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I Carabinieri Reali in guerra

 

 

 

Si ringraziano Alessandro Politi e il sito ufficiale dell'Arma che hanno reso possibile la pubblicazione di questo articolo, che trovate in versione integrale all'indirizzo www.carabinieri.it

 

In Etiopia e in Spagna

 

1. Premessa

Nel 1936 e nel 1937 si svolgono le prove generali della Seconda Guerra Mondiale. Le truppe italiane sono ancora impegnate nella guerra coloniale nell'Africa Orientale quando divampa in Spagna la guerra civile. La natura stessa del conflitto che esplode nella penisola iberica fa sì che si creino in esso schieramenti ideologici contrapposti: Germania nazista e Italia fascista al fianco delle falangi di Francisco Franco, volontari di mezza Europa accanto ai repubblicani, destinati a essere sconfitti. Si capisce, fin da allora, quale sarà la posta in gioco in una eventuale guerra totale, che appare tuttavia remota, se non addirittura immaginaria, frutto degli incubi di qualche intellettuale menagramo.

La diplomazia mondiale si dà molto da fare ed è persuasa di riuscire a tenere sotto controllo la prepotenza hitleriana e i sogni espansionistici mussoliniani: l'Impero è quasi una realtà, in virtù della campagna d'Africa. e tanto dovrebbe bastare a rafforzare il regime fascista. Illusioni, naturalmente, come si verificherà nel 1939. Poco, pochissimo tempo dopo. Ma non soltanto illusioni: anche errori. La guerra civile di Spagna, così come la guerra d'Etiopia, è stata una prova generale le democrazie europee hanno mostrato la loro debolezza nei confronti dei fascismi, che non sono stati frenati a tempo e che hanno ritenuto di poter realizzare le loro ambizioni. Monaco sarà l'ultimo errore, l'ultima manifestazione di arrendevolezza. Che renderà ineluttabile la Grande Tragedia Mondiale.

 

2. Verso l'impero

Il panorama politico europeo e mondiale si modifica profondamente nel 1933 con l'avvento al potere del capo del Partito Nazionalsocialista, dal quale dipenderà pochi anni dopo lo scoppio della II Guerra Mondiale


Nella primavera dei 1936 la guerra d'Etiopia è alla sua svolta decisiva, anche se la resistenza incontrata si rivela superiore alle previsioni della vigilia. Nel conflitto perderanno la vita oltre 200 carabinieri Ogaden: per molti è un nome difficile da localizzare su una carta geografica. Chi ricorda ancora che nell'Ogaden fu combattuta (nel 1977, non cent'anni fa) una delle più sanguinose guerre convenzionali del Corno d'Africa, quando la Somalia sotto il dittatore Siad Barre tentò, con motivazioni nazionalistiche, di strappare quell'arida regione all'Etiopia? Fu allora che i sovietici, ricorrendo a un imponente ponte aereo, si precipitarono in aiuto del vacillante regime del negus rosso Menghistu Hailé Mariam e nel giro di un anno cacciarono i somali dalle posizioni conquistate, sconfiggendoli nella battaglia di Diredaua e Giggiga. Anche in quell'occasione si verificò l'impressionante forza d'urto della moderna tecnica militare contro eserciti piuttosto raccogliticci. Giggiga é entrata nella storia militare come una delle più ardite operazioni aeromobili condotte dai sovietici. Passata la breve fiammata della guerra, l'Ogaden è precipitato di nuovo nell'oblio.

 

A GIGGIGA VIA GUNU GADU.

Eppure quelle assolate pietraie, seminate di arbusti induriti da mille lotte contro la siccità, ricordavano altri eserciti ed altri soldati, diversi dai pallidi russi e dagli agili cubani. Avvolte le gambe nelle loro caratteristiche mollettiere, coperti dall'inconfondibile casco coloniale, quasi sessant'anni fa avanzavano lungo quelle strade le armate dell'Italia fascista alla conquista di un "posto al sole" in Etiopia. Le operazioni di guerra erano già in corso quando a Roma si decise la costituzione di quattro bande autocarrate di carabinieri, incaricate di puntare verso l'Ogaden. Le bande erano formazioni di fanteria leggera a livello battaglione/reggimento articolate su un plotone comando e due compagnie per un totale di mille uomini ciascuna. Vittorio Emanuele III si recò personalmente a salutare le quattro formazioni alla scuola allievi dei Carabinieri, prima del trasferimento a Napoli. Una foto dell'epoca mostra schierati in bell'ondine i militi dietro i quali campeggia il motto "Nei secoli fedele". Li attendeva una lunga navigazione sul piroscafo Sannio. La prima tappa era prevista a Suez, nonostante il rischio di una chiusura del canale da parte degli inglesi che lo tenevano sotto controllo.

