Si ringraziano Alessandro Politi e il sito
ufficiale dell'Arma che hanno reso possibile la pubblicazione di
questo articolo, che trovate in versione integrale all'indirizzo
www.carabinieri.it
La
guerra d'Etiopia
Prologo
Il riarmo
tedesco, iniziato nel 1933 e reso effettivo il 6 marzo 1935 con il ripristino in
Germania del servizio militare obbligatorio, in spregio alle clausole del
trattato di Versailles, colse di sorpresa le Potenze europee e fece perdere ogni
parvenza di autorità alla Società delle Nazioni. Di conseguenza i diversi
governi cercarono, ciascuno per proprio conto, di garantirsi quella sicurezza
che la Società delle Nazioni non poteva ormai più offrire. L'Italia era
combattuta tra i propri interessi nell'area balcanico-danubiana, in antitesi con
la Germania, e la ricerca verso l'Africa, in particolare l'Etiopia, di quegli
sbocchi territoriali che avrebbero potuto costituire un'alternativa al freno
imposto dai paesi d'oltremare alla forte emigrazione italiana. Tale progetto era
però osteggiato da Francia ed Inghilterra, segnatamente da quest'ultima, che
temeva di veder compromessa la posizione dei propri domini in Africa Orientale e
paventava la possibile concorrenza dell'Italia nel commercio con l'Oriente.
Il Governo italiano si risolse a favore degl'interessi africani e decise di
portare a compimento quella penetrazione in Etiopia abbandonata nel 1896. Per
organizzare le forze che avrebbero dovuto attuare i piani del Governo,
nell'aprile 1935 fu istituito il “Comando Superiore dell'Africa Orientale” (1)
di cui fece parte il "Comando Superiore Carabinieri". Il 2
ottobre 1935 venne dato il via alle operazioni militari ed il 3 seguente le
truppe italiane varcarono il fiume Mareb, che segnava il confine tra Eritrea ed
Etiopia. La manovra italiana era articolata su tre colonne avanzanti: ad Est il
I Corpo d'Armata (gen. Ruggero Santini), al centro il Corpo d'Armata Eritreo
(gen. Alessandro Pirzio Biroli), ad Ovest il II Corpo d'Armata (gen. Pietro
Maravigna), con gli obiettivi rispettivi di Adigrat, Entisciò e Adua.
Contemporaneamente varcava il confine somalo un Corpo misto (gen. Rodolfo
Graziani). Tutte le Unità erano agli ordini del gen. Emilio De Bono.
Per il "Comando Superiore Carabinieri" presso il Comando
Superiore dell'Africa Orientale furono mobilitate cinque Sezioni, un Nucleo
ufficio postale ed una Sezione zaptiè, dislocata presso il Comando del Corpo
d'Armata Eritreo. Successivamente furono anche mobilitate 2 Sezioni Carabinieri
da montagna, una Sezione a cavallo ed un Nucleo postale per ciascun Corpo
d'Armata e Divisione destinati ad operare in Africa Orientale. In Somalia
vennero costituite due "Bande" con truppe indigene, forti di 23
ufficiali e 1100 tra sottufficiali e militari semplici. Fu infine istituito un
Comando Carabinieri di Intendenza, per il coordinamento dei servizi di polizia
militare nelle retrovie e per compiti informativi. Col progressivo affluire sul
teatro operativo delle Grandi Unità, l'Arma portò i suoi reparti in Africa a 55
Sezioni da montagna, 6 a cavallo, 6 miste, 3 Sezioni zaptiè e 23 Nuclei, oltre a
3.143 zaptiè e 2.500 dubat somali, inquadrati in reparti diversi. L'Esercito
etiopico era diviso in sette masse al comando del Negus Hailè Selassiè, delle
quali due terzi fronteggiavano l'Eritrea ed un terzo la Somalia, territori già
acquisiti dall'Italia.
Le operazioni militari, iniziate come s'è detto il 2 ottobre 1935, portarono il
5 successivo alla caduta di Adua; l'8 novembre fu presa anche Makallè. In queste
due città, tanto significative per la storia italiana, nuclei di Carabinieri
entrarono per primi assieme ai reparti dell'84° e del 60° Fanteria. Frattanto al
Sud le truppe della Somalia avanzavano su due direttrici:
Dolo-Filtù-Neghelli-Madarà-Scebeli; Ogaden-Harar-Dire Daua. Il 15 dicembre
l'armata di Ras Immirù tentò invano un'offensiva volta a minacciare l'Eritrea,
superando i guadi dei fiume Tacazzè e cercando di risalire a Nord verso la zona
di Selaclacà. In quella circostanza il maggiore dei Carabinieri Giuseppe
Contadini costituì quattro Bande di irregolari indigeni da impiegare come
ausiliari di polizia, per la vigilanza della frontiera; due di esse erano
comandate da sottufficiali dell'Arma. In particolare la banda di Cohain, il cui
nome derivava dalla zona di reclutamento, fu posta agli ordini del brigadiere
Silvio Meloni. Questi, durante una ricognizione oltre il Mareb, nel corso della
quale le bande si erano scontrate con un forte numero di nemici, resistette con
il suo reparto per otto ore contrattaccando nuclei etiopici che cercavano di
aggirare lo schieramento italiano. Infine, caduto l'ufficiale comandante lo
scaglione di cui la banda di Cohain faceva parte, il Meloni prese il comando dei
reparto; ferito a sua volta, fu sopraffatto e catturato insieme al carabiniere
Domenico Palazzo, anche lui gravemente ferito. Tuttavia i superstiti riuscirono
a rompere l'accerchiamento nemico e a ricongiungersi con il XXVII Battaglione
eritreo.
Nello stesso episodio si distinsero anche il brigadiere Giovanni Amorelli, il
quale, ferito tre volte, cadde in un assalto nel tentativo di spezzare il
cerchio nemico, ed il carabiniere Angelo Alaimo, che venne colpito al cuore
mentre anch'egli si lanciava all'attacco spronando i suoi commilitoni. Alla
Memoria dei militari fu concessa la Medaglia d'Argento al Valor Militare. Alle
vittoriose operazioni contro Ras Immirù presero parte anche la 305a e 515a
Sezione Carabinieri, attestate nella zona difensiva di Adì Qualà - Furdínai -
Arresa - Tucul. Gli indigeni, viste stroncate le loro manovre offensive sul
fronte settentrionale, si asserragliarono nella regione del Tembien agli ordini
di Ras Cassa, progettando di attaccare il fianco destro dello schieramento
italiano ed infiltrarsi tra Makallè e Adua. Ma il gen. Pietro Badoglio, che
aveva sostituito De Bono il 28 novembre 1935, prevenne la manovra nemica
attaccando per primo. Il 20 gennaio 1936 le colonne italiane avanzarono nella
regione occupando la località di Zeban Chercatà. Il 21 seguente le forze
italiane che difendevano il passo Uarieu, importantissima porta del Tembien, si
trovarono, nel corso di una sortita, improvvisamente attaccate da soverchianti
forze nemiche. Si accese un combattimento che divenne particolarmente aspro
quando i reparti nazionali, ritiratisi, dovettero difendere le posizioni del
passo. L'assedio si protrasse sino al 24, allorché l'aviazione italiana ed i
rinforzi del XXIV Battaglione eritreo misero in fuga gli assedianti. Alla
battaglia parteciparono valorosamente la 302a e la 312a Sezione Carabinieri.
