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Coi trattori attraverso

le foreste del Caffa

 

 

 

Oggi, mentre le operazioni di grande polizia coloniale nel sud-ovest etiopico impongono la costituzione di presidi lontani dalle basi, dove le vie di comunicazione sono rappresentate da sentieri o da piste mal praticabili, attraverso regioni boscose e accidentate, il problema dei rifornimenti si riaffaccia imperioso e irto di difficoltà in relazione soprattutto al regime delle piogge, che in queste regioni segnano il più alto indice di tutta l'Abissinia.

Era naturale che l'Intendenza ne cercasse a soluzione, servendosi di tutti mezzi a sua disposizione; fra i quali indiscutibilmente il più efficace si è dimostrato l'impiego dei trattori, già instaurato in Somalia dal Maresciallo Graziani.

Ero partito da Addis Abeba per Giren in aereo e dovevo proseguire con la prima colonna per Bonga, capoluogo del Caffa e sede della 1a Brigata Indigeni, dopo la disfatta di Ras Immirù. Un'ora e un quarto appena di volo a bordo di uno di quei potenti trimotori da bombardamento S.81 (che tante prodezze hanno compiuto nella campagna imperiale), per coprire i 300 chilometri in linea d'aria, che separano la capitale dell'Impero da quella dei Galla Sidamo: viaggio delizioso e assordante insieme a quota 3.000, navigando in un'atmosfera calma, ovattata di cirri bianchi, sopra un territorio frastagliato e montuoso che, dalle sorgenti dell'Omo, seguendo il Guraghè, va al fertile Gimma.

Giren, già noto come principale centro di commercio degli schiavi, non è che un modesto villaggio di catapecchie in legno e di tukul dal tetto di tegole, che fu per ben 54 anni residenza pacifica dell'ospitale sultano Abba Gifàr. Ora il paese si identifica con Irmata, che è la sede del Governatorato e dove si svolge il giovedì un importante mercato di caffè.

Popolazione tranquilla, quella del Gimma costituita in prevalenza di contadini galla dediti all'agricoltura e che trascorrono l'esistenza pittoresche capanne occhieggianti fra giardini di muse, cintati da siepi di caffè.

Il Gimma confina col Caffa per mezzo di un affluente dell'Orno, tipicamente tropicale, l'incantevole Gogeb, e ne è allacciato da una pista aspra, boscosa, tutta a saliscendi, pressoché impraticabile in periodo di piogge.

La questione delle strade è della massima importanza, che urge definire se si vuole risolvere quella dei trasporti e perciò raggiungere al più presto la valorizzazione dell'impero. Chi volesse accingersi a percorrere con colonne autocarrate la suddetta pista rischierebbe di rimanere immobilizzato per mesi e mesi. Gli aerei non possono concorrere che in misura trascurabile e saltuaria ai rifornimenti, tanto più che campi di fortuna sono raramente utilizzabili. Per buona sorte ci sono i trattori cingolati, che hanno risolto maniera sorprendente il problema degli approvvigionamenti tra Gimma e Caffa e nell'interno stesso del Caffa: Tamangiagi, Shoa Ghimirra, Magi, dove sono accampati gli elementi della brigata "Malta" e quelle che saranno le bande di confine.

Nessun altro mezzo era più idoneo in questa regione boscosa e selvaggia, dove le precipitazioni frequenti e abbondanti, durante otto mesi dell'anno, tramutano il terreno in pantano e i corsi d'acqua si fanno torrenziali. Ma i trattori hanno fatto di più: hanno aperto addirittura la strada attraverso la foresta vergine, che si stende come una fascia impenetrabile, profonda decine e decine di chilometri sulle linee di alture collinose tra i 1.700 e i 2.000 metri. Hanno aperto la strada a viva forza, demolendo tronchi giganteschi, strappando liane resistenti come cavi di acciaio, grovigli enormi di piante rampicanti come ammassi di filo spinato.

