Breve storia del
giornalismo durante il fascismo
a cura di Fabio Zita*
Questo lavoro prenderà in esame, in particolare,
il periodo compreso tra il 1924 ed il 1943 cioè quello che più propriamente può
essere definito come "regime fascista" nel senso più compiuto del termine.
E’ infatti l’arco di tempo che va dal delitto
Matteotti al licenziamento di Mussolini come capo del Governo che può essere
considerato quello in cui gli elementi più classici di regime autoritario si
sono espressi nelle loro forme essenziali. Il ruolo della stampa può rientrare a
pieno titolo in questa configurazione.
Gli anni che vanno dalla marcia su Roma al delitto
Matteotti furono, per così dire, anni di attesa, anche nella stampa.
Liberali e cattolici, infatti, speravano in una
collaborazione con il fascismo mentre la Sinistra osservava con viva
preoccupazione il corso degli eventi. Ma tutte le varie forze politiche erano
concordi nell’attaccare lo squadrismo sempre più dilagante.
Mussolini, dal canto suo, conosceva bene l’enorme
valore insito nella stampa in quanto già direttore dell’"Avanti" e del "Popolo
d’Italia" e aveva bene in mente un disegno organico di asservimento della stampa
direttamente ai fascisti o comunque a forze disposte a seguirne le direttive
senza condizioni. Si trattava solo di trovare il momento giusto. Fu per questo
motivo che decise di accantonare momentaneamente il Regio Decreto sulla stampa
del 12 luglio 1923 che faceva perno sulla riforma dell’istituto del gerente (nel R.D. si prevedeva che esso fosse il direttore o uno dei principali redattori
del giornale) e sui poteri dei prefetti (questi potevano diffidare e
dichiarare decaduto il gerente di un giornale). In questo modo si poteva
colpire direttamente un organo di stampa.
Le prime disposizioni coercitive furono introdotte
dopo i tragici eventi che seguirono al rapimento e all’omicidio di Matteotti. In
realtà c’erano già state operazioni, d’accordo con i gruppi economici e
finanziari disponibili, per modificare a favore del fascismo la situazione, per
quanto attiene sia la proprietà giornalistica sia la direzione dei principali
organi di stampa. Ma fu la violenta campagna di stampa contro il governo che
dette l’impulso per una più decisa azione in grado di imbavagliare la stampa.
Il 10 luglio 1924 il capo del governo decise di
pubblicare, e quindi di rendere effettivo, il R.D. firmato dal re l’anno prima e
di aggravarne le modalità di esecuzione, dando ai prefetti la facoltà di
sequestrare i giornali.
La polemica con il fascismo era aspra e
l’offensiva del neonato Comitato per la difesa della stampa (che raggruppava
numerose ed influenti testate) venne interrotta definitivamente dalla legge del
31 dicembre 1925 che dette luogo alla soppressione della libertà di stampa.
In tal modo Mussolini poteva mettere a tacere e
garantirsi al proprio servizio gli importanti fogli della borghesia liberale
come il “Corriere” e la “Stampa” ed iniziare il processo di irregimentazione
della stampa. Questa legge, infatti, prevedeva la creazione della figura del
direttore responsabile (la cui investitura era prerogativa di Mussolini) al
posto di quella del gerente e l’istituzione dell’Ordine dei giornalisti con il
relativo Albo, al quale occorrerà essere iscritti per poter esercitare la
professione (all’istituzione dell’Ordine si rinuncerà dopo il riconoscimento
giuridico dei sindacati nell’aprile del 1926 e basterà quindi il solo Albo,
gestito dal Sindacato fascista, per irreggimentare i giornalisti). Nel dicembre
1925 si ebbe l’esautoramento del direttivo della Federazione nazionale della
stampa italiana, primo passo del definitivo smantellamento della Federazione.
Conquistati i due maggiori quotidiani del paese,
schiacciate le opposizioni e chiusi i loro organi, Mussolini procedette alla
fascistizzazione integrale della stampa mediante un’operazione complessa e
graduata nel tempo. La linea di fondo era quella di non eliminare ma di
fascistizzare i quotidiani d’informazione.
degli Interni e degli Esteri.
