le cose andarono in un modo decisamente diverso. Il 9 luglio
1941 il CSIR (Corpo Spedizione Italiano in Russia), composto dalle relativamente
moderne divisioni autotrasportate Pasubio, Torino e Celere, si adunò in Romania.
Pochi mesi dopo venne formata un'8ª armata per un totale di 10 divisioni agli
ordini del generale Gariboldi. L'ARMIR (Armata Italiana in Russia), forte di
220.000 uomini, 1.300 cannoni e 18.000 automezzi, fu schierata a Sud sul fronte
del Don insieme ai tedeschi ed ai rumeni. Dieci giorni dopo il suo arrivo
fronteggiò un pesante attacco russo (20 agosto 1942). Il rigido inverno russo
(pare che da decenni non facesse così freddo) sorprese l'ARMIR in un settore
debole del Don, insieme alle non certo robustissime 2ª armata ungherese e 3ª
rumena. I russi, che dal 24 agosto opponevano una strenua resistenza casa per
casa in furiosi, raffinati e crudeli scontri, avevano scelto anche quel settore
per scardinare le esili linee tedesche. L’11 dicembre il peso del rullo
compressore sovietico si scaricò sull’ARMIR lungo un fronte di 200 chilometri.
La resistenza italiana durò esattamente 10 giorni contro la massa di uomini,
artiglierie e carri abilmente e decisamente manovrata dai russi. Poi, il fronte
italo-rumeno-ungherese si sfaldò all'improvviso. Gli italiani furono costretti a
ripiegare e su Stalingrado si chiuse il coperchio del sarcofago della 6ª armata
tedesca di von Paulus.
Venti giorni dopo
le forze sovietiche riuscirono a imbottigliare il grosso delle truppe italiane
(11 gennaio 1943). Cominciò una tragica ritirata dal Don alla linea del Donetz
per un calvario di 400 chilometri. Gli uomini marciavano come automi,
paralizzati dal gelo, fino a quando non si accasciavano e si lasciavano morire
assiderati. Le squadre di partigiani e la cavalleria sovietica si accanivano
sulle disgraziate colonne affamate. I carabinieri erano presenti con un
battaglione, una compagnia, 45 sezioni e 8 squadriglie e condivisero in pieno la
tragedia della ritirata. La campagna di Russia fu teatro di grandi atti di
eroismo individuale e collettivo. Di un episodio straordinario fu testimone,
durante la tormentosa ritirata della divisione Torino, il sottotenente Attilio
Boldoni, comandante la 66ª sezione in forza alla Torino, insieme alla 56ª. Da
Popowka ad Arbusov la retroguardia sostenne durissimi combattimenti per
proteggere la ritirata, prima di arrivare alla conca di Arbusov, che venne
successivamente soprannominata la Valle della Morte.
UN CAVALIERE E
UN TRICOLORE.
Quando i russi
chiusero la sacca, il comando italiano e quello tedesco decisero di sferrare un
contrattacco generale. Ricorda Boldoni: "Sin dal mattino del 22 dicembre, la
situazione si fa tanto insostenibile che il comando della Torino, d'intesa con
il comando tedesco, decide di tentare un ultimo disperato sforzo per allargare
il cerchio, così da dare un po' di respiro alla difesa. Dovrebbe essere un
contrattacco generale delle truppe germaniche, irradiantesi nelle varie
direzioni più redditizie, dal centro, dove saranno riunite, per
l'accompagnamento dell'azione, le armi pesanti ancora utilizzabili (cannoni,
mortai e mitragliatrici). [ ... ] Arbusov è una località situata al centro di
alture che erano dominate dai russi. Questa località verrà poi indicata come
Alcazar degli italiani per i loro atti di eroismo". Il nome di Alcazar ricorda
la cocciuta resistenza dei reparti franchisti nell'Alcazar di Toledo durante la
guerra di Spagna. E’ un richiamo significativo delle condizioni disperate in cui
versavano gli italiani in quel momento. Gli italiani dovettero subire
completamente allo scoperto un bombardamento micidiale perché i tedeschi si
erano affrettati ad occupare tutte le case disponibili. Nelle loro ristrette
buche scavate nel terreno gelato i fanti sentivano sibilare la morte, con il
tonfo sordo dei potenti mortai da 120 millimetri, il boato delle granate di
grosso calibro e l'urlo delle katjushe.