Il porto fissato per lo sbarco era quello di Obbia, nella regione della Migiurtinia. Il generale Rodolfo Graziani, responsabile di quel settore operativo, si era incaricato di attrezzare al meglio quello scalo perché assolvesse la funzione di base logistica. Tuttavia uomini e materiali furono sbarcati, il 10 marzo, a un miglio dalla costa a causa del pescaggio eccessivo della nave. Venti giorni dopo arrivarono anche gli automezzi e le quattro bande furono a quel punto pronte ad aggregarsi alla colonna Agostini presso la zona di concentramento di Rocca Littorio (250 chilometri nell'entroterra migiurtino). La cosiddetta seconda battaglia dell'Ogaden prevedeva l'avanzata per linee parallele di tre colonne (Nasi, Frusci, Agostini), con il compito di convergere sul nodo strategico di Dagabur per poi avanzare sui passi di Giggiga e sull'importante città di Harar. L'obiettivo operativo era di frustrare un ritorno offensivo abissino guidato dal degiac Nasibù Michael, favorito in febbraio dall'iniziativa del suo sottoposto, il fitaurari Abatè Tafari, che era riuscito, dopo un aspro combattimento, a eliminare il presidio di una sessantina di dubat a Curari, permettendo la creazione di una buona base offensiva per la riconquista dell'Ogaden.

La colonna Agostini era composta, oltre che dalle quattro bande autocarrate, dal gruppo bande di ausiliari coloniali dubat (agli ordini del tenente colonnello alpino Camillo Bechis), da una coorte della milizia forestale con annessa batteria di artiglieria campale da 65 mm e da una batteria da 70 mm. La marcia ebbe inizio il 16 aprile 1936, ma il primo contatto con il nemico non avvenne prima del giorno 23, in quanto le forze abissine sembravano completamente sparite dalla circolazione. Questa volta i difensori abissini avevano deciso di non rischiare una pericolosa battaglia di movimento contro forze meglio equipaggiate, e si erano attestate nella zona Bullaleh-Sassabaneh. Il punto forte del loro schieramento era rappresentato dalla località di Gunu Gadu, per l'occasione potentemente fortificata. Gli italiani erano perfettamente informati sulla localizzazione del nemico e si prepararono a una classica manovra di aggiramento in modo da procedere alla riduzione del centro di resistenza. Il punto di riferimento scelto per la manovra era un camioncino del raggruppamento bande dubat. Rispetto ad esso le bande del tenente colonnello Bechis dovevano spiegarsi sulla sinistra in modo da avvolgere un lato delle postazioni avversarie e avvicinarsi ad esse. La seconda banda dei Carabinieri dovevi invece raggiungere il camioncino ed allargarsi ancora più a sinistra per proteggere i fianchi delle bande dubat ed occupare posizioni sul torrente Giarer.

La terza banda, partendo dal famoso camioncino, doveva costituire la branca destra della tenaglia su Gunu Gadu, mentre la quarta banda sarebbe rimasta accanto all'automezzo come riserva insieme alla coorte della milizia forestale. A circa un chilometro dalla linea di attacco si sarebbero appostati il comando della colonna Agostini e le due batterie. Sulla carta la manovra era assolutamente ortodossa: anche l'esecuzione si svolse in modo molto ordinato. Ma l'imprevisto, in ogni operazione militare, è sempre in agguato, e in quell'occasione assunse l'aspetto di una guida negligente o infida. La seconda banda, guidata dal tenente colonnello Citerni, anziché prendere contatto con il nemico in un terreno favorevole e coperto per l'aggiramento, si trovò (alle 7 in punto) in una piana liscia come un tavolo di biliardo e solcata dai tiri incrociati dei difensori abissini. Il camion di testa prese subito fuoco. Tutti i carabinieri saltarono velocemente dai mezzi, organizzando una difesa speditiva in quel posto pericoloso. Non potevano partire all'attacco perché il bombardamento era in programma per un'ora e si profilava dunque il rischio concreto di essere colpiti dai propri commilitoni. Così, per un'ora circa, rimasero passivi, subendo un'intensa fucileria, senza aprire il fuoco a loro volta per conservare preziose cartucce. Alle 8 del mattino, finalmente, il rombo degli aeroplani in avvicinamento, seguito dagli scoppi secchi dei cannoni campali. La boscaglia spinosa fu sconvolta dalle granate a grande capacità e dalle bombe da 50 chili. Si levarono colonne di terra, annunciate dal lampo rossastro dell'esplosione, mentre gli aerei si abbassavano a volo radente per mitragliare ogni movimento sospetto.