Tra il 1925 e il 1928 Mussolini dovette affrontare
due problemi e si pose il raggiungimento di un obiettivo. I due problemi erano
la fascistizzazione e il richiamo all’ordine dei fogli del Pnf più riottosi ed
intransigenti. L’obiettivo era quello di fare di tutta la stampa lo strumento
principe per l’organizzazione del consenso e un mezzo per attuare la propria la
politica interna ed estera.
Dalla seconda metà del 1925, nel giro di due anni,
si delineò la nuova mappa dei quotidiani che i dirigenti fascisti considerarono
composta di due parti: stampa di regime e stampa di partito, oppure stampa
nazionale e stampa fascista. Nell’ambito di quest’ultima alcune testate si
segnalavano per la loro vivacità: oltre al "Popolo d’Italia", supremo organo di
orientamento politico vi erano "Il Regime Fascista" di Cremona appartenente a Farinacci, il
"Corriere Padano" di Ferrara appartenente a Balbo e tre quotidiani
di Roma cioè "Il Lavoro d’Italia", quotidiano della Confederazione dei sindacati
fascisti, "L’Impero", culla del movimento futurista, e "Il Tevere" diretto da Interlandi .
Nel 1926 si ebbero le prime disposizioni
riguardanti il dazio sulla carta di importazione, il prezzo di vendita (che
aumentava da 25 a 30 centesimi ) e il numero delle pagine ( solo 6 pagine poi
portate a 8 per tre giorni alla settimana ). Venne altresì richiesto ai giornali
di evitare il sensazionalismo e lo scandalismo e di usare uno stile sobrio,
asciutto ed energico.
Dopo l’attentato del mese di ottobre vennero
sospesi tutti i fogli dell’opposizione ma anche altri, come la "Stampa" e vari
giornali cattolici, ebbero la stessa sorte. Fece seguito lo scioglimento dei
partiti antifascisti: era il bavaglio per tutti, definitivamente.
Nel frattempo sia la "Stampa", che i vari giornali
cattolici, ricomparvero ma la loro presenza era subordinata ad un cambiamento
dei direttori. Comunque il regime cercò di evitare grosse frizioni con la
Chiesa, elemento indispensabile nel perseguimento della propria politica.
Nel 1927 sorse la necessità di una sistemazione
politica ed editoriale della stampa e dell’inquadramento definitivo dei giornali
anche in virtù della nuova impalcatura giuridica dello stato fascista avviata da
Alfredo Rocco. Il via ufficiale al Sindacato nazionale fascista dei giornalisti
avvenne nei primi mesi del 1927 anche se per lavorare occorreva l’iscrizione
all’Albo e non era obbligatoria quella al Sindacato. Iniziò così la campagna di
epurazione delle redazioni anche se essa sarà graduale e non drastica come
richiesta dai più intransigenti.
L’Albo venne istituito col R.D. 26 febbraio 1926 e
si componeva di tre elenchi, per i professionisti, i praticanti e i pubblicisti.
Dal punto di vista dei contenuti degli articoli,
le disposizioni dell’Ufficio stampa del capo del governo ai giornali divennero
più frequenti ed ebbero come duplice scopo da un lato di cancellare o
"minimizzare", dall’altro di esaltare o edulcorare. In particolare gli
interventi censori riguardavano la cronaca nera, vero "chiodo fisso" di Mussolini, la quale doveva essere drasticamente ridotta nei giornali.
Nell’ottobre 1928, Mussolini giudicò ormai maturo
il momento di tenere il discorso sui problemi e sul ruolo della stampa per
sottolineare che la fascistizzazione era compiuta, per ripetere una volta per
tutte e apertamente le funzioni dei giornali, in particolare quella educativa,
per correggerne le restanti storture e intensificarne la mobilitazione politica
e giornalistica.