Non ho messo l'ovatta per proteggere i timpani dal frastuono assordante, per non perdere nulla della nuova emozione che stavo procurandomi.

La pista, dapprima ondulata e incassata a guisa di letto di torrente dal colore rosso come il mattone cotto, diventa poscia pianeggiante, corre per caste praterie, dove bellissime mandrie pascolano indisturbate. Appaiono qua e là coltivate, ma queste si fanno sempre più rare, mano a mano che avanza sopra un territorio selvaggio, ricco di forme arboree, di giuncheti e di savane.

I gialli trattori R.D. 7 incedono maestosi senza badare ad ostacoli e, dopo la piana di Sombo, si accingono a scalare la faticosa erta, incisa di solchi profondi, che immette nella boscaglia. A un certo punto si inabissano come bestie selvatiche nei cupi recessi della foresta tropicale, portandosi dietro una scia di rami e di liane divelte. E la colonna del ten. Resh, la stessa che aperse questa via al transito.

A prezzo di sforzi inauditi, lungo salite e discese a fortissima pendenza, ricorrendo spesso alla motrice di rincalzo in mezzo al più melmoso terreno, al più inestricabile arruffo vegetale, dopo una intera giornata, la foresta ostile, eppur così suggestiva, è finalmente superata. Dai recessi ombrosi della selva, dalla foresta a galleria, si sbuca a un tratto nella macchia rada, per finire nella radura, dove il sole illumina e riscalda.

Dopo un tratto di strada a mezza costa, eccoci davanti distese smeraldine, dove l'erba alta e grassa ospita le più vezzose creature del regno animale: gazzelle e antilopi. La pianura è tuttavia costellata di arbusti simili a peri, chiamati in lingua galla "argagafi" e "ovali" dal legno giallo, usato nell'industria tintoria.

Siamo giunti al sospirato Gogeb, l'affluente fascinatore dell'Omo, che si annunzia con una vegetazione folta, lussureggiante, tropicale, fra cui spiccano le palme dum e le palme merko, commiste ad alberi d'alto fusto, a mimose, a liane, a boschetti di bambù. Esiste un ponte in putrelle, costruito qualche anno fa da un italiano, ma che permette il passaggio soltanto ai pedoni e alle carovane di muletti, data la sua strettezza e portata.

La colonna va scegliersi il passo a un guado poco lungi, dove la prima volta s'è imbattuta in un branco di ippopotami sorpresi per l'inatteso evento.

La motrice scende traballante ma decisa nell'acqua torbida, che raggiunge qui l'altezza di un metro e tocca quasi la piattaforma della cabina, trabalza sul letto sassoso, piegando leggermente a destra e a manca, sempre trascinando il suo pesante rimorchio. Risale la sponda opposta, s'impenna grondando acqua dalle commessure dello sciassi e dai cingoli. come un pachiderma che esce da un bagno. Il frastuono dei pattini sull'acqua sovrasta ogni altro rumore e mette in fuga disordinata una tribù di babbuini.

Marchisio alle leve fa sforzi erculei per liberare la motrice dalle scanalature impresse sulla sponda melmosa che la trattengono, ma senza frutto; i pattini carichi di fango girano a vuoto e slittano e la macchina si divincola invano come un bestione ferito e impotente che si contorce fra le convulsioni. Alla fine però riesce nel suo intento.

Ma il secondo trattore non è così fortunato: le quindici tonnellate di peso morto del rimorchio non gli consentono di inerpicarsi e superare la proda. Allora gli va in soccorso Marchisio colla sua motrice che stacca lesto dal rimorchio. I due trattori, uniti dal cavo, scattano unanimi e decisi a un segnale, strappando infine il rimorchio ostinato e ribelle. In tal guisa, il trattorista ripete la manovra efficace con gli altri che seguono a uno a uno il guado. La colonna, così liberata, passa sulla opposta riva per riprendere inesausta la marcia lenta e grave.