Quando arrivò
l'ordine di forzare il blocco, gli atti di valore non si contarono. "A questo
punto", - racconta Boldoni - "avviene un fatto portentoso, incredibile della cui
realtà, chi scrive, si sente ancora istintivamente indotto a dubitare [ ... ]
tutto a un tratto, alle nostre spalle, vediamo avanzare a cavallo un giovane che
va risolutamente verso il nemico, agitando una bandiera tricolore e incitando i
compagni a un estremo e supremo sforzo, di vita o di morte". Era il carabiniere
Giuseppe Plado Mosca che galoppava oltre le linee nemiche, impugnando stretta la
bandiera, spinto da un sacro furore guerriero e trascinandosi dietro altri
uomini. I russi, presi alla sprovvista, ebbero uno sbandamento. Mosca fu
inghiottito dalla battaglia: il suo cavallo, ferito, tornò solo nelle trincee
amiche.
5. La notte
del gran Consiglio
"Li inchioderemo
sul bagnasciuga", aveva promesso il regime fascista. Ma non fu così e il 10
luglio 1943 gli anglo-americani sbarcarono in Sicilia con l'operazione Husky. Il
dramma dell'Italia, pienamente consapevole dei rintocchi a morto per l'Asse dopo
El Aiamein e Stalingrado, nacque da una profonda divergenza strategica tra
Churchill e Roosevelt. Il primo aveva una visione geopolitica riguardo agli
spazi mediterranei di stampo britannico e imperiale: non si fidava di Stalin e
pensava che dal Mediterraneo dovesse partire l'assalto finale contro la Festung
Europa (fortezza Europa) dei nazisti. Un audace sbarco in Istria e una dilagante
avanzata su Lubiana (in Slovenia) avrebbero provocato in un solo colpo sia la
recisione dei legami strategici tra la Germania e la più debole Italia sia
l'occupazione preventiva della delicata area balcanica e centroeuropea ai danni
delle armate sovietiche. Roosevelt la pensava diversamente: riteneva che gli
obiettivi strategici di Stalin fossero gli stessi degli americani. I russi
sollecitavano l'apertura di un secondo fronte: l'invasione della Francia da
parte delle truppe alleate che consentisse un'operazione a tenaglia sulla
Germania. Ma i mezzi a disposizione degli alleati, pur imponenti, non erano
sufficienti per consentire di penetrare contemporaneamente in Francia e in
Italia. La campagna d'Italia doveva quindi essere considerata secondaria e non
doveva essere combattuta sfruttando in pieno la superiorità aeronavale degli
alleati.
Gli italiani, nel
frattempo, si stavano rendendo conto che il vento era mutato e le sorti del
conflitto erano ormai compromesse in modo definitivo. La corte esortava il re a
rompere l'alleanza con i tedeschi. E anche fra i gerarchi fascisti si faceva
strada l'ipotesi di un fascismo senza Mussolini, che avesse la monarchia come
punto di riferimento. Nel luglio del 1943 si infittirono i contatti segreti e
gli intrighi: le decisioni subirono una pesante accelerazione dopo il
bombardamento aereo del popolare quartiere di San Lorenzo (19 luglio). I
Carabinieri erano considerati uno dei fulcri della monarchia sabauda e il nuovo
Comandante Generale, Azzolino Hazon, fece parte del ristrettissimo gruppo che
preparava il rovesciamento di Mussolini. La sorte volle che questo generale,
grande esperto di servizi informativi, morisse proprio sotto le bombe alleate.
Un'altra struttura sarebbe rimasta paralizzata, non quella dei Carabinieri
talmente temprata da una centenaria disciplina da funzionare anche con un nuovo
Comandante Generale, Angelo Cerica, appena transitato dalla milizia forestale
fascista. L'unica domanda (dettata da un eccezionale scrupolo legalitario) che
rivolse al capo di stato maggiore dell'esercito fu: "Siamo nel campo
costituzionale o siamo fuori dalla legge?". L'ordine veniva dal re, e dunque la
risposta alla domanda era assolutamente implicita. La polizia, troppo infiltrata
da elementi fascisti, non era in quel momento giudicata affidabile. Il 24 luglio
una drammatica seduta del Gran Consiglio del fascismo pose in minoranza il duce.
Mussolini non si rese esattamente conto di quanto era accaduto e si recò senza
timori a Villa Savoia per incontrare Vittorio Emanuele.
LA PREGO DI
SEGUIRMI!