In questo periodo continuò il processo di
riduzione del numero delle testate quotidiane e scomparvero soprattutto piccoli
quotidiani di provincia ma anche alcuni fogli strettamente fascisti (tra cui
“Il Mezzogiorno” e "L’Impero") per motivi politici o per vendite modeste o
irrisorie. Anche le tirature dei grossi quotidiani era in crisi (compreso quelle
del "Popolo d’Italia", supremo organo fascista) ma le garanzie economiche
offerte dai loro proprietari ne permetteva la sopravvivenza (la proprietà dei
quotidiani grandi e medi era rimasta sostanzialmente nelle stesse mani, cioè
nella cerchia imprenditoriale e tutti avevano preminenti interessi
nell’industria e nella finanza. Il connubio tra gli imprenditori e il regime
aveva funzionato ).
Vennero comunque fondati dei nuovi giornali nei
possedimenti coloniali (Libia, Somalia ed Eritrea) ed uscì una edizione
albanese della “Gazzetta del Mezzogiorno” ed una edizione corsa del "Telegrafo"
di Livorno.
Con la stampa cattolica il rapporto del regime fu
controverso: ai buoni rapporti esistenti durante il periodo della firma dei
Patti Lateranensi del febbraio 1929 fece seguito un periodo di feroci scontri
dovuti ai moniti mussoliniani diretti verso le organizzazioni e le pubblicazioni
cattoliche, fino alla infeudazione anche del giornalismo cattolico il quale ebbe
la forza di far sentire la propria voce soltanto nel 1938, dopo l’introduzione
delle leggi razziali.
Il Duce ormai controllava l’intero settore e
poteva contare sul giornalismo fascista come uno strumento il più possibile
perfetto della Rivoluzione, anche in virtù di una rinnovata e drastica arma
repressiva data dal Testo unico di publica sicurezza che introduceva la
possibilità del cosiddetto "sequestro in via amministrativa".
La crisi di Wall Street si abbattè come un ciclone
devastatore sulla fragile economia italiana ma, nonostante tutto, iniziò, a
partire dagli inizi degli anni trenta, un processo di modernizzazione dovuto,
non solo al progresso tecnologico, ma favorito dall’ambizione e dalla rivalità
esistente tra i fogli di Torino e Milano che giovò all’intero settore, compreso
all’attività dell’agenzia "Stefani", la maggiore e più capillare fonte
d’informazione. Il processo di modernizzazione si sviluppò su tre piani:
tecnico, editoriale e giornalistico. Ciò portò ad un ammodernamento degli
impianti, ad una crescita di nuove rubriche (cinema, moda, varietà ecc.), ad
uno spazio maggiore dato alle notizie sportive, ad una cura particolare per la
"terza pagina" dedicata alla cultura, ad un uso di inviati speciali o
collaboratori specializzati e di gran nome, alla presenza di più fotografie. I
maggiori quotidiani uscivano a 8 pagine e, per due volte alla settimana a 10,
mentre gli altri a 6 pagine. Il prezzo del quotidiano, già sceso nel 1927
nuovamente a 25 centesimi, nel 1930 scese a 20 centesimi.
Il problema del prezzo della carta, tuttavia,
cominciò a farsi preoccupante dato l’aumento del numero delle pagine e delle
tirature dei quotidiani. Il governo deciderà di affrontarlo solo nel 1935.
L’azione dell’Ufficio stampa si era fatta, nel
frattempo, più incisiva ed autoritaria e si muoveva lungo tre direttrici: la
prima procedeva verso un accrescimento del numero dei giornalisti fascisti di
provata fede nei posti di responsabilità; la seconda e la terza erano correlate
tra loro in quanto l’intervento sul contenuto dei giornali implicava l’azione di
propaganda e di mitizzazione del Duce e del regime che spettava alla stampa. Una
cura particolare venne attribuita ai disegni ed alle fotografie raffiguranti il
Duce e fu in questo periodo che si bandirono con più insistenza le parole e gli
usi stranieri e si minimizzò al massimo la cronaca nera .