Ora si viaggia in territorio caffino, tutto intersecato di colline selvose e di alvei di torrenti. La vallata del Gogeb è fertilissima. Una vegetazione rigogliosa e selvatica domina prepotente sopra immensi territori disabitati; per cui i nativi dei villaggi più prossimi si sono visti costretti a provocare periodici incendi contro la marcia invadente della foresta. Ondulate lande prative e savane alberate o parchi sembrano creati apposta per ospitare degnamente branchi di vispe gazzelle, che vi trovano infatti una pastura ideale, e facoceri divoratori di radici e perfino di bufali sornioni. In un settore, tra Ualla e Agobà, alla confluenza del Gogeb col Naso, si era rifugiata fino a poco tempo fa una famiglia di elefanti e una vecchia coppia di leoni fa udire ogni tanto nel silenzio delle tenebre il suo nostalgico ruggito. Il regno delle fiere sta per tramontare! Durante le soste, alcuni autisti o alcuni militi della scorta devoti a S. Uberto, si lasciano vincere dalla tentazione e se ne tornano infatti con una povera antilope uccisa. Anche un facocero dal grifo orrendo viene trascinato all'accampamento, trofeo insperato, che ci fornirà domani saporite bistecche. Ecco finalmente uno sprazzo di vita umana. Intravedo all'orizzonte una capanna sperduta ai piedi di un palmizio; della gente miserabile, come bandita dal mondo, vi abita; dei bimbi nudi appaiono sulla soglia colla pancina gonfia come un otre. È gente frugale fino all'inverosimile, non avendo per sfamarsi che un pugno di mais abbrustolito o un tubero dolciastro simile alla patata, il «godaré» e il cosiddetto «coccio» specie di pane ricavato dal fusto fermentato e dalle costole fogliari della musa ensele. Povera gente che appena ora comincia a sentire l'influenza benefica della nostra occupazione e non osa credere alla possibilità di qualche guadagno, vendendo polli e uova e banane e lavorando alla costruzione della pista stradale.

I1 tipo caffìno non è che il prodotto di una mescolanza fra l'amhara, il negroide e perfino il portoghese (che ricorda l'antica penetrazione dei gesuiti e che si rivela anche con la presenza di individui quasi bianchi). Prima del 1897 il Caffa era posto sotto una dinastia di re pagani, l'ultimo dei quali, appartenente alla stirpe Mingia, dopo lunghe e sanguinose lotte, venne spodestato dagli abissini, che collocarono al governo della regione il Negus Uoldegheorghis. Costui iniziò l'opera nefasta di deportazione dei nativi, per rifornire di schiavi e schiave le case di Addis Abeba; opera continuata dai capi amhara che gli succedettero, spopolando e immiserendo il paese, che attualmente risulta pochissimo coltivato e sempre più invaso dalla foresta. Si calcola che tutta la regione non conti più che 80 mila abitanti. I villaggi sono rarissimi e miserevoli.

L'influenza dell'elemento amhara si esercita anche sulla regione: infatti la maggioranza professa il cristianesimo copto; il rimanente è costituito da pagani, cattolici e musulmani che parlano il galla o il cafficiò.

Il commercio di esportazione è rappresentato dal caffè (il cui albero cresce spontaneo e senza cure), miele e cera, pelli, mais e cororima, specie di droga aromatica.

Per chi ama conoscere i particolari del territorio che attraversa, il viaggio in trattore è il mezzo più idoneo e più efficace, anche se è poco consigliabile per la preservazione dei vestiti. Il percorso orario è di appena quattro chilometri sopra questa pista di motriglio nero come carbone; il che permette di osservare attentamente e di non perdere nulla dell'interessante paesaggio. L'anima d'acciaio della potente motrice vibra, freme, sussulta, tra il calore di forno che sprigiona e il fragore dei cingoli: si hanno sbandamenti e sobbalzi che fanno trepidare, e slittamenti; ma non per questo il giallo bruco si arresta. Fa presto a retrocedere, spingendo col cavo sul rimorchio per rimetterlo sulla buona via, per liberarlo dai solchi in cui s'è conficcato. Nelle salite ripide rallenta l'andatura e spesso occorre l'intervento di una seconda motrice. Nelle discese a forte pendenza, il rimorchio slitta di lato con pericolo di vederselo rovesciare, come è accaduto una volta. Nuovi e imprevisti contrattempi, nuove lunghe fermate.

