
Si ringraziano Alessandro Politi e il sito
ufficiale dell'Arma che hanno reso possibile la pubblicazione di
questo articolo, che trovate in versione integrale all'indirizzo
www.carabinieri.it
L'avvento del fascismo
1. Premessa
Il 1920 sembrò presentarsi come un anno di stabilizzazione
nell'agitata scena politica italiana. Un anno prima le elezioni
politiche avevano premiato forze democratiche sia pure molto
differenti come i socialisti (156 seggi) e i popolari di matrice
cattolica (100 seggi), lasciando invece a secco senza neanche un
deputato i fascisti. E’ vero che il governo Nitti era stato
affondato dalle opposizioni di destra e sinistra quando il
presidente del consiglio aveva tentato di far passare un aumento
del prezzo politico del pane, allo scopo di alleviare il
disavanzo del bilancio statale. D'altro canto proprio nel giugno
1920 tornò alla ribalta, dopo una lunga assenza protrattasi per
tutta la durata della guerra, la figura di quello sperimentato
statista che era Giovanni Giolitti. La sua visione politica era
rimasta acuta e penetrante come nei decenni precedenti. “In
questi ultimi tempi i partiti reazionari proseguono una campagna
di diffamazione contro il Parlamento, ben comprendendo che essi,
avendo contro di sé la maggioranza del popolo, non potranno mai
avere la maggioranza del Parlamento, che è l'espressione del
suffragio universale, ma sono ciechi poiché non vedono che oramai
un governo il quale rappresenti principalmente le classi
privilegiate è impossibile, e che esautorare il Parlamento, cioè
la rappresentanza di tutte le classi sociali, significa favorire
l'avvento dei soviet che è la rappresentanza e la dittatura del
solo proletariato". Queste parole, pronunciate dallo statista
piemontese in un discorso elettorale, rimasero inascoltate e il
prezzo pagato da una ottusa borghesia fu elevatissimo.
2. Quei
matti volanti
Il vecchio
Stato liberale si dissolve, il massimalismo socialista spaventa
le classi borghesi e i fascisti non faticano molto a impadronirsi
completamente della situazione
Giolitti non perde tempo. L'occupazione delle fabbriche, se non
tenuta sotto controllo, rappresenta un pericolo politico e
sociale, ma al tempo stesso sarebbe un errore cedere alle
isteriche sollecitazioni padronali per l'impiego del pugno di
ferro. Come già prima della guerra, Giolitti si rifiuta di cadere
nella trappola di assumere il ruolo di braccio violento
dell'ordine e della legge in una disputa politicamente ambigua.
Preferisce lasciare esaurire il movimento di occupazione delle
fabbriche nel fallimento della loro autogestione e proporsi al
momento opportuno come mediatore. E’ un successo, ma che lascia
nell'animo della borghesia l'impressione che sia meglio
provvedere con i propri mezzi al presunto pericolo di una
bolscevizzazione dell'Italia. Gli esponenti della borghesia sono
in maggioranza decisi nell'opporsi a una graduale riforma dei
sistema italiano, che colpirebbe interessi consolidati. E
Giolitti si sta proprio muovendo in quella direzione con il varo
di provvedimenti come la nominatività (e quindi la tassabilità)
dei titoli azionari, l'abolizione del prezzo politico del pane
(cioè la fine di ingiustificati sussidi agli interessi agrari) ed
il varo di forti tasse di successione.
Peggio ancora, Giolitti pone sbrigativamente fine all'avventura
fiumana del “divino vate", Gabriele D'Annunzio. Il generale
Caviglia riceve l'ordine di sgombrare Fiume e la squadra navale
inviata in appoggio spara un paio di cannonate intimidatorie, che
sgonfiano subito l'arroganza degli arditi. Il ritiro dalla
sterile occupazione dell'Albania e la sigla del trattato di
Rapallo per la sistemazione delle frontiere italiane, segnano il
completamento di una politica di revisione postbellica delle
frontiere condotta facificamente. La Confindustria e la
Confagricoltura, fondate proprio in quell'anno, sono il segno
concreto che industriali ed agrari sono pronti a superare
interessi particolari per organizzare la difesa dei loro
interessi corporativi. Sottobanco continua l'afflusso di fondi e
donazioni per le squadre fasciste e per piccole milizie
personali, pagate per frenare l'attività politica e sociale della
sinistra.
Il primo terreno dell'offensiva squadrista sono le campagne
emiliane, dove le organizzazioni bracciantili e le cooperative
socialiste erano particolarmente forti. Poi l'attacco si estende
alle città grandi e piccole come la metastasi di un cancro.