Frattanto sul fronte meridionale il gen. Graziani, pur non disponendo di molte
forze, decise di attaccare gli etiopici di Ras Destà che avanzavano a Sud di
Neghelli nell'intento di avvolgere le ali dello schieramento italiano alle
spalle di Dolo. La battaglia divampò per tutto il gennaio 1936 tra i fiumi Daua
Parma, Canale Doria e Vebi Gestro. Entro il 26 gennaio gli italiani occuparono
tutta l'area compresa fra i tre fiumi ed una colonna mista. risalendo il Daua,
si spinse sino a Malca Murri, a 210 km. da Dolo, base di partenza. Va qui
ricordato l'episodio d'eroismo che ebbe per protagonista il brigadiere Salvatore
Pietrocola il quale, durante un combattimento a Malca Guba, nella zona di
Neghelli, in un momento particolarmente critico dell'azione, caduto il proprio
comandante, condusse i pochi superstiti all'assalto, pur ferito gravemente,
sinché non cadde colpito a morte. Alla sua Memoria venne concessa la Medaglia
d'Oro al Valor Militare. Il successo ottenuto nel Tembien spinse il gen.
Badoglio a colpire il nemico sull'Amba Aradam, zona di sutura tra le forze
etiopiche del Tembien ed il grosso dislocato nell' Endertà al comando di Ras
Mulughetà. Il vittorioso scontro che ne seguì, noto con il nome di battaglia
dell' Endertà, costituì la premessa strategica della seconda battaglia del
Tembien, con la quale le forze congiunte dei Ras Cassa e Sejum vennero
definitivamente sconfitte tra il 27 ed il 29 febbraio 1936. Avviata la campagna
verso la fase conclusiva, furono istituiti 4 speciali reparti dell'Arma da
impiegare in operazioni tattiche, denominati "Bande autocarrate".
Esse vennero inquadrate a Roma ed articolate ciascuna su due Compagnie ed un
Plotone comando, per un complesso di 1.000 uomini. Tali reparti s'imbarcarono il
25 febbraio 1936 e raggiunsero Obbia, in Somalia, il 10 marzo successivo.
Sul fronte settentrionale le truppe italiane, avanzando su Gondar e Socotà,
occuparono il 28 febbraio la storica Amba Alagi, costringendo il Negus Hailè
Selassiè a ritirarsi, con il grosso del suo esercito, a Sud del lago Ascianghi.
Da qui il sovrano etiope tentò invano la controffensiva, ma le truppe italiane
attestatesi a difesa presso lo stesso lago, sostennero dapprima l'urto nemico
fra il 31 marzo ed il l' aprile 1936, poi passarono al contrattacco sbaragliando
le forze etiopiche. Quest'ultima vittoria aprì al gen. Badoglio la via di Addis
Abeba, capitale dell'impero negussita e, su quella via, il 15 aprile cadde la
città di Dessiè. A Sud, intanto, il 12 aprile fu costituito il Comando
Raggruppamento Bande di cui facevano parte le "Bande autocarrate"
dei carabinieri, le quali il 24 seguente ebbero modo di segnalarsi nell’aspro
combattimento di Gunu Gadu (2). Questa località costituiva un formidabile
baluardo avanzato dell'Ogaden, presidiato da circa 30.000 etiopici trincerati in
caverne scavate tra gli alberi secolari, profonde tre metri e sistemate in modo
da consentire un'azione incrociata di fuoco. I Carabinieri attaccarono quelle
posizioni con i loro autocarri allo scoperto, ingaggiando un durissimo scontro a
fuoco durato dalle ore 7 alle ore 16 del 24 aprile e costellato da episodi
individuali di valore. Tra i più salienti, quello del capitano dei Carabinieri
Antonio Bonsignore, che si lanciò più volte sui trinceramenti nemici e,
nonostante rimanesse ferito ad un fianco, rifiutò i soccorsi e continuò a
guidare i suoi uomini sinché non cadde colpito a morte; quello del carabiniere
Vittoriano Cimarrusti che, già ferito ad un braccio e medicato sommariamente
torno sulla linea di fuoco attaccando gruppi di etiopi che tentavano di
sorprendere di fianco la propria Compagnia; nuovamente ferito proseguì l'azione
con il lancio di bombe a mano, finché venne sopraffatto dal numero dei nemici;
infine, l'episodio del carabiniere Mario Ghisieni che, ferito gravemente alla
gamba sinistra mentre attaccava le posizioni nemiche, continuò a combattere fin
quando dovette essere soccorso per l'aggravarsi della ferita di cui poco dopo
morì. Alla Memoria dell'ufficiale e dei due altri militari fu concessa la
Medaglia d'Oro al Valor Militare.
Il 28 aprile 1936 cadde Sassabaneh. L'avanzata proseguì quindi per Dagabur, che
fu occupata il 30 successivo; poi il 5 maggio fu la volta di Giggiga, l'8
seguente cadde Harar ed il giorno successivo Dire Daua. Sul fronte
settentrionale il 5 maggio 1936 le truppe italiane entrarono in Addis Abeba. Il
9 dello stesso mese il Negus Hailè Selassiè lasciò l'Etiopia per recarsi in
esilio a Londra. Seguì l'occupazione del Goggiam e alla fine dei maggio 1936 le
operazioni militari poterono dirsi virtualmente concluse. Per le esigenze
dell'intera campagna in Africa Orientale l'Arma aveva richiamato dal congedo
circa 12.000 uomini ed i suoi reparti mobilitati giunsero a 78 Sezioni, oltre ai
Nuclei, alle Bande autocarrate ed a quelle di irregolari indigeni. I
Carabinieri, oltre a partecipare a tutte le fasi del ciclo operativo combattendo
con le altre truppe, si resero indispensabili nei servizi di loro specifica
competenza, di polizia militare e civile. In particolare le Sezioni Carabinieri
presso l'Intendenza curarono la sicurezza delle vie di comunicazione e la
disciplina del traffico, esercitando inoltre un'azione di controllo e assistenza
sui contingenti di operai che affluivano dall'Italia per la costruzione di
strade e di altre strutture di supporto logistico alle truppe operanti.
Nel corso della guerra caddero 208 carabinieri; circa 800 furono i feriti.
Vennero concesse a singoli militari 4 Medaglie d'Oro, 49 d'Argento e 108 di
Bronzo al Valor Militare, oltre a 435 Croci di Guerra. La Bandiera dell'Arma fu
insignita della Croce di Cavaliere dell'Ordine Militare di Savoia (oggi
d'Italia) con la seguente motivazione:
“Durante tutta la campagna, diede innumerevoli prove di fedeltà,
abnegazione, eroismo; offrì olocausto di sangue generoso; riaffermò anche in
terra d'Africa le sue gloriose tradizioni; diede valido contributo alla vittoria”.
1. Premessa
Al viaggiatore
che nel 1934 attraversava la Saar, operosa regione al confine franco-tedesco, si
presentava per le strade l'insolita scena di soldati svedesi, olandesi, inglesi
e carabinieri italiani in pattugliamento. Cosa facevano tutti questi uomini in
divisa 16 anni dopo la fine della Grande Guerra? La loro missione era pacifica,
ma il clima internazionale non lo era affatto. Tutti quei soldati sapevano di trovarsi lì per una decisione
della Società delle Nazioni, il nuovo organismo internazionale sorto per evitare
un'altra carneficina attraverso il negoziato e la difesa collettiva, ma non
tutti potevano essere così fiduciosi in un nuovo ordine mondiale. Fu quella una
delle prime missioni svolte dalla Società: e l’ONU, dopo la Seconda Guerra
Mondiale, avrebbe imitato spesso questa formula di intervento. Gli uomini
chiamati a controllare nella Saar lo svolgimento del referendum erano gli
antesignani dei futuri Caschi blu. Nessuno, allora, sapeva che l'Europa si avviava rapidamente
sul piano inclinato di un altro micidiale conflitto spinta da un nuovo astro
funesto del totalitarismo, complice l'inettitudine e la follia politica delle
grandi democrazie europee.