Terminato il bombardamento, destinato a indebolire le postazioni nemiche, i fanti a terra si accorsero che la situazione non era affatto mutata. Le fucilate nemiche non si erano diradate: si erano anzi infittite. Come mai? Ecco le spiegazioni fornite, a caldo, dagli esperti. Generale Graziani: "Questi sbarramenti erano a non grande raggio, la tecnica vi aveva profuso ogni accorgimento per raggiungere lo scopo. Appostamenti in caverna, fiancheggiamenti e camminamenti ne facevano dei capisaldi robustissimi: prendere di viva forza quei passaggi obbligati sarebbe stata durissima impresa e ci avrebbe attardato". Generale Frusci: "Le caverne, le buche, le trincee sono blindate con tronchi d'albero e terra di riporto e occultate completamente da un mascheramento di ramaglia che le rende invisibili all'osservazione aerea e anche a quella terrestre se non portata nelle immediate vicinanze, anche per la folta vegetazione". Tenente colonnello De Vecchi (impegnato in prima linea): "Le buche sono perfette di costruzione (…). Ognuna di esse è difesa da almeno altre due. Dal piccolo ingresso e dalle feritoie si osserva un ampio campo di tiro, mentre è estremamente difficile infilare i piccoli buchi con una fucilata. Quelle occhiaie cave con il loro sguardo di morte sembrano irriderci".

Queste testimonianze dimostrano come gli abissini avessero preparato un ostacolo assai duro per gli invasori italiani, Non era certo quello che i combattenti della prima guerra mondiale avrebbero chiamato una linea fortificata, anche se aveva ricevuto dai comandanti etiopici l'orgoglioso nome di linea Hindenburg, il famoso maresciallo tedesco della Grande Guerra. Niente filo spinato e paletti d'acciaio, niente cupole corazzate o piazzole d'artiglieria, ma funzionò in modo egregio. Merito di alcuni consiglieri militari belgi e soprattutto di un turco che aveva già avuto modo di conoscere gli italiani dall'altra parte della barricata. Consigliere militare di ras Immirù, Wehib Pascià aveva combattuto prima nella guerra di Libia del 1911-1912 e poi nella guerra di rinascita nazionale turca (1920-1922). In entrambi i casi aveva imparato la difficile arte dell'arrangiarsi con forze e mezzi insufficienti. Specialmente nelle complicate operazioni sull'altopiano anatolico contro i greci, Wehib aveva appreso l'arte militare da grandi comandanti turchi come Ismet Pascià e dal generalissimo Mustafa Kemal. Wehib non aveva l'autorità per far approvare piani strategici di grande portata, specie con un esercito largamente feudale come quello abissino, ma aveva dedicato un anno di lavori intensi a quella linea. Ne risultò un dispositivo difensivo rustico, edificato con materiali facili da reperire e che valorizzava al meglio le capacità difensive del terreno e dei combattenti. Qualcosa di simile alle tanto temute fortificazioni campali dei vietcong nel lungo conflitto del Vietnam.

 

EROI ALL’ASSALTO.

Come agli americani in quel lontano fronte, ai carabinieri ed ai dubat non restò che prendere di petto il problema. Se si è particolarmente ben equipaggiati si può scegliere tra diverse soluzioni. Un carro armato può, per esempio, centrare con il tiro diretto le feritoie nemiche; oppure l'artiglieria può formare una cortina fumogena per favorire l'avvicinamento dei fanti; o, ancora, si possono formare speciali squadre d'assalto con genieri dotati di cariche esplosive e lanciafiamme, armi utili e tremende in queste situazioni. Altrimenti si deve agire con il coraggio e la perizia dei fanti, sfruttando al massimo la copertura delle mitragliatrici, balzando da un magro riparo all'altro e lanciando un gran numero di bombe a mano. Il momento peggiore si presenta quando pochi metri separano l'attaccante dal caposaldo nemico. Dietro quelle feritoie si nasconde un gruppo di uomini decisi a vendere cara la pelle, vincendo la paura di fare la fine del topo. Davanti alle finestrelle compaiono soldati protetti solo dalla loro divisa. Pochi attimi dopo, o davanti al nido di fucilieri giacciono i corpi degli attaccanti o al chiuso si scatena l'inferno.

La prima banda di Carabinieri Reali, appoggiata dalla seconda, riuscii a raggiungere il margine della fitta boscaglia di Gurru Gadu. Dalle cavernette, spesso ricavate tra le radici di alberi secolari, gli etiopici scatenarono un fuoco micidiale; il generale Agostini lanciò la riserva con la quarta banda dei Carabinieri. Appena la riserva si mosse, le pallottole abissine fecero un morto e cinque feriti. La seconda banda si preparò alla dura opera di rastrellamento delle posizioni avversarie lungo il greto del torrente Giarer. Ogni feritoia era pronta a vomitare morte da tutti i lati, ogni tana venne sconvolta dalla furia dell'irruzione. Fu sulla destra dello schieramento che la battaglia infuriò in misura maggiore e la quarta banda si precipitò in soccorso su quel versante. Nonostante le perdite, grazie all'eccellente addestramento ricevuto in precedenza, i carabinieri manovravano senza problemi. Si moltiplicarono gli atti di eroismo. Il capitano dei Carabinieri Bonsignore, ferito al fianco, rifiutò ogni soccorso e, con le ultime energie spinse la sua compagnia nel terribile e vittorioso assalto. Cadde il capitano Passerini, dopo aver distrutto due fortini, colpito alla bocca, all'inguine e alla gamba sinistra. Ne seguirono la sorte un vicebrigadiere e sei carabinieri, mentre un ufficiale, tre sottufficiali e otto militi se la cavarono con gravi ferite durante una violenta azione lungo il torrente Giarer.