Giolitti non accetta di operare distinzioni fra le violenze
socialiste e quelle squadriste: le interpreta come una
contrapposizione e pensa che finiranno per elidersi a vicenda.
Giolitti, forse, non si rende pienamente conto della natura
profondamente illiberale ed antidemocratica del fascismo,
compiendo un errore fatale, assai simile a quello delle destre
conservatrici in Germania con Hitler. La maggioranza su cui si
regge il governo Giolitti è assai fragile e per di più le due
grandi forze politiche dei socialisti e dei cattolici sono ostili
al governo e non si lasciano integrare nel sistema di potere
liberale tradizionale. Lo statista applica allora una mossa
elettorale tipica. Convoca le elezioni anticipate nel maggio 1921
e crea blocchi nazionali in cui oltre ai suoi seguaci include i
nazionalisti ed i fascisti. Per la prima volta i fascisti
ottengono una qualche vernice di rispettabilità.
E lo Stato
sta a guardare.
Il risultato della consultazione elettorale è deludente. I
socialisti perdono una trentina di seggi, i cattolici
(rappresentati nel partito popolare) ne guadagnano sette, il
blocco nazionale guadagna la maggioranza, ma ad un prezzo
pesante. Se alle elezioni i fascisti ed i nazionalisti si sono
presentati come alleati di Giolitti, appena conquistati
rispettivamente 35 e 10 seggi, si affrettano a passare
all'opposizione insieme ai deputati fedeli a Nitti e Salandra,
Alla sconfitta tattica che porta Giolitti a non candidarsi alla
guida del nuovo governo, si somma quella strategica perché il
movimento fascista non solo non si costituzionalizza,. ma si
struttura nel PNF (Partito Nazionale Fascista) e sotto il governo
condotto da Ivanoe Bonomi, intensifica la lotta armata.
Potenzialmente, come diversi movimenti nazi-fascisti, anche il
fascismo ha una forte carica anticapitalista e, nel caso
italiano, antimonarchica. Mussolini, nonostante il programma
originario, capisce che soltanto una serie di spregiudicati
voltafaccia ideologici e politici possono assicurargli i sostegni
che contano. Ma è un animale politico di razza, e sa come
muoversi: "Le rivoluzioni si fanno con l'esercito, non contro
l'esercito; colle armi, non senza le armi; con movimenti di
reparti inquadrati, non con masse amorfe, chiamate a comizi di
piazza. Riescono quando le circonda un alone di simpatia da parte
della maggioranza; se no gelano e falliscono". Infatti, grazie
all'insipienza dei liberali, alla suicida ostilità
antigovernativa dei socialisti, chiusi nel loro disprezzo
massimalista per le libertà democratiche, e alla paralisi
moderata dei cattolici, il fascismo può avanzare con la
sostanziale acquiescenza della classe politica al governo e delle
autorità di vari livelli.
L'Arma, durante il triennio 1919-1922, viene impiegata in 233
speciali operazioni di servizio (sommosse, scioperi, attentati,
scontri, eccetera), perdendo 43 militi e contando 474 feriti. Per
atti di valore individuale vengono concesse due medaglie d'oro,
55 d'argento, 62 di bronzo e centinaia di encomi solenni. Nel
breve periodo fra l'aprile 1919 e il marzo 1920 l'Avanti! conta
145 morti e 444 feriti gravi fra i manifestanti: a questo
bilancio si sommeranno altri 175 morti e 600 feriti nei sei mesi
immediatamente successivi.
L’Arma fra
due fuochi.
In questa
difficile situazione i Carabinieri non nascondono il loro
risentimento contro le aggressioni morali e fisiche degli
agitatori, ma mantengono saldo il senso dello Stato. Sotto il
profilo ordinativo il periodo di torbidi viene affrontato con la
creazione di 18 battaglioni mobili (decreto del 215/1920). Ognuno
di essi e strutturato su tre compagnie a piedi e una di
motociclisti, più una o due sezioni di mitragliatrici. E’
certamente indicativo del clima che si ritenga opportuno
distribuire ai reparti armi tipicamente da guerra come le
mitragliatrici.
In questa forza mobile d'urto
e di pronto intervento sono raggruppati 12.282 uomini, inclusi
247 ufficiali. I battaglioni (della consistenza di 758-780
uomini) vengono distribuiti così nelle grandi città: Torino (2),
Alessandria (1), Genova (1), Milano (2), Verona (1), Firenze (1),
Bologna (1), Ancona (1), Roma (3), Napoli (2), Bari (1), Palermo
(1) e Catania (1).