Occorre una forte dose di pazienza e di rassegnazione e un eccezionale spirito di avventura per non perdere la calma e il buon umore.

Marchisio, tutto fuligginoso e barbuto, è il vero asso dei trattoristi, e lode a lui per le acrobazie e le evoluzioni che compie fra lo stupore di tutti, perfino dei compagni. Fa girare la sua motrice come una trottola, si sposta di qua e di là in un battibaleno, è presente dovunque a seconda del bisogno. È lo stesso conduttore che ha percorso tutte le piste della Somalia e dell'Hararino sul medesimo trattore (che meriterebbe di essere posto in un museo).

La motrice da 50 HP ne sviluppa 100 su questo terreno, perché quello che perde in velocità acquista in potenza. La pista a saliscendi, fangosa e sconvolta, riprende ogni tanto il suo sopravvento sulla macchina e i pattini girano da fermo, i cingoli fremono impotenti.

Fatica di Sisifo dei poveri trattoristi, lavoro tenace e bestiale mai abbastanza apprezzato; meraviglia di questi magazzini ambulanti, che vanno dovunque e che a conti fatti fanno risparmiare all'erario centinaia di migliaia di lire!

Piove, è buio ed è giocoforza bivaccare in una radura della foresta brumosa e gocciolante; i veicoli vengono disposti in circolo e finalmente le pulsazioni del motore cessano dopo una intera giornata di azione. Si preparano le tende, si allestiscono le cene sull'erba bagnata: carne di pollo o di gazzella, galletta o burgutta, frutta in scatola, tè, o caffè, servetti negri (poiché ogni trattorista borghese ha seco un fedele diavoletto che lo segue dovunque) si danno da fare, corrono per acqua, vanno e vengono, badando ad accendere i fuochi. Sono bei ragazzi dagli occhi fulgidi, non hanno famiglia e sono stati ribattezzati coi nomi di Mario, Giovanni, Saetta, Abeba, Vittorio; snelli, agili, vestiti succintamente, calzati con scarpe dei soldati, rispettosi, inciviliti insomma. Percepiscono qualche «bakscisc» come prezzo del loro servizio.

Il Caffa che qualcuno ha definito «il paradiso dei botanici», comprende la maggior estensione di foreste vergini di tutta l'Etiopia; è tutta una immensa foresta di alberi d'alto fusto con rivestimenti di piante epifite e inestricabili grovigli di liane.

In questa fitta e impenetrabile boscaglia, prosperano scimmie d'ogni sorta, cominciare dalle magnifiche guereza, il cui mantello bianco e nero costituisce oggetto di lucroso commercio, alle gelanda, alle amadriadi, ai cercopitechi; hanno scelto dimora i leopardi e le pantere nere, i tukani e altri singolari uccelli.

Il patrimonio forestale e qualche cosa di incalcolabile: alberi da costruzione hanno fatto comunella con piante tintorie e medicinali. Tutti gli aspetti della flora vi sono rappresentati. Vi si trovano piante d'alto fusto più dure dell'ebano, che resistono alla sega; il kararo, il cario, il bibero, la cordia abissinica, il liao, lo sciola, il conocarpus, il grauà o vermonia amigdalina, lo zigbà o podocarpus, il kousso o brayera antelnintica, l'anokoko succedaneo del kouso, la cassia, il tamarindo, il cactus, il chekougne, il cat che dà le foglie per aromatizzare il burro e l'idromele, la casuaria, l'olivo selvatico, tutta una flora lussureggiante e intricata fra cui campeggiano qua e là i ciuffi languidi delle palme dum. Fascia mirifica vegetale di centinaia di chilometri, che seguo le alture e le depressioni del territorio, intercalata da un fitta sottobosco o forteto e da estesi parchi naturali o savane arboree, punteggiate da oasi di palme e di sicomori giganteschi.