Un grande esempio di valore fu offerto dal carabiniere Vittoriano Cimmarrusti, ferito una prima volta (e in modo grave) al braccio sinistro, decise di rientrare in prima linea appena medicato. L'ufficiale medico cercò di dissuaderlo: Cimmarrusti tornò a combattere con il braccio al collo. Durante una puntata offensiva nemica, si trova a fronteggiare da solo numerosi assalitori. Per cinquantatre volte la mano destra armò rabbiosamente l'otturatore del fedele moschetto '91, tenendo a bada i nemici. Finite le cartucce, passò alle bombe a mano. Ma altre due pallottole stroncarono la sua eroica resistenza. Gli fu conferita la medaglia d'oro alla memoria. Un destino identico, ma ancor più doloroso, toccò al bergamasco Mario Ghisleni. Anche lui fu ferito alla gamba sinistra durante la battaglia di Gunu Gadu, ma proseguì il combattimento incoraggiando i compagni. Pagò il suo valore con un'agonia lunga un mese; la morte lo colse sulla nave ospedale Gradisca durante il viaggio di ritorno. Ebbe anche lui la medaglia d'oro. All'astuzia e al coraggio epico dei difensori abissini, gli italiani contrapposero la loro impetuosa aggressività e la tipica ingegnosità latina. Nuclei di tiratori scelti furono incaricati di puntare le feritoie nemiche: un paziente ricamo di tiri crudeli per fare abbassare la testa ai difensori. Nel frattempo sciami di assaltatori ammucchiarono fascine e legna secca all'imbocco delle caverne per appiccare il fuoco e stanare il nemico. Gli abissini non scamparono alle fiamme, all'asfissia e al fuoco di bombe e moschetti. Ma i superstiti continuarono a combattere, allungando i tempi della battaglia. I carabinieri saltavano da un anfratto all'altro, da un fortino all'altro, accompagnati dai dubat, per vincere la resistenza del nemico. Finalmente l'artiglieria campale si spostò in avanti, a stretto contatto con la fanteria avanzante. Inizialmente si era attirata addosso la beffarda fucileria abissina. Ma poi aggiustò il tiro, producendo effetti devastanti sui nidi di mitragliatrici del nemico.

 

LA GURRIGLIA CONTINUA.

Le truppe italiane formarono un quadrato intorno alle posizioni abissine ancora attive impedendo molte sortite a partire dal tramonto e per tutta la notte. La mattina seguente continuò l'opera minuziosa di rastrellamento dalle 8,30 alle 11,30. Gli abissini preferirono farsi uccidere in campo aperto o tentare una fuga disperata, dopo una lotta accanita durata 12 ore nell'arco di due giorni. Alla fine i loro capi furono catturati o si arresero e fu così aperta la strada per il successivo balzo su Bullale e Dagabur. Ventidue appartenenti all'Arma persero la vita nella battaglia. La notizia dello sfondamento della linea Hindenburg demoralizzò talmente le forze etiopiche che, nonostante che le posizioni di Bullaleh e Dagabur fossero altrettanto favorevoli alla difesa, le colonne italiane non incontrarono resistenza.

Il 28 aprile 1936 cadde Sassabaneh, quattro giorni dopo fu la volta di Dagabur. Il 5 maggio il tricolore fu issato su Giggiga, testimone di cento scontri, l'8 seguente capitolò Harar e ventiquattr'ore dopo le forze italiane entrarono a Dire Daua. Fu in questa città che avvenne il ricongiungimento delle armate del fronte settentrionale e di quello meridionale della campagna etiopica. Lo stesso giorno, il 5 maggio, il comandante supremo, il generale Pietro Badoglio, fece il suo ingresso trionfale nella capitale Addis Abeba. Quattro giorni dopo lo sconfitto Negus, Hailé Selassié, parti per l'esilio a Londra. Aveva perso il trono e il suo paese aveva perso un'indipendenza lungamente e gelosamente difesa ma il sovrano continuò ugualmente a coltivare la speranza di tornare in patria. La sua attesa durò sette anni, fino alla caduta del fascismo che si trascinò dietro l'Impero, proclamato il 5 maggio del 1936. Con la conquista dell'aspra regione del Goggiam la guerra si concluse di fatto verso la fine di maggio, anche se bande di partigiani continuarono a combattere. Brigantaggio e faide tribali aggravarono in seguito il problema dell'ordine pubblico. Nei giorni seguenti alla conquista di Addis Abeba, i carabinieri, al comando del colonnello Azzolino Hazon, arrestarono un numero imponente di criminali: 606 colpevoli di omicidi o ferimenti gravi (su un totale di 651 fatti di sangue denunciati); 825 colpevoli di reati gravi. Altri 477 individui furono denunciati.