Nonostante l'addestramento e l'armamento adeguato, i Carabinieri
molto spesso devono fare appello alle loro doti individuali ed al
loro spirito di corpo per rispondere anche alle situazioni più
imprevedibili. Il 4 giugno 1920 un gruppo di 60 facinorosi tenta
un colpo di mano contro i forti e l'arsenale di La Spezia. La
grande quantità di armi custodita rende la zona un bersaglio
interessante per chiunque voglia fomentare i disordini. In
silenzio e con la precisione di un buon reparto paramilitare, i
60 piombano sul corpo di guardia N della polveriera di
Villagrande. Le armi delle nove guardie passano di mano. Poco
dopo viene neutralizzato il corpo di guardia G e la via è libera
verso il recinto dei depositi con le sue tonnellate di armi e
munizioni.
Una medaglia
d'oro.
Un giovane carabiniere emiliano, Leone Carmana, riesce invece a
non perdere la testa. Fa sbarrare la porta d'accesso e si apposta
con il suo fedele moschetto. Non c'è tempo per i consueti rituali
("Alto là, chi va là, fermo o sparo"): Carmana spiana con calma
l'arma come se fosse al poligono ed infila una cartuccia dietro
l'altra. A nulla vale il rabbioso fuoco degli assalitori, nemmeno
una ferita al piede arresta il milite finché i rinforzi non
chiudono la partita. Per questa impresa a Leone Carmana verrà
attribuita una meritata medaglia d'oro. Meno fortunato di Carmana
è il vicebrigadie0re Giuseppe Ugolini, medaglia d'oro alla
memoria. Mentre è in trasferimento a Milano su una carrozza
chiusa, incappa in una banda di teppisti. Il giorno prima nei
pressi di Corso Buenos Aires duecento delinquenti hanno
saccheggialo negozi, hanno lanciato sassi e hanno esploso alcuni
colpi di rivoltella. Solo un conflitto a fuoco con le guardie
regie li ha dispersi. Il 24 giugno 1920 la storia ricomincia e
non si vede ombra di poliziotto. Tutte le vetture a cavalli e le
automobili di passaggio vengono fermate e distrutte e i
passeggeri vengono brutalmente malmenati.
Sfortunatamente anche il vicebrigadiere Ugolini viene bloccato.
Ligio ai principi inculcatigli, cerca di calmare gli esaltati,
spiegando con tranquillità che lui è li di passaggio e che non è
in servizio. Per un lungo attimo la folla si calma e accenna a
lasciar passare la carrozza senza creare problemi, ma
all'improvviso si leva una voce che grida: "Ha le armi, Ha le
armi!". Qualcuno vibra una pugnalata al brigadiere, altri lo
trascinano fuori dalla carrozza. Ugolini si difende
disperatamente col moschetto, ma la folla lo lincia. Dopo un'ora
di ricovero all'ospedale militare per quel povero corpo straziato
non c'è più niente da fare.
3. Dalla
Marcia su Roma alla "Normalizzazione"
Anche nei momenti più difficili, nei quali la coscienza politica
della nazione può appannarsi, non mancano esempi di persone che
restano al loro posto e mantengono saldi i nervi e i valori
fondamentali del dovere civico e democratico. I Carabinieri
esprimono queste virtù. La Toscana, terra di intense passioni
politiche, anche in questo periodo si distingue sia per la forte
militanza socialista, sia per lo slancio con il quale tanti
giovani aderiscono al nuovo credo totalitario. I fascisti toscani
hanno fama di arrabbiati e spesso, seguendo i ras locali,
agiscono d'impulso infischiandosene di ogni coordinamento
nazionale. Nel luglio 1921 il debole governo Bonomi si illude di
poter negoziare con Mussolini una qualche pacificazione
nazionale. Il capo del fascismo, esperto nell'arte della
simulazione, presenta il suo volto educato, affabile e
ragionevole. I suoi gregari toscani, invece, insistono nelle
squadristiche. Già una volta avevano tentato di espugnare Sarzana,
considerata una roccaforte rossa. Era andata male, ma se l'erano
legata al dito. Il 23 luglio 1921 convergono da tutta la Toscana
per schiacciare quel nucleo di resistenza. Le autorità vigilano e
hanno concentrato 50 carabinieri, 150 guardie regie, 200 fanti
dell'esercito con una sezione di mitragliatrici.