Mussolini, comunque, non era ancora soddisfatto.
Aveva progetti ben più ambiziosi e voleva un salto di tono propagandistico e un
maggior accentramento direttivo. D’altronde, i progressi della radio e del
cinema facilitavano una visione più maestosa dell’utilizzo dei mezzi
d’informazione e di esaltazione del regime.
L’uomo scelto da Mussolini per realizzare il suo
progetto di potenza e di espansione fu il suo "delfino" Galeazzo Ciano, che
venne nominato capo dell’Ufficio stampa nel mese di agosto del 1933. L’influenza
dell’organizzazione nazista sull’azione di Ciano fu evidente dato che Goebbels
aveva creato fin dal marzo 1933 il suo ministero dell’Educazione Popolare e
della Propaganda. Anche se i rapporti tra le due nazioni non erano idilliache
come lo saranno in seguito (i disegni nazisti sull’Austria irritavano Mussolini), l’organizzazione goebbelsiana divenne un modello da studiare e seguire.
Infatti con R.D. del 6 settembre 1934 l’Ufficio stampa si trasformò in
Sottosegretariato per la Stampa e la Propaganda ed alle tre direzioni generali
previste inizialmente – stampa italiana, stampa estera e propaganda – se ne
aggiunsero altre due: cinema e turismo. Per la radio (l’Eiar, le cui
trasmissioni iniziarono nel 1929) Ciano istituì un ispettorato. I controlli
censori e la sorveglianza divenne più accurata, così come la campagna per la
difesa dell’italianità del linguaggio.
Il Sottosegretariato si trasformò in Ministero per
la Stampa e la Propaganda il 24 giugno 1935 ed ampliò il campo di attività
acquisendo due importanti poteri: il pieno controllo dei programmi radiofonici e
il potere di sequestrare e sopprimere i giornali.
Il nuovo ministero assommò, quindi, tutti i poteri
di controllo su quotidiani, periodici, libri (anche quelli stranieri), radio,
cinema, teatro e turismo; era padrone di tutte le leve della propaganda e stava
impossessandosi di istituzioni ed organismi culturali (fra questi c’era
l’Istituto Luce).
Nel 1935 si riacutizzò il problema della carta e
venne decisa una riduzione del numero delle pagine (6 pagine per cinque giorni
e 8 per gli altri due a cui gli editori rispondono con un aumento del numero
delle colonne ed una riduzione del corpo dei caratteri). All’aumento del prezzo
della carta si rispose creando l’Ente nazionale cellulosa e carta il cui scopo
era quello di favorire la produzione e l’impiego di materie prime nazionali e fu
un primo passo verso quella politica autarchica che caratterizzò il periodo
dell’aggressione all’Etiopia.
Proprio la campagna d’Etiopia rappresentò l’apice
del ruolo dei mezzi di informazione e di propaganda. Durante essa tutti gli
strumenti furono utilizzati al massimo ed il loro simultaneo impiego contribuì a
determinare politicamente e psicologicamente le premesse dell’impresa etiopica
ed a creare il consenso e l’entusiasmo necessari intorno ad essa, al Duce ed al
regime.
La mobilitazione della stampa per l’impresa
etiopica fu enorme, favorita dall’accentramento dei mezzi di informazione. Il
ministero, in questo periodo, fece le cose in grande. Guidato da Alfieri, che
sostituì Ciano partito per il fronte, si adoperò per mobilitare il popolo
italiano. La polemica sull’assedio economico e le misure autarchiche per
affrontarlo divennero l’argomento di primo piano dei giornali (è il periodo
delle "inique sanzioni" e della "Giornata della fede"). Gli inviati sul fronte
delle operazioni furono molti ma furono pochissimi i corrispondenti di guerra e
i giornali che evitarono atteggiamenti retorici, le esagerazioni e le falsità.