2. La resistibile ascesa di Adolf Hitler
Il panorama politico europeo e mondiale si modifica
profondamente nel 1933 con l'avvento al potere del capo del Partito
Nazionalsocialista, dal quale dipenderà pochi anni dopo lo scoppio della II
Guerra Mondiale
Quando Mussolini si preparava all'allungo finale che lo avrebbe portato alla
marcia su Roma, nessuno poteva notare quell'oscuro agitatore che il 1° aprile
1920 aveva fondato un piccolo partito di nome NSDAP (Nazionalsozialistische
Deutsche Arbeiter Partei, partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori).
L'inquieta repubblica di Weimar, il primo fragile regime democratico in terra
tedesca, era piena di gente che formava partiti e spesso raccoglieva spostati
senz'arte né parte. La polizia bavarese sapeva che Adolf Hitler aveva messo
insieme un certo numero di energumeni vestiti di camicie brune che si chiamavano
SA (squadre d'assalto), ma in quel periodo considerava molto più pericolosi per
il presente e l'avvenire della Germania i comunisti. Hiter non aveva perso tempo a studiare il funzionamento di un
partito di massa, anche se il modello erano gli odiati socialdemocratici, e
soprattutto aveva trovato un bell'esempio al quale ispirarsi nel duce Mussolini
e nelle sue camicie nere. I primi tentativi di Hlitler, tuttavia, furono fallimentari.
Il putsch di Monaco (1923) si concluse ingloriosamente e il futuro Fuhrer fu
condannato a cinque anni di carcere. Ma alcuni ambienti conservatori avevano già
messo gli occhi sul dinamico ex-caporale e dopo appena cinque mesi di carcere non
mancarono di seguire con simpatia, e incoraggiare, la sua irresistibile ascesa.
Hitler non perse tempo e ricostruì rapidamente il suo
partito, preoccupandosi di curare maggiormente l'organizzazione e la ricerca del
consenso elettorale. Ai lanzichenecchi delle SA affiancò una nuova milizia, le
SS (Schutzstaffeln, squadre di protezione) più pulite, perbene ed estremamente
disciplinate. Nel gennaio 1933 diventò, grazie al successo elettorale,
cancelliere del Reich. Un mese dopo, grazie all'ambiguo incendio del Reichstag,
avviò la liquidazione delle opposizioni democratiche e di sinistra. Le
successive elezioni ancora libere, ma in un clima di terrore, gli diedero un
buon 48 per cento dei suffragi e l'opportunità di sbarazzarsi di alcuni scomodi
compagni di strada. Nel giugno del 1934 l'alleanza tra nazisti, conservatori e
forze armate fu suggellata dalla notte dei lunghi coltelli, in cui le SS
sterminarono le SA e i loro capi populisti. Ormai gli elmetti con la doppia runa
a fulmime non avrebbero più incontrato ostacoli. E da allora Hitler si lanciò,
con parossistica frenesia, in una serie di audaci colpi per smantellare
l'assetto europeo dettato dalle potenze vincitrici a Versailles.
Il primo incontro fra Hitler e Mussolini non fu
particolarmente cordiale. Hitler voleva annettersi lo Stato cuscinetto
dell'Austria, governata dal cattolico autoritario Engelbert Dollfuss, che non
accettava di confondersi nel grande abbraccio paritedesco. I nazisti austriaci
assassinarono il capo del governo, ma le deboli truppe tedesche vennero
congelate alla frontiera quando Mussolini fece sapere che quattro potenti sue
divisioni si trovavano al Brennero. Era forse l'ultima volta che il duce dava
retta alla voce dell'interesse nazionale ed involontariamente offriva all'Europa
un inascoltato esempio di come si dovesse (e si potesse) bloccare sul nascere la
meteora nazista.
3. Nella Saar come i caschi blu
Hitler lasciò
che le acque si calmassero anche perché vi era alle porte l'appuntamento con il
plebiscito della Saar e preferiva procedere nel riarmo occulto della Germania. Con la pace di Versailles (1919) la Francia si era ripresa le
contese regioni dell’Alsazia e della Lorena, ma aveva dovuto accettare il
compromesso di un plebiscito locale per rispettare l'autodeterminazione della
popolazione nella Saar. Su invito della Società delle Nazioni l'Italia spedì 1.300
uomini per la prima operazione di polizia internazionale a garanzia della
tranquillità di una consultazione popolare. Agli ordini del generale
Visconti-Prasca vennero posti un reggimento di granatieri, un battaglione di
carabinieri, uno squadrone di carri veloci e il necessario treno logistico e di
servizi. Il contingente partì il 19-21 dicembre 1934 per unirsi alla
Saarforce, guidata dal generale inglese Brind, comandante in capo della forza.
I carabinieri vennero accasermati presso la Mellin Kaserme a
Sulzbach e la Pascal Kaserme di Dudweiler. In attesa del plebiscito (13 gennaio
1935), i carabinieri si ambientarono nel settore loro assegnato e a stendere la
rete di un servizio informativo per monitorare la situazione politica. Alla data
delle consultazioni ai carabinieri toccarono 81 seggi sui 320 di responsabilità
italiana. Le quattro località (Quierschield, Firedrichsthai, Sulzbach e
Dudweiler) dovevano essere sorvegliate intensamente perché già prima teatro di
gravi torbidi. La giornata del plebiscito trascorse in modo tranquillo, ma
il giorno successivo (15 gennaio) quando fu diffuso via radio l'annuncio
dell'annessione alla Germania non vi furono soltanto manifestazioni di gioia con
bandiere, musica e fiaccolate, ma anche aggressioni ai fautori della neutralità
o ai filofrancesi. Per fortuna l'efficienza della Saarforce e dei suoi
carabinieri permise di ristabilire la calma nel giro di quarantott'ore. Quattro giorni prima della partenza, il generale Brind si
recò in visita di cortesia al battaglione carabinieri, schierato in grande
uniforme. "Ovunque ho udito per il vostro contegno parole di ammirazione e di
compiacimento ed io ringrazio per la vostri cooperazione e per avere reso il mio
compito tanto gradito. Noi stiamo per separarci e per ritornare alle nostre
case, e spero che tutti serberemo un grato ricordo del tempo qui trascorso,
perché in esso abbiamo potuto portare un piccolo contributo alla causa della
pace". Parole di elogio rare per un compassato ufficiale britannico anche in un
discorso di etichetta.
4. Ai confini la Fiamma con gli sci
Nel frattempo i Carabinieri Reali stanno affrontando con
metodo un altro ambiente operativo difficile. La montagna era stata una loro
culla naturale in uno Stato dai confini così aspri come quello sabaudo. Le
stazioni confinarie sulle Alpi avevano sempre avuto in dotazione le racchette
per facilitare, insieme al cavallo, gli spostamenti in inverno. E’ nel 1922, seguendo l'esempio dei loro specializzati
colleghi alpini che tanto avevano brillato nella Grande Guerra, che il Comando
Generale istituisce i reparti di carabinieri sciatori. Del resto i reparti di CC
RR assegnati alle grandi unità dell'esercito di campagna operanti lungo l’arco
alpino provengono in prevalenza dalle stazioni di montagna e hanno già una buona
esperienza. Cosi per i carabinieri sciatori e rocciatori il reclutamento
avviene tra i militi che prestano servizio nelle stazioni dislocate lungo le
Alpi e la dorsale appenninica. Essi sono gli eredi della tradizione alpina
savoiarda dei carabinieri nel 1814.