Quanto basta per disperdere senza difficoltà 400-450 facinorosi,
sia pure tutti armati di pistole e di fucili. L'errore, però, è
di aver dislocato le forze in campagna lasciando sguarniti gli
accessi lungo la linea ferroviaria. Proprio lungo questo percorso
i fascisti si infiltrano nella città di Sarzana. Alle 4,35 del
mattino si impadroniscono, con grande sorpresa dei pochi
carabinieri di guarnigione, del piazzate della stazione. Appresa
la notizia, il capitano dei Carabinieri Jurgens responsabile
della sorveglianza, si avvia con due commissari verso la stazione
La situazione è assolutamente precaria: Jurgens ha a disposizione
soltanto nove carabinieri e quattro fanti contro i famosi 400
squadristi. Il capitano punta subito su quelli che sembrano due
caporioni. "Capitano Dumini…”, si presenta uno. "Meglio così: dal
momento che siamo colleghi possiamo parlare con maggior
franchezza. Che cosa volete dunque?", risponde asciutto Jurgens a
quello che sarà uno degli uccisori del socialista Giacomo
Matteotti.
Dumini pensa di trovarsi nella posizione di chi può dettare
condizioni. Le elenca: 1) i dieci fascisti arrestati per i gravi
scontri la scorsa domenica a Carrara, devono essere scarcerati
immediatamente, inclusi i membri del direttorio del fascio; 2
deve essere consegnato il tenente dei Carabinieri Nicodemi,
accusato di aver schiaffeggiato un certo fascista Ricci, 3) deve
essere lasciato libero passo alla spedizione punitiva fascista.
La replica di Jurgens è secca: "Non è nemmeno concepibile che il
tenente Nicodemi vi sia consegnato. Per impadronirvi di lui
dovreste uccidere tutti i Carabinieri che si trovano a Sarzana.
Quanto alla liberazione dei dieci arrestati, mi consti che il
procuratore del re fosse già da ieri intenzionato di emanare
l'ordine di scarcerazione; ma io non posso promettervi ne
garantire nulla. Tutt'al più posso accompagnare due vostri
delegati dal procuratore del re perché vi informi di quel che ha
deciso. Quanto, infine, alla pretesa di entrare in Sarzana,
dovete togliervi dalla testa che la forza pubblica vi abbia a
cedere impunemente il passo. Noi abbiamo avuto ordini tassativi,
inderogabili; questi ordini siamo intenzionati a farli rispettare
ad ogni costo". La tracotanza degli squadristi, anche se scossa,
non si appanna. "Noi si entra lo stesso, e passeremo", gridano un
paio. "Fascisti! A noi!", grida qualcuno. "A noi, a noi. Eia, eia,
eia, alalà. Alalà!", replicano gli altri. "Crociatet!", ordina
Jurgens. Il piccolo drappello di militi si dispone tranquillo a
difesa. I fascisti si muovono come un torrente in piena, ma basta
un primo colpo, non si sa sparato da chi per scatenare il
putiferio. La sparatoria è violenta, vengono esplosi almeno 300
colpi. I fascisti, dopo aver lasciato sul terreno sei morti e
alcuni feriti, si ritirano disordinatamente. La maggioranza viene
incolonnata dalla guardia regia giunta in rinforzo e sgomberata
su treni speciali. Un altro centinaio di essi si sbanda per le
campagne dove finisce per essere facile preda dell'ira spietata
dei contadini. Il capitano Jurgens non viene decorato.
Sciopero
generale.
L'arrivo al governo di un perfetto sconosciuto come Facta, un
uomo di paglia, è un cattivo auspicio per il futuro parlamentare.
Il colpo di grazia arriva però nell'agosto durante un periodo di
vuoto governativo in una delle tipiche crisi di governo nelle
quali nessun partito vuole esporsi. I socialisti, davanti al
dilagare della violenza fascista, decidono di proclamare uno
sciopero generale. Regna una grande confusione: l'iniziativa è
trapelata in anticipo e, giudicata a posteriori, é comunque
inadeguata alla gravità della situazione e della violenza
squadristica. Tra il 2 ed il 4 agosto 1922 le squadre compiono
una serie di attacchi coordinati nelle principali città italiane
per intimidire gli scioperanti ed atteggiarsi a salvatrici del
Paese dal caos. Il culmine viene raggiunto in un battaglia di tre
ore a Milano nel corso della quale la sede dell'Avanti! viene
espugnata e data alle fiamme. Contemporaneamente volontari
fascisti fanno funzionare i servizi di trasporto, evitandone la
paralisi completa e guadagnandosi la tangibile gratitudine della
borghesia.
L'autunno del 1922 si annuncia caldo e le incertezze, nonché il
doppio gioco di molti rappresentanti ai livelli più alti
dell'ordine pubblico, aggravano ulteriormente la già precaria
situazione. Il partito socialista, dopo la dolorosa scissione
comunista, si permette il lusso di un'altra espulsione cacciando
la sua ala socialdemocratica ed isolandosi ancora di più da
qualunque possibile accordo coi popolari cattolici. Il 24 ottobre
Mussolini organizza un grande raduno delle camicie nere a Napoli
e per la prima volta si candida esplicitamente al governo: "0 ci
daranno il governo, o lo prenderemo calando a Roma". Tre giorni
dopo viene avviata la mobilitazione guidata dal quadrumvirato
(Balbo, De Vecchi, De Bono e Bianchi). Le forze dell'ordine
avvisano tempestivamente dei movimenti delle squadre fasciste e
partono i primi ordini di bloccare le comunicazioni stradali e
ferroviarie.