 

SERVIZIO INFORMAZIONI.

Il Colonnello Hazon era un Ufficiale particolarmente dotato di spirito organizzativo ed informativo. Per suo impulso venne creato un servizio di informazioni e sicurezza molto efficiente, che permise anche di valutare gli eccessi di brutalità di cui si macchiò l'occupazione fascista. Durante un'assenza di Hazon dalla capitale, nel febbraio del 1937, il maresciallo Graziani (che era stato nominato viceré della colonia) rischiò di rimanere vittima di un attentato. Due studenti riuscirono ad avvicinare il corteo vicereale durante una grande manifestazione pubblica e a scagliare diverse bombe a mano, che tuttavia non colpirono Graziani. Nel giugno 1936 l'Arma fermò, in una sola retata ad Addis Abeba, 1.846 sospetti, 154 dei quali furono trattenuti in arresto. Un mese dopo fu fatto l'inventario delle armi sequestrate alle bande ribelli che cercavano di organizzare la resistenza contro gli italiani: erano 300 tra mitragliatrici e fucili mitragliatori, 10.000 fucili e 30 quintali di munizioni.

I sequestri potevano avvenire nelle circostanze più diverse. Molte armi furono rinvenute nelle fascine di legna che venivano vendute al mercato o in depositi clandestini. Più singolare fu l'operazione condotta da un sottufficiale insospettito dal numero esorbitante di congiunti, amici e familiari che accompagnavano un funerale. Il sottufficiale si assunse il delicato compito di fermare il corteo funebre e aprire la bara, dentro la quale trovò, invece del caro estinto, un paio di mitragliatrici. Altre volte i rinvenimenti avvennero sulla base di precise segnalazioni del servizio informazioni immediatamente allestito dall'Arma. E fu, appunto, sulla base di una informativa che la compagnia interna di Addis Abeba si recò al mulino Salvioni con 37 carabinieri, 20 zaptiè e tre mitragliatrici. La perquisizione di oltre 300 tucul fruttò un cospicuo bottino di armi e munizioni, ma i ribelli della zona non intendevano affitto lasciare ai Carabinieri il controllo della situazione. Sulla via del ritorno gli automezzi finirono sotto il tiro incrociato di almeno 300 resistenti. Il rapporto di forze era spaventoso (5 ribelli per ogni carabiniere) ma i militi riuscirono a ripararsi in un casolare. Otto carabinieri e sette zaptié persero la vita durante l'assedio, prima che sul posto accorresse la 6' centuria dei Carabinieri Reali che riuscì a sgominare i ribelli con una violenta carica alla baionetta.

I viaggi ferroviari costituivano un'altra avventura degna del Far West: la linea preferita dalle incursioni abissine era senz'altro quella che collegava Addis Abeba con la colonia francese di Gibuti. Di una di queste "avventure" fu testimone un giornalista, che si affrettò a darne notizia. Una banda partigiana, forte di 500 uomini interruppe la ferrovia in nove punti diversi, nella zona del monte Ierer e tese l'agguato fra le località di Ducam e Ada. Per fortuna dei passeggeri, sul treno si trovavano una trentina di carabinieri della 450ª sezione mobilitata. Nonostante la pesantissima inferiorità numerica, i carabinieri riuscirono a organizzare un quadrato a terra resistendo all'aggressione del nemico. Un autentico miracolo, dovuto alla grande disciplina e alla straordinaria fermezza di quegli uomini, che scrissero un'altra pagina di controverso eroismo coloniale. Organizzata l'Etiopia in governatorati, l'Arma si costituì con un comando superiore ad Addis Abeba e sei gruppi (Addis Abeba, Gondar, Gimma, Harrar, Asmara e Mogadiscio), ciascuno dei quali formato da quattro compagnie. La struttura era completata da una scuola allievi zaptié. La forza media era di 100 ufficiali, 750 sottufficiali, circa 1.000 tra appuntati e carabinieri, circa 3.500 militari indigeni. Nel corso della guerra d'Etiopia 208 carabinieri persero la vita e 800 furono feriti. Ai militi dell'Arma furono concesse 4 medaglie d'oro, 49 d'argento, 108 di bronzo, 435 croci di guerra. La bandiera venne insignita della croce di cavaliere dell'Ordine militare d'Italia.