La dotazione prevede il meglio che possa offrire la tecnica
sciistica degli anni Venti e Trenta: attacchi e bastoncini moderni, sci
specializzati per il fondo o la discesa, materiali come la betulla o il legno di
hickory. Lo stile insegnato è il telemarken, soppiantato poi dallo stile
scandinavo e da quello alpino. Rivedendo le foto dell'epoca, con quegli attacchi a molla e
cavetto d'acciaio (così difficile da reinserire quando si sgancia per una
caduta), le racchette in legno con l'impugnatura e il laccio di cuoio, gli
scarponi rigorosamente di cuoio chiusi da lacci e soffietto, non si può fare a
meno di sorridere pensando alle attuali fibre di carbonio, alle leghe spaziali,
agli scarponi in plastica pressofusa. Eppure si deve anche ai carabinieri se lo sci, ancora poco
diffuso negli anni Venti in Italia, ebbe un grande impulso nel decennio
successivo. Oltre alle normali competizioni di fondo, mezzofondo, discesa pura e
slalom, una specialità alla quale gli appartenenti all'Arma amano prendere parte
è il biathlon militare, una gara impegnativa per resistenza e precisione, visto
che lungo un percorso di fondo bisogna fermarsi e sparare con la massima
rapidità ed accuratezza.
A partire dal 1930 l'Arma predispone corsi regolari di sci presso le legioni di
Torino, Bolzano, Udine e Chieti che si svolgono sui campi di Bardonecchia, Ponte
di Legno, del Tonale, San Candido, Pescocostanzo ed altre località minori.
Nello stesso periodo viene ufficialmente riconosciuto
all'Arma il motto (già usato) «Nei secoli fedele» (circolare n. 247, 20 maggio
1932) e con un decreto del luglio dello stesso anno viene concesso l'uso della
bandiera nazionale ai CC RR. Tre anni dopo, in conseguenza dell'uso della bandiera, viene
anche riconosciuto il diritto a fregiarsi di uno stemma. E’ allora che nasce il
caratteristico blasone con una mano argentata che stringe un serpente e la
granata dirompente d'oro. Particolari insignificanti agli occhi dell'uomo della
strada, ma è su questi tangibili simboli di un solido spirito di corpo che si
costruisce una tradizione per cui si serve, si vive e si muore.
5. Un posto al sole
La politica
estera del duce non poteva essere per la natura stessa del suo regime la
continuazione di quella del precedente regime liberale. Voleva piuttosto
proiettare un'immagine di potenza e di intimidazione anche se questo poteva
alienare simpatie e costare posizioni preziose nel concerto internazionale. L'assassinio del generale Tellini alla frontiera
greco-albanese (1923) offre a Mussolini l'opportunità di sfoggiare una
riedizione della politica delle cannoniere con uno spettacolare bombardamento
terroristico sull’isola greca di Corfù. La reazione britannica a questa sfida alla Società delle
Nazioni è negativa, ma Mussolini non se ne cura eccessivamente e continua a
giocare su un doppio registro: si propone come ago della bilancia e mediatore
fra le potenze europee e al tempo stesso mina gli equilibri del 1919 per
garantire una nuova espansione imperialistica italiana.
Al primo filone di comportamenti appartengono: il patto di
Locarno (1925) per stabilizzare gli assetti tra Francia, Belgio e Germania; il
patto Kellog (1928) per la rinuncia alla guerra; il patto a quattro (1933) per
un direttorio fra Italia, Francia, Germania e Gran Bretagna che favorisca il
disarmo e la collaborazione con la Società delle Nazioni; il trattato di non
aggressione con l'Unione Sovietica (1933); il convegno di Stresa (1935) con la
Francia e la Gran Bretagna per garantire l'integrità dell'Austria e per opporsi
all'ormai evidente riarmo tedesco. La linea destabilizzatrice si concretizza in una serie di
altri eventi: il finanziamento delle organizzazioni fasciste a livello mondiale;
il patto di Roma (1924) con la Jugoslavia per una revisione dei confini senza la
partecipazione della Società delle Nazioni; accordi commerciali con potenze
revisioniste come la Germania e l'URSS; ripetute dichiarazioni secondo le quali
l'Italia ha il compito storico di esportare il fascismo nel mondo e di tornare a
svolgere un ruolo centrale nella civiltà umana come in passato. In questo
secondo filone si inseriscono le nuove mire imperialiste nel Corno d'Africa.
Inizialmente la politica italiana verso l'Etiopia era stata di continuazione di
un benevolo protettorato, confermato dal ruolo attivo svolto per agevolare
l'ingresso di Addis Abeba nella Società delle Nazioni e da un patto di amicizia
che era stato stipulato nel 1928.
Hailé Selassié non nasconde la propria diffidenza nei
confronti del governo di Roma. Nutre il sospetto che l'aiuto di tecnici italiani
preluda alla penetrazione economica. Per sventare la minaccia chiama tecnici da
altre nazioni e ostacola, per quanto possibile, gli appalti alle ditte italiane
per la costruzione di strade, rallentando anche i rapporti commerciali con
l'Italia. Nel giro di pochi anni l'atmosfera si avvelena: secondo la
testimonianza di De Bono, Mussolini inizia a meditare l'invasione dell'Etiopia
fin dal 1932. Il regime fascista sente sul collo il fiato di una
depressione economica che gli aliena i consensi interni, già resi tiepidi
dall'aumento della corruzione e dell'inefficienza nei rami della pubblica
amministrazione. Affiorano così i discorsi sulla necessità di trovare uno sbocco
demografico all'Italia sovrappopolata, di avere diritto in quanto razza
guerriera e virile ad un impero, di conquistare un posto al sole. Non importa
come, non conti a qual prezzo, un successo brillante e inequivocabile appare
ormai urgente, anche per lavare l'onta (mai dimenticata) di Adua.
PRODROMI DELL'ATTACCO.
Quel che occorre è il casus
belli. La zona dei pozzi di Ual-Ual era stata fortificata dagli italiani per
proteggere dalle frequenti incursioni predonesche il confine somalo-etiopico e
per controllare una ventina di pozzi, risorsa essenziale per le popolazioni
nomadi dell'Ogaden, a cavallo tra i due territori. Il possesso della zona, però,
non é pacificamente riconosciuto dall'Etiopia e, per la vicinanza al confine con
il Somaliland britannico, anche l'Inghilterra era interessata alla questione. Il
24 novembre 1934 una commissione mista anglo-etiopica si avvicina ai pozzi,
accompagnata dalla minacciosa presenza di centinaia di abissini armati di tutto
punto. Al momento nel fortino si trovano due sottufficiali indigeni
e una sessantina di dubat, i quali sollecitano istruzioni al telefono senza
cedere la posizione. La tensione sale rapidamente. Arriva il comandante delle
bande armate confinarie, capitano Roberto Cimmaruta, il quale si rende
immediatamente conto che è meglio fare affluire altre forze sostenute da
autoblindo e mettere in allarme l'Aeronautica. Infatti gli abissini pretendono
l'abbandono della postazione. A nulla valgono i tentativi di negoziare sul campo
una qualche soluzione insieme agli osservatori britannici:: la tensione sale
ulteriormente quando i pozzi sono sorvolati dagli aerei italiani. Gli inglesi
esprimono una vibrata protesta e se ne vanno. Restano, invece, le bande
abissine, guidate da un audace fuoriuscito somalo, Omar Samantar, noto per le
sue azioni di guerriglia antiitaliana.
Il 5 dicembre si verificano le prime scaramucce. La risposta
italiana, nel pomeriggio e nella mattina del giorno successivo, è devastante.
L'aviazione interviene mitragliando e spezzonando i concentramenti abissini. Gli
spezzoni al fosforo decidono la partita: 300 morti fra gli abissini, 21 dubat
morti ed un centinaio di feriti fra gli italiani.