Dopo l’iniziale periodo di stasi delle operazioni, la situazione sul fronte
migliorò e da gennaio al trionfale ingresso di Badoglio ad Addis Abeba la guerra
dominò le prime pagine. Il 6 maggio il Duce annunciò la vittoria e il 10 la
proclamazione dell’Impero. In quei giorni si raggiunse il primato mai più
raggiunto di tiratura massima dei giornali (si parla di un milione e
trecentomila copie della "Stampa"). Poi calò il silenzio sull’Etiopia, anche in
virtù delle enormi difficoltà che i nostri soldati avevano nel controllare il
territorio appena conquistato, e calò progressivamente il numero delle copie
vendute.
Nemmeno la guerra di Spagna, propagandata come
tutta ideologica e nella quale Mussolini si vedeva come il capo politico di
un’Europa fascistizzata portò ad un incremento delle tirature (la "Stampa"
oscillava tra le 350.000 e le 400.000 al giorno, il "Corriere" circa 550.000).
Contrariamente a questo aspetto il regime
incrementò le proprie ambizioni propagandistiche annunciando, il 27 maggio 1937,
che il ministero della Stampa e Propaganda si sarebbe chiamato Ministero della
Cultura Popolare, volendo dimostrare che il fascismo era ancora, dopo quindici
anni, una forza vitale. Sul piano pratico, questo mutamento significava un nuovo
impulso di tipo totalitario su ogni attività culturale, con l’accresciuto potere
del ministro, sempre come esecutore degli ordini del Duce, con l’aumento delle
direttive e dei controlli e la loro estensione ad altri settori dell’attività
culturale. La cronaca nera venne ridotta ai minimi termini, s’infittirono le
disposizioni che riguardavano l’immagine del duce e del regime, il costume
fascista e l’autarchia culturale e le misure contro le influenze culturali e
sociali straniere assunsero un rilievo particolare.
Fu proprio il potere assunto dalla stampa a creare
e diffondere il problema ebraico e ad ampliare il discorso sugli interventi
persecutori contro gli ebrei portando quindi ad una campagna razzista e
antisemita ( sentimenti quasi estranei nella stragrande maggioranza degli
italiani ). A metà del 1938 tutto l’apparato giornalistico e culturale del
regime partecipò attivamente alla "difesa della razza" sotto la regia del Minculpop e ciò suscitò le vibranti proteste della stampa cattolica che vide
così accrescere il proprio consenso.
Ma ormai Mussolini ed Hitler camminavano insieme,
perseguendo le proprie convinzioni politiche ed ideologiche. Infatti, alla
vigilia della guerra, oltre ad essere praticamente scomparsa la differenza di
tipo politico e funzionale tra i due gruppi dei quotidiani del fascismo, cioè
tra stampa nazionale (che opera nell’orbita dello Stato) e stampa fascista (che è strumento politico del regime) ed imboccata la strada razzista e del
"patto d’acciaio", crebbero gli scambi con giornali ed agenzie tedesche e venne
stipulato un patto di collaborazione tra il Minculpop e il ministero di Goebbels.
Il controllo del ministero era ormai totale e, sempre nell’ambito del ministero,
venne istituito, nell’aprile del 1940, l’Ente stampa il cui scopo era quello di
coordinare i quotidiani affidati al Minculpop, migliorarne i contenuti e
razionalizzarne i costi.
L’Italia si preparava ad entrare in guerra e non
pochi imbarazzi aveva creato nel Duce e nella stampa italiana l’atteggiamento di
Hitler che aveva messo il suo alleato italiano di fronte a fatti già compiuti
come l’inaspettato accordo con Stalin e l’invasione della Polonia.
Il periodo della "non belligeranza" fu
caratterizzato da toni di "simpatia" verso la Germania, evitando toni
allarmistici ed in particolare cercando di non evidenziare la poderosa avanzata
delle truppe tedesche. Bisognava fare in modo che, nel caso di ingresso
dell’Italia in guerra, le forze nemiche fossero sempre efficienti, che anche Mussolini e l’Italia risultassero vincitori. Bisognava, inoltre, esaltare i
motivi politici della guerra. Queste furono le direttive che il ministro
Pavolini dette agli organi di stampa nel momento in cui il Duce annunciò la
dichiarazione di guerra alla Francia e alla Gran Bretagna.