Penso quale ricchezza racchiude questa terra fertilissima, ma penso anche quando tutto sarà coltivato, colonizzato e avrà perduto la sua più grande attrattiva, il suo fascino misterioso.

Il murmure arcano della foresta vergine somiglia al rumore prodotto da una squadra di carpentieri e di fabbri e da un solista per flauto. Tutto un mondo speciale si agita e si dibatte dentro, che noi non conosciamo. Le guereza lanciano il loro strano grido di raccolta. Ma ben presto tutto è sopraffatto dal rumore dei motori d'avviamento, che hanno la facoltà di mettere in fuga gli animali selvatici.

È l'alba; dovremo affrontare ancora quaranta chilometri di foresta fitta. Riprendiamo la rotta molle e fangosa. Ma poi il sole scioglie le nubi e penetra furtivo dapprima e poi con impeto.

Ogni tanto un essere umano, coi caratteri somatici del negroide, si affaccia con occhi sbarrati a un sentiero da belve e segue circospetto, pronto a scappare, i movimenti del mostro meccanico, del cattivo genio che non teme le ire degli alberi. È un Mangio, aborigeno del Caffa, paria o intoccabile, che vive a sé ai margini delle immense foreste; non si unisce che con individui della stessa tribù e ci nutre di carne cruda di scimmia. L'odore fresco e umido dì linfa e di ciarpame penetra nelle nari come un profumo inebriante: il profumo della foresta vergine, il respiro delle età primordiali.

Costretti ad allargare la pista a ogni piè sospinto o a improvvisarne una nuova, dove la vecchia non consente il passaggio (perché sconvolta e scivolosa) il trattore si insinua, si tuffa decisamente nel folto della trama vegetale, con movimenti secchi e decisi di leve, di freni del cambio; investe liane grosse e tese come corde di navi, si avventa come una catapulta contro un albero secolare, lo scuote alle radici e con una seconda spinta lo scalza, lo abbatte, passandogli sopra come un lottatore vittorioso. Casi cadono a uno a uno arbusti e cespugli, cedono grovigli di rami, viene spazzato via come un uragano ogni ostacolo, mentre la macchina si carica di frasche, di sterpi, di rovi spinosi, imperturbabile. aprendosi una galleria, seppellendo ogni cosa nella sua rotta irresistibile. Il conduttore ripete ardite manovre, nelle forti pendenze bagnate, nei solchi, nelle asperità; indietreggia, sterza, fa virate audaci e picchiate con ostinazione da ariete. Nulla resiste al suo impeto. Il comandante la colonna dà ordini e suggerimenti da terra e assiste alle pazienti, ardue manovre come un capitano a una esercitazione. Ho visto coi miei occhi trasognati le imprese veramente eroiche di questi autisti sui generis, la perizia, le acrobazie, i miracoli di questi umili soldati, che hanno tracciato colla loro tenacia la pista più straordinaria di tutto l'Impero. Ho visto quella che non avrei mai immaginato durante questo viaggio da tartaruga, fragoroso e fantastico, che si direbbe dei tempi arcaici e in otto giorni ha condotto intontito, in un pomeriggio di sole, tra ciuffi maestosi e pittoreschi di palmizi, a Bonga, l'antica capitale del Caffa, ora modesto villaggio di tukul quadrangolari, dominato dalla missione della Consolata e dal sedicente ghebi di legno, che fu già soggiorno di Ras Destà Damteu, l'ultimo e più cocciuto dei ras ribelli.

Maggiore CARLO A. GIRARDON

FONTI

(*) L'Illustrazione Italiana, anno LXIII, n. 20, 16 maggio 1937-XI, pag. 541-543.



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