Nel gennaio 1935 Mussolini ottiene dal capo del governo francese, Pierre Laval,
un generico assenso alle sue mire sull'Etiopia. Anche il ministro degli Esteri
inglese, Anthony Eden, mostra di illudersi che con qualche concessione
territoriale a spese dell'Etiopia, l'unica nazione indipendente dell'Africa
(membro della Società delle Nazioni), un'intesa antitedesca possa essere
imbastita.
ALLA CONQUISTA DELL'IMPERO.
La macchina bellica
fascista si è comunque messa in moto. Il 24 dicembre 1934 il generale Emilio De
Bono, quadrumviro alla marcia su Roma, parte per l'Eritrea come alto commissari
. o per l'Africa Orientale. Tre giorni dopo scattano le opposte mobilitazioni
parziali italiana in Somalia ed Eritrea ed etiopica nell'Ogaden. Una settimana dopo Mussolini dirama in segreto «Direttive e
piano d'azione per risolvere la questione italo-abissina». Due mesi dopo vengono
mobilitate le divisioni Peloritana e Gavarina, mentre a Massima affluiscono
mezzi ed armi pesanti. Il premier inglese Eden propone prima la cessione di parte
dell'Ogaden abissino in cambio di un corridoio al mare per l'Etiopia. Roma
rifiuta. La conferenza di Stresa appare agli occhi di Mussolini come il giusto
baratto: l'Etiopia contro l'appoggio a danno della Germania.
Il duce, nella sua smania di conquista, non si rende conto
che la partita vera si gioca in Europa e che dalla tenuta del patto contro la
Germania dipende l'indipendenza dell'Austria, e quindi la sicurezza nazionale.
Spera di essere comunque in grado di tutelare il fronte al Brennero mentre è
impegnato in Africa. Capisce invece benissimo che l'azione della Francia e
dell'Inghilterra, lungi dall'impedire efficacemente la sua aggressione, gli
permetterà di rinsaldare il vacillante fronte interno. Londra mostra i muscoli
concentrando la Mediterranean Fleet, ma le informazioni a disposizione di
Mussolini, grazie alle indiscrezioni di membri del governo britannico ostili a
Eden, chiariscono che si tratta di un bluff. Un altro scontro di frontiera rappresenta l'occasione per
esaltare il valore dell'Arma, che di lì a poco impegnerà 12.000 dei suoi uomini.
Nella notte dal 2 al 3 marzo 1932 il brigadiere Gennaro Ventura è di
perlustrazione a cavallo insieme ad un buluk basci degli zaptié (in arabo
poliziotto) nei pressi di Om-Hagher alla frontiera con l'Etiopia. Un consistente
gruppo di abissini tende un'imboscata ferendo lo zaptié, ma Ventura si ripara
dietro un termitaio resiste da solo, costringendo gli abissini alla ritirata
dopo aver lasciato sul campo un morto e due feriti. Una medaglia d'argento
premia il coraggio del brigadiere.
Una ventina di giorni più tardi viene richiamata tutta la
classe del 1911 e De Bono riceve il comando di tutte le forze dell'Africa
Orientale. Successivamente viene costituito un comando superiore dei Carabinieri
Reali presso il comando superiore per l'Africa Orientale con quattro sezioni da
montagna (un ufficiale, otto sottufficiali e 70 uomini), una a cavallo (un
ufficiale, sei sottufficiali e 33 militi) e un nucleo incarico dell'ufficio
postale. Una sezione di zaptié viene assegnata al comando del corpo d'armata
eritreo. La mobilitazione dell'Arma avviene secondo un piano
riservato, con l'anodina denominazione di Progetto AO (Africa Orientale). I
comandi di corpo d'armata e di divisione ricevono in media due sezioni di
carabinieri da montagna, una a cavallo e un nucleo postale. Apposite sezioni
vengono dedicate alle unità di lavoratori che hanno il compito di sostenere
l'immane sforzo logistico in una terra assai accidentata. In Somalia, infine, vengono costituite due bande di
carabinieri autocarrati forti di 1.062 uomini in gran parte indigeni, inquadrati
da 23 ufficiali e 42 sottufficiali.
SOGNI DI GLORIA.
Nell'autunno del 1935 il dispositivo
italiano conta in Eritrea 110.000 italiani e 53.000 indigeni, 35.000 quadrupedi,
4.200 mitragliatrici, 580 cannoni, 112 carri armati, 3.700 automezzi e 126
aerei; in Somalia le forze sono inferiori: 24.000 italiani e 30.000 indigeni,
8.000 quadrupedi, 1.600 mitragliatrici, 117 cannoni, 45 carri armati, 1.850
automezzi e 38 aerei. Pronti per l'ultima guerra coloniale del XX secolo. A fronteggiare l'aggressione fascista sono mobilitabili non
meno di 300.000 soldati etiopici, ma non sono inquadrati in moderne unità. E’
ancora un esercito di tipo feudale, praticamente lo stesso che ha sconfitto
Baratieri ad Adua nel 1896. Hailé Selassié, vista l'imminenza della guerra, ha
fatto ricorso al mercato internazionale degli armamenti acquistando (da ditte
cecoslovacche, danesi, francesi e svizzere) 16.000 fucili, 600 mitragliatrici,
alcuni pezzi d'artiglieria (soprattutto contraerea) e 10 milioni di cartucce.
Una goccia rispetto agli imponenti mezzi messi in campo da Mussolini. Certo le
truppe sono motivatissime e conoscono bene il terreno, possono anche disporre di
micidiali pallottole esplosive dum-dum, vietate dalla convenzione di Ginevra, ma
tutto questo non varrà a niente quando gli italiani ricorreranno ai non meno
vietati gas asfissianti. Centinaia di combattenti abissini verranno sfigurati
dall'iprite lanciata dall'aeronautica fascista.
Il 2 ottobre 1935 scatta l'attacco con l'attraversamento del
confine segnato dal fiume Mareb. La Società delle Nazioni, già minata nella
credibilità da numerosi scacchi internazionali, non può che condannare
l'aggressione e il 18 novembre vota dure sanzioni economiche. Carbone e petrolio non figurano nella lista degli articoli
embargati e l’URSS non si fa pregare nel rispettare il suo trattato economico
con l'Italia fornendo spregiudicatamente le materie prime necessarie alla guerra
imperialista; la marina mercantile degli Stati Uniti non è vincolata
giuridicamente dalla decisione dell'organismo internazionale e la Germania
ignora l'embargo. Mussolini organizza imponenti manifestazioni contro le
sanzioni dipingendo ai suoi sudditi un'Italia ingiustamente strangolata dalle
nazioni plutocratiche. Viene proclamata l'autarchia economica per ridurre la
dipendenza dalle importazioni, con il ricorso a surrogati di ogni genere (per
esempio, lana di caseina e caffè di cicoria) e al riciclaggio di tutti i rottami
metallici.
Il culmine dell'esaltazione di massa viene raggiunto con la pubblica raccolta
delle fedi nuziali per sostenere le riserve auree della nazione.