Nella notte tra il 27 ed il 28 ottobre si svolgono febbrili
consultazioni per la proclamazione dello stato d'assedio. Il re,
Vittorio Emanuele III, nonostante i dubbi serpeggianti sulla
tenuta delle forze armate in caso di impiego contro i fascisti, è
propenso a firmare lo stato d'assedio. Il margine per salvare in
extremis la democrazia ci sarebbe. I fascisti non sono forti,
come dimostra il fatto che molti facinorosi si disperdono non
appena compare nelle strade il manifesto con le drastiche
disposizioni per reprimere i disordini. Nonostante le precedenti
acquiescenze e connivenze, le forze armate (e i Carabinieri in
primo luogo) avrebbero eseguito l'ordine del re. Quattro fucilate
avrebbero riprodotto in grande il miracolo di Sarzana ed
avrebbero risparmiato molti lutti. La mattina del 28 ottobre il
colpo di scena. Vittorio Emanuele si rifiuta di firmare lo stato
d'assedio, perché teme una possibile guerra civile e (forse)
perché è suggestionato dalle tentazioni filofasciste di una parte
della sua famiglia guidata dalla reazionaria regina madre
Margherita, che parteggia per il fascismo.
Il colpo di Stato mussoliniano è da manuale: infiltrazione
graduale di apparati statali con simpatizzanti; creazione di un
movimento politico; riuscita dimostrazione di forza; progressiva
e rapida occupazione dello Stato. Nessuno spargimento di sangue,
paralisi della classe dirigente, neutralità dei reparti non
amici, cattura dell'opinione pubblica. Nei mesi seguenti viene
operata la fascistizzazione della vita pubblica e privata
dell'Italia in un crescendo di leggi liberticide e sempre più
invadenti.
Una
concorrenza serrata.
I primi a sentire il cambiamento dei tempi sono proprio i
Carabinieri. Da buon dittatore Mussolini ha un occhio di riguardo
per i corpi preposti alla sicurezza pubblica. E ne apprezza
l'efficienza. Il suo pensiero si esprime così: "Signori, è tempo
di dire che le forze di polizia vanno non soltanto rispettate, ma
onorate. Signori: è tempo di dire che l'uomo, prima di sentire il
bisogno della cultura, ha sentito il bisogno dell'ordine. In un
certo senso si può dire che il poliziotto ha preceduto nella
storia il professore, perché se non c'è un braccio armato di
salutari manette le leggi restano lettera morta e vile". Fin qui
le dichiarazioni ad effetto per le folle, poi c'è la Realpolitik.
In un primo tempo Mussolini sente l'esigenza di accentrare tutto
sotto il suo controllo, perché il suo potere è fresco e tutto da
consolidare.
Con il regio decreto del dicembre 1922, n. 1680 viene decisa
l'unificazione dei corpi armati di polizia con l'assorbimento
della regia guardia per la pubblica sicurezza. Gli effettivi
dell'Arma si gonfiano a 75.000 unità, di cui 12.000 costituiscono
un ruolo specializzato per i servizi tecnici, di vigilanza e di
indagini in abito civile alla diretta dipendenza delle autorità e
degli ufficiali di pubblica sicurezza. Appena un anno dopo le
esigenze del duce mutano. Adesso occorre garantirsi la sicurezza
attraverso ampi margini di manovra creati da una molteplicità di
organismi in potenziale concorrenza e capaci di sorvegliarsi
reciprocamente. E’ la via maestra seguita dai dittatori di ogni
colore.
Si istituisce così la MVSN (Milizia Volontaria Sicurezza
Nazionale), che assorbe squadristi di ogni genere inquadrandoli
in una rigida gerarchia agli ordini del quadrumviro De Bono. I
Carabinieri individuano presto nella MVSN una concorrente
coccolata dal regime, ma priva del nerbo tipico dell'Arma.
Silenziosamente e talvolta senza nemmeno troppa diplomazia, i CC
RR non mancano di far pesare la loro ostilità e il loro disprezzo
per quelli che considerano dei cialtroni, ex-avventurieri a
malapena rivestiti di un'uniforme. L'atmosfera non è rosea se il
comandante della milizia, generale Gandolfo Asclepia, invia una
circolare riservatissima (19/1/1925) ai comandi di zona con il
pressante invito a diminuire il più possibile le frizioni e gli
incidenti con i Carabinieri, creando invece un'opportuna
atmosfera di armonia.