 

3. Rodi, in fondo al mediterraneo

Un gruppo di soldati italiani in una luminosa isoletta dell'Egeo dentro una linda caserma tirata a calce. Fiori e piccoli orti ingentiliscono il piccolo edificio militare. Potrebbe essere una scena del film "Mediterraneo" di Gabriele Salvatores, se non fosse per il fatto che questi uomini portano sul berretto la caratteristica fiamma dell'Arma. Rodi ed altre isole minori del Dodecanneso erano state occupate nel lontano 1912 dall'Italia per premere sul governo ottomano in modo da concludere alla scelta la guerra in Libia. Doveva essere un'occupazione provvisoria, ma che secondo la bizzarra legge della provvisorietà finì per diventare permanente. Il trattato di Parigi del 1920 aveva previsto che le isole fossero consegnate alla Grecia, ma l'Italia aveva nel marzo 1921 occupato anche l'isola di Castelrosso. I Carabinieri, prevedendo lo sganciamento italiano da quei possedimenti, avevano prudenzialmente creato un corpo autonomo di polizia, denominato Corpo dei Carabinieri di Rodi e Castelrosso. Questo corpo era prevalentemente formato da elementi locali, spesso di origine ortodossa, inquadrati da sottufficiali italiani agli ordini di un tenente.

Il corpo rimase in vita per un anno appena: la guerra in Anatolia aveva spezzato la potenza greca in Asia minore e le isole rimasero italiane. A questo punto tornò a funzionare a pieno organico la compagnia dei CCRR dell'Egeo. Si trattava di un compito faticoso. Scrisse nelle sue memorie il capitano Guido Grassini "C'è lavoro per tutti nelle caserme dei Carabinieri dell'Egeo, come del resto anche in quelle d'Italia. Ma laggiù, a differenza che nel Regno, tutto si assomma e si conclude nell'opera dei carabiniere: dal servizio d'istituto vero e proprio ad un'infinità di altre mansioni che fanno dei nostri militari i maestri d'italiano, gli ufficiali postali, doganali e marittimi, i giudici conciliatori, i notai, i consiglieri e i protettori della popolazione indigena. E’ una processione continua di popolani, di ogni età e di ogni sesso, che si recano alla caserma per avere aiuto, assistenza, consiglio".

 

4. Per chi suona la campana

Gli uomini più anziani, vedendo le immagini della terribile guerra in corso nell'ex Jugoslavia, ricorderanno forse quel che accadde in Spagna nella seconda metà degli anni Trenta. Una guerra civile, una sporca guerra, spietata come sanno esserlo quelle combattute fra persone che hanno sempre vissuto insieme e che riescono ad esprimere un odio bestiale e senza quartiere. Democratici e sinistre avevano vinto le elezioni nel febbraio 1936, avviando per la prima volta una seria riforma delle anchilosate strutture sociali ed economiche del Paese. L'elettorato progressista si era raccolto nel fronte popolare che metteva insieme parte della borghesia, il proletariato umiliato dai precedenti regimi ed un bracciantato agricolo ancora in condizioni miserrime, con la speranza di costruire un Paese più libero e moderno. I conservatori neri avevano digerito la sconfitta delle urne e temevano che il fronte popolare avrebbe rapidamente portato la Spagna verso un regime di tipo sovietico. Clero, proprietari terrieri e alti gradi delle forze armate si trovarono uniti nel paventare una prospettiva del genere. Naturalmente speranze e timori di tipo ideologico si innervavano nella difesa di interessi precostituiti o nel desiderio di scalzarli. La polarizzazione ideologica del Paese degenerò presto in una assoluta intolleranza reciproca. Un omicidio politico, quello del monarchico Calvo Sotelo, affrettò l'azione di un gruppo di generali che tessevano le loro trame nella colonia del Marocco.

Il Marocco spagnolo era stato la palestra repressiva di molti quadri di un esercito strutturato soprattutto per imprese coloniali e per esercitare un soffocante controllo interno. Era anche la sede del Tercio, l'equivalente della Legione straniera francese, una forza d'élite adatta ad essere strumentalizzata nelle mani di generali senza scrupoli. Francisco Franco era un comandante dotato di un grande ascendente sulle truppe, buona esperienza di guerra in Marocco: si era anche dimostrato sostanzialmente privo di remore quando nel 1934 fu chiamato a soffocare nel sangue la rivolta dei minatori asturiani. Fu lui a guidare la traversata dello stretto di Gibilterra per attaccare il territorio metropolitano e fu lui a mobilitare il movimento di destra della Falange per reclutare gli aderenti alla ribellione. Fu una scintilla: da un lato si mobilitarono i fascisti, dall'altro le forze regolari ed irregolari fedeli alla repubblica. Italia e Germania, le grandi potenze fasciste, si resero immediatamente conto che la Spagna poteva costituire il banco di prova della loro lotta al comunismo.

 

VOLONTARI E COMANDATI.