L'ondata di nazionalismo acceca anche dissidenti come
Vittorio Emanuele Orlando, Arturo Labriola, Benedetto Croce e Luigi Albertini. La
Chiesa cattolica, pur trattandosi di una guerra contro cristiani copti scatenata
da un dittatore proclamatosi per l'occasione difensore dell’Islam, sceglie un
diplomatico silenzio. In un disperato e indecente sforzo di evitare la guerra
nel dicembre 1936 viene presentato il piano Hoare-Laval che consiste nel cedere
all'Italia gran parte dell'Etiopia (Ogaden, Tigrai, Dancalia), conservando
l'indipendenza al resto del Paese. E’ nel continente nero che si svolge la prova
generale del vergognoso accordo di Monaco a spese della Cecoslovacchia, ma
nessuno se ne accorge. Eppure l'Italia virile vuole una gloriosa guerra contro i
barbari abissini. Hitler non partecipa alla grande finzione. Esporta merci
embargate verso Roma. mostra di dimenticare le divergenze con Mussolini
sull'Austria e si prepara ad incassare il suo credito. Il 7 marzo 1936 tre
miseri battaglioni tedeschi rimilitarizzano la Renania senza colpo ferire.
Francia e Gran Bretagna non si avvedono che è stato così scardinato l'intero
equilibrio europeo. Tre corpi d'armata dall'Eritrea penetrano vigorosamente in
terra abissina. Il primo ha come obiettivo Adigrat, il secondo Entisciò e il
terzo puntò direttamente su Adua. Il 5 ottobre cade Adua e l'8 novembre viene
presa Makallè. L'emozione in Italia è grande e per l'occasione viene lanciata la
canzone “Adua è liberata”. I carabinieri penetrano in queste città insieme ai
reparti dell'84° e del 60° reggimento fanteria.
Contemporaneamente dalla Somalia avanza su due direttrici
(Dolo, Filtù, Neghelli, Madarà da un lato e Scebeli, Ogaden, Harar, Dire Daua
dall'altro) il corpo d'armata misto agli ordini di Rodolfo Graziani, il
pacificatore della Libia. Alla fine di novembre De Bene viene opportunamente
promosso per far posto a un professionista della guerra come il generale Pietro
Badoglio, I Carabinieri Reali sono coinvolti presto in aspri combattimenti. Il
15 dicembre l'armata abissina, al comando del valoroso ras Immirù, tenta una
manovra per attaccare l'Eritrea guadando il fiume Tacazzè e risalendo verso la
zona di Selaclacà. In zona sono state costituite da poco quattro bande di
irregolari agli ordini del maggiore dei Carabinieri Giuseppe Contadini. Una di
queste, la banda Cohain (denominazione ricevuta dalla zona di reclutamento)
guidata dal carabiniere Domenico Palazzo e al comando del brigadiere Silvio
Meloni riceve l'ordine di effettuare una ricognizione insieme al 27° battaglione
eritreo nella zona di Adì Chiltè o Adì Abò. Vengono affrontati da superiori
forze abissine alle quali tengono testa per otto ore, fino a quando i superstiti
riescono a rompere l'accerchiamento. Meloni e Palazzo vengono feriti e catturati, ma mantengono un
comportamento dignitoso e valoroso che impone il rispetto ai vincitori,
meritando la medaglia d'argento. Il brigadiere Giovanni Amorelli cade solo dopo
essere stato ferito tre volte nel generoso tentativo di riannodare i contatti
con il battaglione eritreo, mentre il suo collega Angelo Alaimo cade alla testa
dei suoi irregolari mentre si lancia al contrattacco (due medaglie d'argento
alla memoria). Anche gli indigeni si comportano con grande valore. Il
bilancio delle perdite è di 28 fra morti e dispersi e 19 feriti. Non vi sono
medaglie per loro in questa sfortunata azione.
BATTAGLIA PER IL PASSO UARIEU.
Vista stroncata
l'offensiva contro l'Eritrea, gli abissini si asserragliano nell'aspra regione
del Tembien agli ordini dei ras Cassa e Semin e del degiac Mulughietà. Sono in
20.000, occupano posizioni favorevoli e hanno giurato di tenere fino all'ultimo
la zona, feudo personale del ras Seium. Tra di loro vi sono moltissimi
combattenti scioani ed amhara, giustamente famosi per il loro valore, ritenuti
invincibili dalle truppe di colore degli invasori. Poiché conoscono
perfettamente la regione e godono di una buona mobilità tattica, gli abissini
non hanno alcuna intenzione di resistere passivamente, ma mirano a infiltrarsi
nella regione tra Makallè e Adua per colpire il fianco italiano. Badoglio
previene la manovra attaccando per primo a Zaban Chercatà il 20 gennaio 1936, ma
gli abissini sferrano un attacco poderoso contro il passo Uarieu, la porta del
Tembien. Per quattro giorni la situazione è critica fino a quando l'aeronautica
e rinforzi del 24° battaglione eritreo non spezzano l'assedio. Alla resistenza
vittoriosa partecipano le sezioni 302ª, 312ª e 391ª a cavallo dei carabinieri.
Dal diario del capitano Aldo Pucciani, capitano
della 391ª sezione a cavallo: "Ore 9,45 [ ... ] Una frazione nemica, evitata la colonna
eritrea attaccante, ci sbarra il passo. Il comando di corpo d'armata prende
posizione su un'amba mentre noi carabinieri e zaptié ci schieriamo in formazione
di combattimento a fondo valle, dove il terreno permette l'uso del cavallo. Si
accende la battaglia. Gli abissini, oltre 2.000, asserragliati nel paese di
Mekenò, aprono un fuoco micidiale con pallottole esplosive e si lanciano quindi
in puntate offensive, specialmente sulla destra attraverso il letto del torrente
Aini, allo scopo di effettuare l'avvolgimento delle salmerie e del comando. [
... ] I carabinieri a cavallo, con celere manovra, si spiegano per proteggere la
posizione tenendosi pronti alla carica qualora il nemico si presenti nella breve
spianata, mentre una squadra, col comandante la sezione, forte di 20 cavalieri e
armata di mitragliatrici, si lancia verso il burrone. Gli abissini aprono un
fuoco intenso, ma i cavalieri, superato il terreno battuto dalle raffiche
avversarie, raggiungono di balzo il ciglio del burrone, dove regolari in tenuta
kaki e amhara in futa, armati di lunghi kuradè (scimitarre), si scagliano
furibondi all'attacco. I nostri, però, li affrontano imperterriti".
E una guerra che, nell'orrore, rivela aspetti fantastici e
fiabeschi. Insieme al crepitio delle armi automatiche e agli scoppi delle
dum-dum, i sensi sono frastornati dal balenare delle baionette e delle
scimitarre. Rotolano a terra fregi tribali di piume ed elmetti coloniali color
kaki. Da una parte squillano le trombe alla carica, dall'altra risponde l'acuto
suono del negarit abissino. Un anonimo degiac dalla barbetta a pizzo, in sella a un
muletto bianco, mentre esorta i suoi amhara all'attacco, viene disarcionato da
una pallottola vagante. Il caldo è insopportabile e non tira un alito di vento,
ma la spietata fatica della battaglia non arresta l'ardore degli uomini. Sono
passate quasi 6 ore e i contendenti sono ancora avvinghiati in un stretta
mortale intorno alle salmerie. "Sono le 15: il capitano dell'Arma, presi gli ordini dal
comandante il corpo d'armata, organizza un reparto d'assalto: carabinieri e zaptié con mitragliatrici leggere, preceduti e guidati dall'ufficiale, si
lanciano in avanti, divorano il breve pianoro, si accrescono dei valorosi
difensori del burrone e piombano sulla sinistra nemica. La lotta si ravviva
accanitamente in un corpo a corpo furibonda ove gli abissini rivelano tutto il
loro istinto sanguinario e guerriero". Il diario del capitano Pucciani, nel sobrio pudore dello
stile militare, non spiega che cosa sia un corpo a corpo. Come in una rissa
improvvisa i colpi grandinano da ogni parte, budella fuoriescono dalla voragine
creata da una baionettata, una sciabola trancia un braccio, le ossa
scricchiolano per il fendente del calcio di un fucile. Ovunque urla di terrore,
ferocia e morte, che coprono il rantolo dei moribondi e l'ansimare di chi è
ancora vivo. Alla fine sotto le scariche implacabili dei carabinieri, gli
abissini ondeggiano e si danno alla fuga. Quattro medaglie e undici croci al
valore sono la testimonianza del prezzo del valore pagato dai carabinieri e
dagli zaptié in quella sanguinosa e terribile giornata. Sul campo restano i
corpi di 400 etiopi.