Nel luglio 1925 i militari del ruolo specializzato vengono
distaccati dall'Arma e costituiscono il corpo degli agenti di
pubblica sicurezza, alle dirette dipendenze del Ministero degli
Interni. Sotto il ventennio fascista la PS conosce una crescita
notevole, specialmente sotto la spregiudicata ed abile guida del
direttore del corpo degli agenti di PS, Arturo Bocchini, definito
comunemente "il braccio destro del duce". La MVSN è la milizia di
partito, ma è nelle mani della PS che viene posto l'Ispettorato
speciale di pubblica sicurezza per la repressione delle
opposizioni politiche, la cosiddetta OVRA.
Tuttavia Mussolini pur sapendo che i CC RR conservano la loro
coesione riferita alle istituzioni e non al fascismo, non manca
di trattare con i guanti gialli un'istituzione così importante.
Sotto il profilo pratico viene creata organicamente la specialità
dei Carabinieri della montagna con corsi regolari di sci e roccia
e viene avviato un imponente programma di motorizzazione, che
manda in pensione un buon numero di oneste e vetuste carrette a
cavalli. La celebre banda dei Carabinieri, di cui abbiamo parlato
la scorsa puntata, cresciuta per merito degli sforzi dei suoi
direttori, viene valorizzata sfruttandone l'immagine. Né è un
caso che l'idea di istituire il celebre carosello storico venga
vigorosamente sostenuta nel 1933, anno in cui viene anche
inaugurato il monumento al Carabiniere a Torino.
La
riconoscenza nazionale.
Ormai il regime, a undici anni dalla presa dei potere, è in grado
di svolgere un'intensa opera propagandistica incentrata anche sui
valori del militarismo inteso come esaltazione di un'Italia non
più pacioccona e spaghettara, ma romanamente orgogliosa della sua
fierezza e disciplina. Una tendenza propagandistica appropriata
visto che risponde a un bisogno di sicurezza nei valori di una
gerarchia rassicurante accoppiato all'esigenza di godere di
rispetto a livello internazionale. Molti italiani credono
profondamente a queste esigenze e sono ancora più pronti a
stringersi intorno ai Carabinieri, istintivamente ritenuti come
un valore nazionale a se stante. Ecco perché proprio negli anni
Venti per iniziativa popolare quasi ogni stazione dell'Arma è
stata dotata di un vessillo tricolore da esporre. Sindaci e
comitati di cittadini hanno avvertito il bisogno di fare questo
dono. Non può non colpire il fatto che proprio ampi strati di
popolazione, persino nei villaggi più minuscoli, abbiano voluto
imperiosamente sottolineare il carattere nazionale di un'arma
nazionale ed istituzionale per definizione. Mussolini, sempre
attento a questi dettagli di consolidamento del consenso, ha
lanciato così la politica di riconoscenza nazionale verso i CC RR.
Uguale entusiasmo si è manifestato nella sottoscrizione per
erigere il monumento al Carabiniere: la somma raccolta ha
superato di gran lunga le previsioni (e le necessità) permettendo
di istituire una fondazione benefica.
Il carosello storico, nato nel 1933 nel 119° anniversario della
fondazione, è l'apoteosi della lunga storia dei Carabinieri. Da
sessant'anni trasmette negli spettatori il brivido di quella
grande carica a Pastrengo. Se volete capire in un fulminante
gioco di emozioni una parte dello spirito italiano, non perdete
questo spettacolo. Dietro la propaganda si nasconde il duro
lavoro pieno di soddisfazioni ed anche di amarezze per garantire
la legge e l'ordine in un Paese tutt'altro che quieto, nonostante
il regime tenda a descrivere una situazione tranquilla e senza
ombre. Ai Carabinieri sono affidate anche mansioni ingrate come
la repressione del dissenso politico e lo sviluppo di un
imponente sistema di spionaggio interno. Dal 1931 al 1938 partono
3.940 proposte di assegnazione al confine, 4.468 proposte di
ammonizione sempre per motivi politici e viene redatta la cifra
enorme di 33.272.920 note informative sui reati più vari. Ma
l'Arma si copre allo stesso tempo di gloria con una serie di
brillanti successi contro il banditismo tradizionale in Sardegna,
Sicilia e Calabria. spesso ottenuti dopo violenti scontri a fuoco
come nei casi delle operazioni contro le bande Stragges,
Pollastro, Dino, Sacco, Succu. Anche regioni irredente da poco
come l'Istria sono afflitte dalle scorribande di delinquenti
efferati come Collarich e Giugovaz, alle cui imprese i militi
pongono fine con interventi da manuale.