All'ora del tè il
sovrano, con fredda cortesia piemontese, informò l'ex dittatore che non gli
avrebbe rinnovato l'incarico di presidente del consiglio dei ministri. Per
Mussolini fu un duro colpo, ma il peggio doveva ancora venire. Mentre lasciava
la villa fu avvicinato dal tenente dei Carabinieri Vigneri che lo invitò con
ferma cortesia a seguirlo per proteggerlo dalla folla. Il cavaliere Mussolini
tirò dritto verso la sua automobile, ma l'ufficiale gli sbarrò il passo, lo
prese per un braccio e lo caricò sull'ambulanza che attendeva nel giardino. A
8.000 Carabinieri, di stanza nella capitale, fu affidato il compito di attuare
il blocco simultaneo delle centrali radio e degli altri punti nevralgici.
Nessuno ignorava che la reazione della divisione fascista M, dotata di carri
moderni, e di 36 carri tedeschi Tiger a nord di Bracciano, avrebbe potuto
capovolgere la situazione a favore di Mussolini. Alla notizia della caduta del
fascismo, esplose la gioia della popolazione, che, per la verità, non incontrò
alcuna resistenza da parte dei fedelissimi del vecchio regime. Il comandante
delle SS a Roma, Friedrich Dollmann, raccontò con un misto di sorpresa, amarezza
e disprezzo: "Aspettammo invano che i fascisti entusiasti convenissero
all'ambasciata per consigliarsi e procedere alla conquista di Roma alla testa
della divisione M. Non spuntò un solo moschettiere o commissario o agente di
polizia, non spuntarono né Vidussoni. né Muti, né Scorza".
A parte questi
stupori più apparenti che reali, non si poteva dire che i tedeschi fossero stati
colti del tutto alla sprovvista. A Berlino erano giunti molti segnali che
indicavano che la situazione a Roma stava precipitando. Lungi dal farsi irretire
dai proclami di Badoglio sulla continuazione della guerra contro gli
anglo-arnericani, il piano Achse (ascia o asse) prese rapidamente corpo. Dal
Brennero calarono rapidamente numerose divisioni tedesche alla guida del
maresciallo Kesselring. I governanti italiani prendevano tempo, paralizzati dal
timore di una improbabile reazione fascista e da quello di una reazione
popolare. Contemporaneamente sondavano gli alleati alla ricerca di un
armistizio, per il quale venivano logicamente poste pesanti condizioni. Si
giunse alla fine alla firma dell'armistizio di Cassibile. L'8 settembre il
generale Eisenhower diramò da Radio Algeri il testo dell'armistizio, inchiodando
Badoglio e la monarchia alle loro responsabilità.
6. L'Arma
resta compatta
Il momento
richiedeva il massimo di sangue freddo, iniziativa e coraggio. L'Italia era
infestata da reparti tedeschi, ma una decisa presa di posizione avrebbe
complicato parecchio i piani nazisti. Invece vi fu un ambiguo appello a
resistere ad attacchi da qualunque parte provenissero e vi fu una inequivocabile
fuga del re e di Badoglio da Roma senza organizzare nessuna opposizione. Senza
ordini superiori, senza una chiara direttiva, senza una gerarchia identificabile
i reparti furono abbandonati a se stessi e reagirono di conseguenza: si
sbandarono e furono catturati senza sforzi. Soltanto il Comandante Generale dei
Carabinieri Reali, Cerica, ebbe il buon senso di diramare ai suoi 80 mila uomini
l'ordine di restare sul posto e continuare comunque l'attività. L'Arma, nella
crisi gravissima di uno Stato in dissoluzione, fece appello alla sua
straordinaria disciplina interiore per restare unita. I tedeschi avevano ormai
le mani libere. A Roma, la 3ª divisione Panzergrenadieren e la 2ª
Fallschirmjäger del generale Franz Heidrich si mossero con rapidità teutonica
per avvolgere la capitale. A sbarrare loro il passo erano rimasti soltanto i
Granatieri di Sardegna, i Lancieri di Montebello ed i Carabinieri, espressione
della più orgogliosa tradizione militare sabauda. Tra la Magliana e Tor
Sapienza, due quartieri periferici di Roma, era schierata la divisione
Granatieri di Sardegna, rinforzata dalla Legione Allievi dei CC RR. Erano
ragazzi tra i 18 ed i 20 anni, guidati dal tenente colonnello Arnaldo Fralich,
eroe del la Grande Guerra. In una ideale ripetizione dell'ultima guerra
d'Indipendenza, queste reclute appena inquadrate in un battaglione erano
chiamate a fermare gli esperti paracadutisti, induriti da cento battaglie, del
generale Heidrich.