Ma la guerra non è soltanto sangue e coraggio: è anche sudore
e olio di gomiti. La vastità e la natura selvaggia del teatro di guerra
richiedono un'intendenza capace di mantenere le sue promesse di efficiente
supporto logistico per le truppe di prima linea. I carabinieri sono lì, nelle
retrovie, per proteggere il flusso vitale e vulnerabile dei rifornimenti dalle
frequenti infiltrazioni nemiche, mantenere l'ordine e raccogliere informazioni,
Sorge così il comando Carabinieri d'intendenza e l'ispettorato delle retrovie
con undici sezioni. Dalla seconda metà del maggio 1935 l'opera infaticabile di
questi organizzatori si rivela determinante. C'è tanto da fare: disciplinare le
operazioni di scarico a Massaua; sorvegliare la manovalanza indigena e
metropolitana; custodire magazzini e ammassi; dirigere e regolare in senso
alterno le autocolonne sulla congestionatissima Massaia-Asmara; proteggere la
linea ferroviaria dell'Asmara; controllare gli operai in afflusso dalla madre
patria e contribuire alla formazione della rete di servizi di polizia militare
nella colonia. Soprattutto la disciplina dei movimenti si rivela un compito
faticoso. e ingrato non solo perché bisogna operare lontani dai propri reparti e
spesso senza un adeguato cambio tra un ciclo ed un altro, ma perché bisogna
mantenersi fermi e cortesi per far rispettare le regole della circolazione a
tutti, anche a chi pretende un trattamento diverso, accampando urgenze
particolari. Il risultato di questo lavoro oscuro, ma determinante, è
rappresentato dal movimento regolare lungo le arterie logistiche, senza quegli
ingorghi da incubo che costano tempo, ritardi e, in definitiva, vite umane al
fronte.
A volte si verificano anche gli imprevisti come, per esempio,
quando in un nucleo di carabinieri dell'intendenza viene a conoscenza di
un'infiltrazione di un forte gruppo di abissini comandati da un casmagnac di ras
Seium. La marcia fino alla zona di Enda Medani Alem è estremamente dura, il
terreno sconosciuto ed insidioso, ma la tenacia viene ricompensata. Dopo un'ora
di combattimento gli abissini sono volti in fuga ed il loro casmagnac catturato.
A due prodi sottufficiali e a un milite dell'Arma viene conferita la medaglia al
valore sul campo. Se sul fronte settentrionale le operazioni non sono facili, a
sud (sul fronte somalo) il semplice fatto di eseguire una comune avanzata è, di
per sé, un'impresa eroica. Le zone di sbarco delle truppe sono lontane dal
confine somalo-etiopico e ancor più lontani sono gli obiettivi dell'avanzata. Il generale Graziani, quando si rende conto di avere a
disposizione appena un centinaio di mezzi, si impegna in un serio sforzo di
lobby burocratico-militare. All'apertura delle ostilità gli automezzi sono
diventati 1.800, ma Graziani sa che deve battere il ferro finché è caldo e ai
primi del 1936 totalizza 3.400 veicoli, che cresceranno ancora fino alla
ragguardevole somma di 5.300 mezzi. Se la Fiat non riesce a fornire gli
automezzi nella quantità richiesta, Graziani (dimenticando le regole
dell'autarchia) ricorre ai mezzi delle americane Dodge e Ford, che costituiscono
gran parte del suo autoparco. Il generale si dà anche da fare per avere unità
adatte a combattere su un fronte cosi duro, sollecitando oltre alla divisione
Peloritana anche l'invio della divisione coloniale Libia e di bande autocarrate
di carabinieri.
I suoi avversari non sono da sottovalutare. Essi dispongono
nella zona di truppe relativamente ben inquadrate e ben addestrate, agli ordini
di comandanti piuttosto giovani, quindi pieni di ardore e di iniziativa, e
affiancati da consiglieri militari stranieri. La figura di comandante di maggior
spicco è il ras Destà Damtù, che ha una quarantina d'anni, è un personaggio di
primo piano nell'impero etiopico, buon conoscitore dell'Europa e delle sue
complesse questioni. Anche l'Italia non gli è sconosciuta perché ha partecipato
a una missione diplomatica con il ras Maconnen e ha visitato anche l'Asmara. Nella sua opera di comando è affiancato dal suo coetaneo
degiac Nasibù Zamanuel, che ha ricoperto l'incarico di console all'Asmara e per
qualche tempo è stato addetto alla missione etiopica a Roma. Esponente di spicco
del movimento nazionalista dei Giovani Etiopi, conosce molto bene le lingue
italiana e francese. La primissima operazione effettuata dagli italiani in Somalia
ha luogo ai primi di novembre e consiste in un'offensiva di rettifica del fronte
nell'Ogaden per conquistare migliori posizioni d'attacco. Cadono le località
strategiche di Goharrei, Gabredarre e Hamanlei, nomi che torneranno quando si
svilupperà lo sforzo offensivo finale delle truppe italiane con alla testa
proprio i Carabinieri. Nel gennaio 1936 si svolge la battaglia di Ganale Doria, una
ben coordinata puntata offensiva nel settore ovest del fronte somalo. La colonna
centrale, agli ordini del colonnello Martini, si scontra con la disperata
resistenza delle truppe etiopiche lungo l'importante camionabile che congiunge
Dolo a Neghelli. All'uadi Dei Dei gli etiopici riescono a tenere in scacco per
due lunghi giorni la colonna Martini e solo dopo combattimenti furiosi le truppe
di ras Destà vengono volte in rotta. Anche se la via per Neghelli è aperta,
continuano feroci scontri sino alla fine, quando le truppe italiane sconfiggono
definitivamente il nemico catturando un enorme bottino di armi, munizioni e
vettovaglie.
Subito dopo, il 28 gennaio, si apre la seconda fase delle
operazioni che vede il generale Bergonzoli impegnato in operazioni di grande
polizia, cioè di lotta antiguerriglia, lungo la direttrice di Mega. La colonna
autocarrata è composta da una squadriglia di autoblindo, un gruppo squadroni a
cavallo e un battaglione di ascari somali. La colonna ha già alle spalle sei
combattimenti in quattro giorni su strade che le memorie ufficiali non esitano a
definire di carattere biblico. L'obiettivo dei pozzi di Ueb è faticosamente
raggiunto a circa sessanta chilometri da Mega e la colonna è pronta secondo gli
ordini ricevuti a rientrare finalmente alle linee di partenza. Per inciso, è
interessante notare che la direttrice operativa è stata coperta con una media di
10 chilometri al giorno, un segno evidente delle asperità del terreno e del peso
dei combattimenti. Gli abissini hanno in serbo un colpo di coda per gli
invasori. Sulla via del ritorno, in una zona particolarmente accidentata, scatta
un'imboscata che falcia con il fuoco gli elementi avanzati dei plotoni
dell'Aosta. Alla testa del reparto, il capitano De Rege si rende subito conto
della minaccia di un'infiltrazione avvolgente dei guerriglieri etiopi e non
esita a superare le posizioni avversarie per scongiurare l'accerchiamento. Il
tiro preciso degli abissini e la loro velocità di movimento lo falciano alle
spalle durante uno scontro selvaggio e disperato. E’ un momento critico. Il
brigadiere Salvatore Pietrocola capisce che deve compiere un gesto che sia
d'esempio per i commilitoni. Si slancia in una corsa folle verso il nemico,
supera le sue stesse pattuglie avanzate, combattendo in preda ad un furore
primordiale. Una pallottola gli spezza una gamba, un'altra gli perfora il
torace, eppure il brigadiere riesce ancora a lanciare le sue bombe a mano contro
il nemico, per cadere poi a terra accanto al corpo del suo comandante. Il generale Bergonzoli, testimone della scena, propone la
medaglia d'oro per l'eroico brigadiere.