L’attività di propaganda e di repressione
funzionarono ai massimi livelli. Nessuna fonte straniera (e tra queste c’era
Radio Londra) doveva essere pubblicata tranne quelle che confermavano o
amplificavano in senso favorevole le notizie date dai nostri comunicati
ufficiali. Per guidare i giornali bastavano quindi il Bollettino diramato dal Quartier generale delle Forze Armate e le informazioni ufficiali fornite dai
comandi dell’esercito, della marina e dell’aviazione, che esercitavano anche la
censura sui servizi dei corrispondenti di guerra. Le notizie, dunque subivano un
duplice processo censorio, praticato dai ministeri militari e dal Minculpop.
I giornali uscivano a quattro pagine e, dopo
l’iniziale euforia, le vendite cominciarono a calare anche in seguito alla pausa
dei combattimenti. Per questo motivo venne incrementato di nuovo il numero delle
pagine e venne dato spazio ad altre notizie che non fossero di guerra.
Nemmeno la trionfalistica "crociata
antibolscevica" e la nuova fase bellica riuscì a mitigare i malumori per le
batoste subite dall’esercito italiano e per il ruolo di secondo piano giocato
ora da Mussolini. Gli eventi per l’Italia maturarono in fretta. Le colonie erano
perdute, la flotta bloccata nei porti, i bombardamenti aerei sempre più
frequenti, gli americani erano sbarcati in Africa del Nord e la disfatta sul
fronte russo era totale.
Nonostante la caduta del consenso, anzi la
crescente avversione al regime, le tirature dei maggiori quotidiani restarono
sostenute (il "Corriere della Sera" era in testa con oltre 750.000 copie,
seguito dalla "Stampa" con 550.000, dal "Popolo d’Italia", dal "Giornale
d’Italia" e dalla "Gazzetta del Popolo", tutti con oltre 300.000 copie ).
I tentativi di salvare il regime si fecero sempre
più drammatici e lo sbarco degli Alleati in Sicilia accentuò il suo definitivo
crollo.
Il 25 luglio era domenica quando alle ore 22 la
radio annunciò le dimissioni di Benito Mussolini e l’incarico affidato a Pietro
Badoglio. La notte trascorse frenetica nelle strade e nelle redazioni dei
giornali. Il giorno successivo tutti i quotidiani andarono a ruba ed in genere
tutti recavano la dicitura "Viva l’Italia". Di Mussolini nei titoli e nei testi
non c’era traccia.
Sbalorditi o sgomenti come tanti altri giornalisti
e certamente più smarriti furono i redattori del “Popolo d’Italia”. Gruppi di
dimostranti penetrarono nel palazzo e impedirono l’uscita del giornale già
pronto. Con la morte del "Popolo d’Italia", che Mussolini non vorrà resuscitare
nel periodo dell’occupazione nazista e del fascismo di Salò si chiusero le
vicende della stampa del regime fascista.
Un capitolo a parte meritano i fatti che portarono
alla rinascita della stampa di opposizione ed alla riconversione di quella il
fascismo aveva fatto diventare stampa di regime. Ma tutte queste vicende si
collocano in una stagione della storia italiana convulsa e controversa, nuova ma
pur sempre coinvolgente.
NOTE
SULL'AUTORE
(*) Fabio Zita si è laureato in Scienze
Politiche presso l’Università degli Studi di Siena. E' Dottore di
Ricerca presso l’Università degli Studi di Pisa in Storia, Istituzioni e
Relazioni Internazionali dei Paesi Extra-europei nel triennio 2001-2003, e collabora con il Prof.
Giovanni Buccianti, ordinario di Storia dei Trattati e Politica Internazionale
presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Siena.
FONTI
N.Tranfaglia-P. Murialdi-M. Legnani, "La stampa
italiana nell’età fascista", Editori Laterza, Bari, 1980