L'Europa democratica espresse in quel momento, nella migliore tradizione di solidarietà libertaria risorgimentale, una serie di brigate di volontari internazionali. Spesso fuoriusciti da Paesi ormai occupati dal nazifascismo, i volontari delle brigate offrirono un generoso contributo per una lotta difficile. Dall’altra parte si trovarono truppe più o meno regolari inviate dai governi di Berlino e di Roma. Hitler era soprattutto interessato a sperimentare l'efficienza della sua nuova aeronautica. Piloti e tecnici della Luftwaffe lasciarono i ruoli ufficiali e furono trasformati in volontari della Legione Condor. Si trattava naturalmente di uomini precettati, né avrebbe potuto essere altrimenti, essendo impossibile ipotizzare una flotta aerea frutto di un volontarismo spontaneo. I tedeschi furono presenti in Spagna con 20.000 uomini. Mussolini era convinto che la guerra sarebbe stata breve e vittoriosa e inviò il CTV (Corpo Truppe Volontarie) forte di 40-60.000 uomini e largamente rifornito di mezzi dalla madrepatria. La sua speranza era di cogliere un altro brillante successo di fronte all'opinione pubblica mondiale e magari di ottenere in cambio le Baleari per l'appoggio fornito ai franchisti. Non si rese conto (o finse di non rendersi conto) del rischio costituito dal fatto che italiani di fede politica opposta si battessero gli uni contro gli altri in Spagna, incrinando definitivamente un già fragile consenso nazionale.

L'Unione Sovietica, invece, non poteva impegnarsi a fondo nella guerra, ma preferì (in nome dell'internazionalismo comunista) inviare un buon numero di consiglieri militari, pezzi d'artiglieria e aeroplani da caccia smontati. Non mancò, inoltre, di inviare immediatamente sul posto commissari politici con l'incarico di controllare, guidare e possibilmente egemonizzare in senso ortodosso, le locali forze di sinistra. E le democrazie occidentali? In preda all'indecisione ed alla miopia politica gli Stati Uniti, l'Inghilterra e la Francia si attennero a una sterile linea di non-intervento, che finì per impedire al governo repubblicano di acquistare armi all'estero o di sfruttare le frontiere francesi per ottenerne. Un apposito comitato intergovernativo di non-intervento venne istituito a Londra e a 29 Stati, fra i quali anche la Germania e l'Italia, fu affidato il compito di pattugliare le coste spagnole per circoscrivere la guerra. Una simile politica finì logicamente per favorire le potenze più attive, disposte a non crearsi troppi scrupoli nell'aiutare i militari ribelli. Certamente l'atteggiamento eccessivamente, prudente dei governi democratici europei fu determinato dalla paura di un allargamento del conflitto che avrebbe potuto coinvolgere il mondo intero (come sarebbe accaduto appena tre anni più tardi)i la paura fece premio sui principi di legittimità internazionale e finì per ottenere l'effetto opposto a quello sperato, incoraggiando le ambizioni e la protervia di Adolfo Hitler.

 

DA CADICE A BARCELLONA.

La guerra di Spagna non si risolse in una facile passeggiata militare. Ci vollero ben tre anni (dal luglio 1936 al marzo 1939) perché i falangisti spezzassero la resistenza lealista. I franchisti ottennero il primo successo riuscendo a spostare il loro comando e il centro di gravità delle loro truppe dal Marocco alla terraferma spagnola. Il 18 luglio le guarnigioni militari di cinque città del Marocco spagnolo e di dodici città spagnole si sollevarono simultaneamente dopo un violento scontro fra il Tercio e un gruppo di manifestanti comunisti a Melilla. Franco, benché esiliato nelle lontane Canarie dal governo socialista guidato da Manuel Azana, riuscì a raggiungere in aereo Melilla, assumendo il comando dei rivoltosi. La marina era appena passata dalla parte dei falangisti e questo favorì primi successi di Franco. La rivolta fallì invece a Madrid e a Barcellona, mentre a Toledo i cadetti seguirono il colonnello josé Moscardò in una eroica resistenza di 10 settimane nella vecchia fortezza dell'Alcazar. L'obbiettivo principale dei falangisti (oltre all'occupazione delle regioni più arretrate e fedeli al vecchio regime) era rappresentato da Madrid, ma l'avanzata fu più lenta de previsto. Soltanto nel mese di novembre Franco riuscì a cingere d'assedio la capitale che oppose una strenua resistenza, durata quattro lunghi mesi, guidata dal generale repubblicano José Miaja. Nella settimana dall'8 al 16 marzo 1937 due divisioni del Corpo Truppe Volontarie italiano riuscirono a penetrare nelle linee repubblicane per isolare Madrid puntando su Guadalajara. Una pioggia torrenziale mise però in gravissime difficoltà i soldati italiani, costretti a muoversi in un pantano, e l'aviazione repubblicana, servendosi di cacciabombardieri sovietici, gettò lo scompiglio nella colonna. Fu un autentico disastro, culminato nella battaglia di Brihuega dove le brigate internazionali schiantarono quel che restava delle due orgogliose divisioni.