La guerra non è ancora finita e i Carabinieri scriveranno
altre pagine di valore in questa guerra pur ingiusta e sciagurata. Fedeli alla
consegna, non sanno che non sarà l'ultima e molti di loro faranno appena a tempo
ad abbracciare i loro cari prima di partire di nuovo per le aride terre della
Spagna.
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NOTE
(1) La Proseguendo nella politica di
espansione in Etiopia, abbandonata nel 1896, il 2 ottobre 1935 il
Governo italiano dette il via alle operazioni militari in Africa
Orientale: il giorno successivo le truppe italiane varcarono il fiume Mareb, che segnava il confine fra l'Eritrea - allora colonia italiana -
e l'Etiopia; contemporaneamente altri reparti italiani varcavano il
confine fra la Somalia - anch'essa colonia italiana - e il territorio
dell'impero etiopico.
Per attuare i piani del governo, nell'aprile 1935 era stato istituito il
“Comando Superiore dell'Africa Orientale” di cui faceva
parte il “Comando Superiore Carabinieri” con alle
dipendenze 55 Sezioni Carabinieri da montagna, 6 a cavallo, 6 miste, 3
Sezioni zaptiè e 23 Nuclei, oltre a 3.143 zaptiè e dubat somali,
inquadrati in reparti diversi. Nello scacchiere Nord, alla fine del
1935, il maggiore dei Carabinieri Giuseppe Contadini organizzò quattro
bande di irregolari indigeni, impiegati come ausiliari di Polizia per la
vigilanza della frontiera; due di esse erano sotto il comando di
sottufficiali dell'Arma. Il 20 gennaio 1936 le colonne italiane
avanzarono nella regione occupando la località di Zeban Chercatà. Il 21
seguente, mentre proseguiva l'azione, le forze italiane che difendevano
il passo Uarieu, importantissima porta del Tembien, si trovarono nel
corso di una sortita improvvisamente attaccate da soverchianti forze
nemiche. Si accese un combattimento che divenne particolarmente aspro
quando i reparti nazionali, ritiratisi, dovettero difendere le posizioni
del passo. L'assedio si protrasse sino al 24, allorché l'aviazione
italiana ed i rinforzi del XXIV Battaglione eritreo misero in fuga gli
assedianti. Alla battaglia parteciparono valorosamente la 302a e 312a
Sezione Carabinieri. Merita un cenno a parte l'episodio d'eroismo che
ebbe per protagonista il brigadiere Salvatore Pietrocola, il quale,
durante un combattimento a Malca Guba, nella zona di Neghelli, in un
momento particolarmente critico dell'azione, caduto il proprio
comandante, condusse lui stesso i pochi superstiti all'assalto, pur
ferito gravemente, fino a che non cadde colpito a morte. Alla sua
Memoria venne concessa la Medaglia d'Oro al Valor Militare. Avviata la
campagna verso la fase conclusiva, furono istituiti speciali reparti
dell'Arma da impiegare in operazioni tattiche denominati "Bande
autocarrate". Esse vennero inquadrate a Roma ed articolate
ciascuna su due Compagnie ed un Plotone comando, per un complesso di
1.000 uomini. Tali reparti s'imbarcarono il 25 febbraio 1936 e
raggiunsero Obbia, in Somalia, 10 marzo successivo. Nello scacchiere Sud
il 12 aprile fu costituito il Comando Raggruppamento Bande, di cui
facevano parte le “Bande autocarrate” dei Carabinieri,
le quali il 24 seguente ebbero modo di segnalarsi nell'aspro
combattimento di Gunu Gadu (vedi nota 2). Per le esigenze dell'intera
campagna in Africa Orientale l’Arma aveva richiamato dal congedo circa
12.000 uomini ed i suoi reparti mobilitati giunsero a 78 Sezioni
Carabinieri, oltre ai Nuclei, alle Bande autocarrate ed a quelle di
irregolari indigeni. I Carabinieri, oltre a partecipare a tutte le fasi
del ciclo operativo combattendo con le altre truppe, si resero
indispensabili nei servizi di loro specifica competenza, di polizia
militare e civile. In particolare le Sezioni Carabinieri presso
l'Intendenza curarono la sicurezza delle vie di comunicazione e la
disciplina del traffico, esercitando inoltre un'azione di controllo e
assistenza sui contingenti di operai che affluivano dall'Italia per la
costruzione di strade e di altre strutture di supporto logistico alle
truppe operanti. Nel corso della guerra caddero 208 carabinieri e circa
800 furono i feriti. Vennero concesse a singoli militari 4 Medaglie
d'Oro, 49 d'Argento e 108 di Bronzo al Valor Militare, oltre a 435 Croci
di Guerra. La Bandiera dell'Arma fu insignita della Croce di Cavaliere
dell'Ordine Militare d'Italia con la seguente motivazione:
"Durante tutta la campagna diede innumerevoli prove di fedeltà,
abnegazione, eroismo; offrì olocausto di sangue generoso; riaffermò
anche in terra d'Africa le sue gloriose tradizioni; diede valido
contributo alla vittoria".
(2)
Località dell'Ogaden (provincia dell'Etiopia), teatro
di un violento combattimento tra le truppe italiane e quelle etiopiche
avvenuto nell'aprile del 1936. Dopo la costituzione del "Comando
Raggruppamento Bande", di cui facevano parte le “Bande
autocarrate” dei Carabinieri, nel Sud del teatro operativo
venne deciso l'attacco al baluardo di Gunu Gadu, presidiato da circa
30.000 etiopici trincerati in un sistema di caverne scavate tra
giganteschi alberi secolari, profonde alcuni metri e tali da consentire
una micidiale azione di fuoco incrociato. I Carabinieri attaccarono
quelle posizioni con i loro autocarri allo scoperto, ingaggiando un
durissimo scontro a fuoco durato dalle ore 7 alle ore 16 del 24 aprile e
costellato da episodi individuali di valore. Sembra giusto citarne i più
salienti, come quello del capitano dei Carabinieri Antonio Bonsignore,
che si lanciò più volte sui trinceramenti nemici e, nonostante rimanesse
ferito ad un fianco, rifiutò i soccorsi e continuò a guidare i suoi
uomini sinché non cadde colpito a morte; quello del carabiniere
Vittoriano Cimmarrusti, che, già ferito ad un braccio e medicato
sommariamente, tornò sulla linea di fuoco attaccando gruppi di etiopi
che tentavano di sorprendere di fianco la propria Compagnia; nuovamente
ferito proseguì l'azione con il lancio di bombe a mano finché venne
sopraffatto dal numero dei nemici; infine l'episodio del carabiniere
Mario Ghisieni, che, ferito gravemente alla gamba sinistra mentre
attaccava le posizioni nemiche, continuò a combattere fin quando dovette
essere soccorso per l'aggravarsi della ferita di cui poco dopo morì.
Alla memoria dell'ufficiale e dei due militari fu concessa la Medaglia
d'Oro al Valor Militare alla Memoria.
FONTI
Il sito ufficiale dell'Arma dei Carabinieri
www.carabinieri.it