Era ormai notte
quando presero posizione alla destra della basilica d San Paolo, ma alle 2 del 9
settembre l'ordine fu di spostarsi sulla Magliana per riconquistare il caposaldo
n. 5 preso dai tedeschi. Protetti da lancieri e granatieri, ai carabinieri fu
affidata la manovra di avvicinamento. Due pattuglie da combattimento tedesche
furono sorprese e catturate. Un altro nucleo fu gagliardamente messo in fuga con
le bombe a mano. Alle 5,40 scattò l'attacco alla posizione tedesca. I
paracadutisti tedeschi, già 40 minuti prima avevano cominciato a far lavorare i
mortai e le mitragliatrici, ma i soldati con la fiamma d'argento guadagnarono
ugualmente terreno. Venti minuti dopo i tedeschi lanciarono un veloce
contrattacco avvolgente ai danni della 4ªcompagnia, ma Frailich frustrò il
tentativo con un'altra compagnia. I mortai tedeschi scagliavano granate senza
sosta, ma alle 8,30 i carabinieri riuscirono a compiere un'ulteriore avanzata.
Il numero di morti e feriti aumentava rapidamente e molti valorosi cadevano
gridando "Viva l'Italia".
IL VALORE DELLE
ORE BUIE.
Alle 10 il
caposaldo fu conquistato, ma i carabinieri non smisero di combattere per
sloggiare i paracadutisti da altre posizioni. Solo alle 19,30 vi fu una pausa
per ricevere il cambio da 200 uomini del gruppo squadroni carabinieri Pastrengo.
Tra il 9 ed il 10 settembre divamparono violenti combattimenti difensivi ed
ancora una volta i veterani tedeschi furono costretti a desistere. Il prezzo
dell'onore fu di 17 morti e 48 feriti, alcuni gravi; la ricompensa una medaglia
d'oro, una d'argento, una manciata di bronzo e 25 croci di guerra. A
Monterotondo il battaglione parà del maggiore Gericke aveva l'incarico di
catturare il comando dello stato maggiore dell'esercito, acquartierato nel
castello Orsini. Gli italiani erano ai posti di combattimento e tre junkers
ju-52 carichi di paracadutisti furono tirati giù dalla contraerea. Ma i tondi
paracadute bianchi e violetti si aprirono lo stesso ed i soldati tedeschi
attaccarono vigorosamente i caposaldi italiani con mortai ed armi controcarro.
Le Breda dei carabinieri diventarono roventi negli accaniti scontri fuori del
castello, testimone di pietra di un ennesimo assedio. Carabinieri come Giuseppe
Cannata e Francesco Franzesini, usando con coraggio e maestria le loro
mitragliatrici, provocarono pesanti perdite fra gli attaccanti. Solo alle 18 il
maggiore Gericke e i suoi riuscirono ad abbattere il portone principale ed
entrare nel castello, dove si trovarono intrappolati: con incredibile sangue
freddo, il maggiore Gericke intavolò un negoziato con gli italiani, guadagnando
il tempo necessario per far sapere ai difensori che Roma era ormai città aperta,
cavandosi in tal modo d'impaccio.
Non furono pochi
gli atti di valore, che non ebbero alcun rilievo pratico in quanto i tedeschi
riuscirono comunque a disarmare gran parte delle forze ex-alleate e a prendere
il controllo della penisola non liberata: ma gli episodi di eroismo
testimoniarono lo spirito di ribellione della nuova Italia. I combattenti erano
ancora inquadrati militarmente e indossavano le divise, ma potevano già essere
considerati dei partigiani per la mancanza di un legame con un comando centrale.
Il 10 settembre gli scontri continuavano a divampare, creando momenti di ansia
per Kesselring, impegnato anche a fronteggiare lo sbarco alleato a Salerno di
ventiquattr'ore prima. A Colleferro una tenenza di carabinieri tenne in scacco
una colonna motorizzata. A Napoli una ventina di carabinieri catturò il presidio
tedesco alla galleria Umberto I, mentre veniva attuata con successo la difesa
della caserma Pastrengo e veniva conquistato il presidio tedesco di Palazzo
Reale. La rabbia germanica era tale che il giorno 12 fu incendiato l'ateneo e un
marinaio venne giustiziato nel rione Porto, dove fu attaccata la caserma: i 14
militi della stazione, per nulla intimoriti, svilupparono una testarda
resistenza, che si esaurì soltanto con la fine delle munizioni. Era ormai
arrivato il tempo cupo delle rappresaglie e gli sventurati prigionieri furono
fucilati il giorno dopo a Teverola, in sprezzo ad ogni legge di guerra.