E fu una disfatta anche di ordine psicologico. Le truppe fasciste si erano rivelate vulnerabili e Mussolini temendo che il prestigio internazionale dell'Italia subisse un colpo troppo duro da questa sconfitta, si preoccupò di irrobustire il contingente inviato in Spagna rinforzandolo con truppe più addestrate e meglio armate. Fu, anche questo, un errore di valutazione, perché la guerra civile spagnola finì per comportare un prezzo eccessivamente alto in uomini, mezzi e risorse economiche: un prezzo che il regime fascista non poteva permettersi, come si sarebbe visto pochi anni più tardi. Anche i tedeschi approfittarono dello sbandamento italiano, in termini di propaganda. Da tempo i teorici della Luftwaffe avevano studiato e preconizzato la necessità di concentrare il bombardamento aereo nel tempo e nello spazio allo scopo di ottenere il massimo effetto distruttivo. Ora avevano bisogno di una conferma sperimentale. Il 25 aprile 1937 la storica città di Guernica, anima della cultura basca, fece appena in tempo a sentire il rombo delle ondate di aeroplani che sopraggiungevano. Nelle stradine della città nessuno immaginava che cosa stesse per accadere. Un attimo più tardi, un diluvio di bombe incendiarie e dirompenti seminò morte e distruzione. La Luftwaffe aveva dimostrato all'Europa inorridita la sua malefica potenza, paralizzando in molte capitali del continente ogni volontà di resistenza alla rinascente potenza tedesca. La guerra di Spagna fu anche un banco di prova per nuove armi e nuove tattiche. I vari modelli delle fabbriche Junkers, Heinkel, Messerschmitt, Arado conobbero qui il loro battesimo del fuoco, anche se non tutte le lezioni di questo conflitto si riveleranno utili nella Seconda Guerra Mondiale. Pochi mesi dopo per la Repubblica suonò la campana a morte con la caduta di Bilbao, coronata dall'insediamento falangista in tutta la Spagna nordoccidentale. E il successo di Franco fu agevolato dalle divisioni politiche che si manifestarono nelle file repubblicane.

 

EQUIVOCI FRA LUCERNE.

I primi Carabinieri Reali arrivarono in Spagna nel 1937: durante tutto il conflitto non superarono complessivamente mai le 500 unità, Inizialmente articolati su una compagnia e tre sezioni, furono poi sempre dislocati in sezioni, più adatte ai compiti richiesti. Indossavano l'uniforme kaki spagnola, conservando però i loro alamari d'argento. Uno dei loro maggiori problemi fu inizialmente quello di far capire la differenza fra i loro compiti e quelli dei carabineros spagnoli, guardie doganali. Non si trattava di piccoli puntigli, ma del legittimo desiderio di qualificarsi come un corpo d'élite, geloso delle proprie tradizioni. Ma superato questo equivoco, se ne affacciò un altro, quando gli spagnoli paragonarono i nostri Carabinieri alla loro guardia civile, che effettivamente aveva una storia, una struttura, compiti e perfino abitudini e divise simili a quelli dei Carabinieri (si muovevano in coppia, avevano la lucerna in testa). In questo caso, il desiderio di distinguersi dalla guardia civile nasceva anche dalla consapevolezza di quanto essa fosse impopolare in molte regioni della Spagna a causa dell'opera sistematica di repressione da essa attuata. Sul piano operativo, tuttavia, si creò una stretta collaborazione fra Carabinieri e guardia civile, spesso inquadrati insieme.

I compiti svolti dall'Arma durante la guerra civile di Spagna riguardarono soprattutto la polizia militare, la sorveglianza delle comunicazioni, l'assistenza alle popolazioni e l'ordine pubblico. Le basi logistiche italiane si trovano a Cadice e a Siviglia, ma i nodi delle linee di rifornimento erano localizzati nelle maggiori città (Salamanca, Valladolid, Valencia, Burgos, Vitoria, Bilbao, Logrono). In ognuna di esse vi era un distaccamento di Carabinieri e lungo le linee ferroviarie le scorte erano particolarmente intense nei giorni in cui venivano trasportati i rifornimenti per il CTV. I Carabinieri furono quindi impegnati sia nelle retrovie sia nelle maggiori battaglie: Malaga, Guadalajara, Ebro, Levante, Catalogna e Madrid. In ognuno di questi compiti, i militi dell'Arma fecero sempre il loro dovere. Quando il contingente lasciò la Spagna nel 1939, si era guadagnato 13 medaglie d'argento, 45 di bronzo, 105 croci di guerra e 43 promozioni per meriti di guerra. Molti di quei 500 uomini non seppero mai con precisione che cosa stesse accadendo intorno a loro, anche se sentivano istintivamente che giorni ancor più foschi si profilavano all'orizzonte. Dopo il blitz tedesco in Polonia l'Italia avrà appena un anno di respiro, prima di affondare nella seconda guerra mondiale.

 

 

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NOTE

 

FONTI

Il sito ufficiale dell'Arma dei Carabinieri www.carabinieri.it



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