La lotta
alla Mafia.
Si narra che il duce nel maggio del 1924, durante un suo viaggio
in Sicilia, arrivato con una robusta scorta a Piana dei Greci,
fosse così accolto da Francesco Cuccia, il sindaco del paese: "Vossia
non doveva disturbarsi con tutti questi poliziotti. Qui siete
sotto la mia protezione". Mussolini rispose da politico
sorridendo. Ma era impossibile pensare che un dittatore, attento
anche a particolari di immagine come la standardizzazione dei
cartelli stradali, potesse digerire un affronto del genere,
nemmeno tanto velato. Rientrato a Roma, Mussolini si fece
indicare le persone con le carte in regola per risolvere il
problema: il prefetto Cesare Mori ed il giudice Giampietro. Ebbe
inizio così una campagna memorabile di lotta alla mafia,
ricordata recentemente, a proposito ed a sproposito, durante la
recente operazione Vespri Siciliani (estate 1992) che ha visto un
massiccio impiego di coscritti per il controllo del territorio.
Mori, con i poteri formali di superprefetto e una sostanziale
autonomia completa di intervento, si rese immediatamente conto
arrivando in Sicilia (nel 1924) di quanto l'autorità dello Stato
fosse una ridicola finzione. I sindaci erano mafiosi o collusi,
le autorità locali preferivano la politica del "vivi e lascia
vivere", i latitanti latitavano da decenni, le estorsioni erano
un fenomeno quotidiano e le intimidazioni di ogni genere
scandivano i mesi dell'anno. Mori aveva dalla sua il vantaggio di
non essere impastoiato dalle mille precauzioni apparenti e
sostanziali che uno Stato di diritto impone. Dopo due anni di
ambientamento, la mano pesante di Mori si abbatté sul territorio
di Gangi. I Carabinieri furono in prima fila insieme ai loro
colleghi di PS nei rastrellamenti di massa che coinvolsero interi
villaggi. A Gangi furono catturati dieci latitanti, tra cui il
capobanda Ferrarello raggiunto da 52 mandati di cattura durante
una latitanza di 33 anni. Nella zona delle Madonie furono
distrutte tre bande e furono arrestati 130 latitanti. Le manette
scattarono anche ai polsi di diversi sindaci eccellenti, tra cui
quello famoso di Piana dei Greci e quello di Santa Cristina Gela.
Anche qualche mafioso in camicia nera scoprì che la tessera
fascista non era sufficiente a salvarlo da un fascistissimo
superprefetto. I rapporti di Mori erano autentici bollettini di
guerra, perché a quel punto lo stato fascista si era tolto i
guanti ed era deciso a far valere la sua forza. I processi
comminarono secoli di carcere e confino coatto, la ragnatela
mafiosa venne strappata con metodi brutali ma oltremodo efficaci.
Mori, tuttavia, non era incline ad abbandonarsi all'ottimismo. Le
statistiche testimoniavano il crollo di reati come abigeati,
rapine, estorsioni, omicidi, danneggiamenti ed incendi dolosi, ma
i pezzi grossi restavano ancora in giro. E attuavano un disegno
classico della mafia. Abbandonavano lo scontro frontale per
scegliere la strada della connivenza, cercando di instaurare
rapporti con i vertici del fascismo. Mori, alla fine, sarà
promosso per essere rimosso quando i danni avrebbero potuto
essere irreparabili per i mafiosi.
La stessa politica della repressione poliziesca, per quanto
efficiente, non aveva spostato di una virgola le condizioni
sociali in cui stagnava la Sicilia ed alla fine il regime si
accontentò del successo di facciata. In un solo anno di campagna,
11 carabinieri persero la vita, 350 rimasero feriti gravemente.
Il bilancio del sacrificio e degli atti di valore compiuti emerge
anche dal conto delle decorazioni: 14 medaglie d'argento, 47 di
bronzo, 6 medaglie al valor civile, 14 attestati di benemerenza e
50 encomi. Altri carabinieri, intanto, combattevano una non meno
sanguinosa e difficile battaglia contro la camorra.
4. La
riconquista della Libia
Nel 1921, intanto, era ripresa la campagna per assumere il
controllo della colonia libica. Ancora oggi, purtroppo, questa
guerra è poco conosciuta, anche perché costituisce una capitolo
di storia coloniale particolarmente duro. La guerriglia posta in
atto dalle popolazioni libiche era tenace, abile, sfuggente,
feroce ed eroica. Gli italiani, dopo le prime incertezze,
arrivarono a stroncare la resistenza anticoloniale facendo
ricorso ad una repressione (talvolta molto dura e spesso
censurabile nelle sue manifestazioni) guidata da generali come
Graziani e Badoglio.