UNA BOMBA AL
VOLO.
Non mancarono
nemmeno episodi curiosi e paradossali. A Gattatico nella provincia di Reggio
Emilia il solito reparto tedesco aveva ricevuto l'ordine di prendere la
stazione, ma incontrò la resistenza di soldati italiani che non erano andati a
casa. Il comandante del drappello germanico individuò un buon bersaglio e
strappò la sicura della sua fida granata a stelo. La lanciò, con una parabola
perfetta, contro la stazione, ma il carabiniere Giovanni Magrini riuscì a
prenderla al volo e a rilanciarla al mittente. A Bolzano, Appiano e Trento
furono pochi i carabinieri che il 9 settembre non spararono sugli ex-alleati. In
alcuni casi soltanto l'intervento dei potenti carri Tiger ebbe ragione dei
difensori. Altri episodi mostrarono come spesso dall'atto di valore isolato si
passasse alla lotta partigiana vera e propria. A Bussolengo in provincia di
Verona le SS circondarono la stazione dei Carabinieri, energicamente difesa dal
maresciallo maggiore Giuseppe Bellini. Alle fine i militi dell'Arma furono fatti
prigionieri, ma riuscirono a evadere. Molti di loro si rifugiarono sulle
montagne, mentre Bellini e un altro commilitone furono deportati. Il capitano
Salvatore Auriemma venne sorpreso dallo sfascio a Tolmino. I tedeschi riuscirono
a catturarlo, ma lui ebbe la fortuna di uccidere la sentinella e di raggiungere
i partigiani. Non vi restò a lungo perché, al termine di un difficile viaggio
nell'Italia occupata, giunse a Roma dove si distinse nel fronte clandestino dei
carabinieri. In Abruzzo fu il capitano Ettore Bianco a mettere in piedi una
delle prime formazioni partigiane, la Bosco Martese.
Nei territori
liberati al Sud l'attività dell'Arma non registrò interruzioni. Fin dai giorni
dello sbarco alleato in Sicilia i Carabinieri Reali rappresentarono un indubbio
fattore di stabilità e di continuità della legge e dell'ordine, anche nella
repressione dei reati comuni. L'opinione pubblica straniera, spesso così incline
a vedere i difetti della macchina statale italiana, rimase favorevolmente
impressionata. La prima corrispondenza del Times dalla Sicilia (20 settembre
1943) diceva, fra l'altro: "I Carabinieri sono stati un forte e stabile fattore
nel mantenere l'ordine; si sono tenuti interamente lontani dalle influenze del
partito fascista". Due giorni dopo il ministro degli Esteri inglese Anthony Eden
rispondeva così a una interrogazione dell'opposizione: "Perché usiamo i
carabinieri? La Camera sa che essi non sono un'organizzazione di tradizioni
fasciste. Al contrario essi esistevano in Italia molto tempo prima del regime.
Supponiamo per comodità di discussione che non avessimo usato i carabinieri.
Cosa avremmo dovuto fare? Avremmo dovuto impiegare almeno 10.000 soldati
britannici per svolgere il loro compito, non altrettanto bene". Il 12 settembre
si era costituito il Comando Carabinieri Italia Meridionale. Il 15 novembre il
comando fu ribattezzato Comando Carabinieri Italia Liberata, con funzioni di
Comando Generale e le sue competenze furono estese alle isole. Questo comando,
guidato dal generale Giuseppe Pièche con il colonnello Romano dalla Chiesa come
capo di stato maggiore, oltre a ricostituire la struttura territoriale dell'Arma
al Sud e predisporre le unità per i territori di imminente liberazione, aveva il
delicato incarico di coordinare la lotta clandestina dei carabinieri nell'Italia
occupata. E’ proprio nel buio periodo dell'occupazione che i carabinieri
scriveranno alcune delle pagine più significative della Resistenza.
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NOTE
FONTI
Il sito ufficiale dell'Arma dei Carabinieri
www.carabinieri.it