Gli italiani sapevano che la Libia era una terra ostile e per
lunghi anni i fanti cantarono: "Arriveremo a Gialo / a Cufra e
anche più in là / ma per uscir dalla porta / ognor la scorta ci
vorrà". Ci fu bisogno di migliaia di militi non solo per
assicurare quella protezione, ma anche per intraprendere quelle
che nel gergo sono chiamate operazioni di grande polizia e
servizi di polizia militare. Al fianco dei carabinieri operavano
i coraggiosi zaptiè. Per quanto considerate truppe di seconda
categoria come spesso nelle guerre coloniali lo sono gli
ausiliari indigeni, gli zaptiè erano rispettati e difesi dai
carabinieri come colleghi alla pari. Quando un cittadino italiano
si permise di schiaffeggiare l'allievo zaptiè Canul ben Ramadan
perché lo aveva investito inavvertitamente con la bicicletta, la
reazione dell'Arma fu inflessibile. Dopo il rapporto steso
dall'allievo zaptiè, il comando locale citò in tribunale il
cittadino italiano che fu condannato ad otto anni di reclusione,
oltre al pagamento delle spese. Anche in appello i carabinieri
sostennero con successo la tesi secondo la quale l'allievo zaptiè
doveva essere considerato pubblico ufficiale anche nei confronti
di un cittadino italiano metropolitano.
Il battesimo del fuoco per gli zaptiè avvenne il 31 gennaio 1923
a Sidi Bu Argub. Bisognava sloggiare da una posizione forte sulle
colline una grossa banda di ribelli e uno squadrone di zaptiè, al
comando del tenente Contadini, ci riuscii dopo una carica ed uno
scontro durato due ore. Il 2 febbraio i carabinieri operarono
un'altra durissima carica contro oltre 700 arabi; due giorni più
tardi 900 ribelli furono spazzati da un altro selvaggio assalto
di cavalieri dell'Arma, che ottenne alla fine del primo ciclo di
operazioni una croce di guerra e una seconda dopo il secondo
cielo.
La rivolta
di Omar.
La Tripolitania era di nuovo sotto controllo, ma restava il
problema dell'immensa ed arida Cirenaica. Qui le operazioni erano
frazionate in Colonne volanti che sfidavano un deserto inospitale
e che spesso dovevano difendere con lo scontro corpo a corpo il
controllo dei vitali pozzi in oasi sperdute. Il 1° febbraio 1926
la sfida contro il deserto fu raccolta a Giarabub: dopo una
marcia sfibrante gli italiani raggiunsero l'oasi sbalordendo il
locale capo senussita, che si sottomise spontaneamente. Tre anni
più tardi, però, la rivolta riprese vigore, per merito di un
leader leggendario, Omar el Muchtar "il leone del deserto". Gli
stessi italiani lo descrissero con ammirazione: l'energico,
sobrio, astuto, generoso, valoroso come pochi". Lui stesso, con
una punta di ironico orgoglio, si definiva "capo del governo
della notte". Gli italiani, come gli americani in Vietnam quasi
mezzo secolo più tardi, potevano illudersi di controllare il
territorio di giorno, ma la notte i libici dettavano legge e
sgozzavano gli occupanti.
Roma non poteva accettare questa sfida al suo rinascente impero e
inviò sul posto il proconsole Rodolfo Graziani a chiudere il
conto. Per il generale Graziani un gruppo di più di tre arabi
doveva già essere considerato sedizioso ed eliminato con ogni
mezzo; la frontiera libico-egiziana era solo un arido colabrodo
da bloccare a tutti i costi. Graziani lanciò una gigantesca
caccia all'uomo, in cui i Carabinieri con le loro capacità
militari ed informative fornirono un contributo essenziale.
Quattro battaglioni di ascari eritrei marcarono stretto el
Muchtar, altre colonne a squadroni fornirono il necessario
supporto: in totale furono impiegati nell'operazione 6.000
uomini. Intorno al capo della rivolta fu fatta terra bruciata,
finché un giorno, un nervosissimo ausiliario dei carabinieri
catturò un arabo caduto dal cavallo ferito. "Non sparare, sono
Omar el Muchtar". Fu impiccato.
Per i Carabinieri l'epopea coloniale non finì qui. Gli altipiani
etiopici rivedranno le fiamme d'argento in battaglia.
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NOTE
FONTI
Il sito ufficiale dell'Arma dei Carabinieri
www.carabinieri.it
