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Fascismo e colonialismo

 

 

 

 

 

 

Il colonialismo ha riguardato settanta anni della storia italiana, con molte differenze fra i diversi momenti storici. L’Italia che di volta in volta colonizza l’Eritrea, la Somalia, la Libia e l’Etiopia, quattro paesi africani molto diversi fra loro, è a sua volta molto diversa. La colonizzazione ha inizio con l’Italia risorgimentale post-unitaria e termina con l’Italia fascista, ma i cambiamenti non riguardano solo l’Italia, poiché nello stesso lasso di tempo cambiano profondamente anche l’Europa e il mondo.

 

 

La colonizzazione italiana comincia negli anni alla fine del 1880, l’Italia è unificata ormai da vent’anni ma presenta ancora molti più problemi di quanto si possa immaginare. L’unificazione è solo sul piano politico, perché per il resto rimane ancora molto da fare. Rispetto alle altre potenze europee, l’Italia è arretrata sul piano sociale [1] e soprattutto è arretrata sul piano industriale [2] e sul piano militare. Anche il sistema bancario non ha subito cambiamenti dato che le vecchie banche dei singoli stati sono ancora operative e sussistono ancora tutte le precedenti divisioni fra di essi. [3] L’Italia, in definitiva, è un paese povero nel quale la fame è all’ordine del giorno e determina quel flusso migratorio che nell’arco di 30 anni (1880-1910) [4] porterà all’estero, soprattutto dalle regioni del Nord un terzo della forza lavoro. Sul piano militare l’Italia non è certo una potenza. Ha fatto una magra figura nella Terza guerra di indipendenza e pur essendo stata sconfitta nelle battaglie di Custoza e di Lissa, ha formalmente vinto la guerra, guadagnando il Veneto, solo grazie alle vittorie della Prussia. Nonostante questo stato di fatto, l’Italia, che oggettivamente non è una grande nazione e che ha in più tutti questi problemi, decide di avere bisogno di colonie. Sull’opportunità di questa decisione l’interrogativo non viene posto solo oggi, se la ponevano anche gli italiani del tempo. Infatti, fin dai primi progetti e per tutto il periodo coloniale, in Italia era presente un doppio fronte politico: quello degli africanisti e quello degli anti-africanisti. I primi volevano le colonie e gli altri no, preferendo concentrare le risorse per risolvere i problemi del sottosviluppo esistente in Italia, fra cui la bonifica della Maremma, del Polesine e di altre regioni italiane [5].  Le forze patriottiche italiane spingono il governo ad avviare la costituzione di un «impero», insistendo sul fatto che la società moderna lo richiede. Lo stesso fanno le forze patriottiche tedesche in Germania. E così l’Italia e la Germania, le ultime arrivate sulla scena coloniale, vanno a prendersi dei territori del tutto inutili e improduttivi, con enormi costi e nessun vantaggio, se si prescinde dalla possibilità di entrare nel salotto buono della diplomazia internazionale, essendo tassativamente richiesto il possesso di colonie per potervi accedere. Sono favorevoli all’avventura coloniale i militari, convinti che porterà loro investimenti, visibilità, onori e gloria, alcuni circoli vicini al re e forse la stessa monarchia, ossessionati dal problema della «grandezza» dell’Italia, mentre sono decisamente contrari gli industriali e la sinistra (allora non ancora socialista). La Chiesa, pur essendo fondamentalmente favorevole, non si schiera apertamente né con gli uni né con gli altri. Da un lato, vede nella colonizzazione un canale preferenziale per le conversioni al cristianesimo, ma, dall’altro, non vuole alienarsi la popolazione italiana che è in gran parte contraria.

 

Fascismo e colonialismo

 

Lo stesso giorno (30 ottobre 1922) in cui Mussolini assume il potere in Italia, il generale Graziani [6] occupa Jefren nell’entroterra tripolino, ultimo atto della riconquista della Libia iniziata dal ministro liberale delle Colonie Amendola [7], opera che sarà poi continuata dal suo successore il fascista Federzoni [8]. Graziani scrive così: “Servivo quindi la Patria, nel regime liberale, con quello stesso ardore col quale continuai a servirla nel regime fascista” [9]

Con la salita al potere del fascismo, non si ebbero mutamenti nella politica coloniale rispetto agli ultimi anni dello stato liberale, principalmente per due motivi: il primo che i ministeri delle Colonie e degli Esteri, a cui era affidata la politica coloniale, non subirono alcun cambiamento di personale a parte le dimissioni di Sforza [10], Frassati  e pochi altri e il secondo che Mussolini giunse al potere senza disporre di una politica coloniale o estera precisa e organica. A tal riguardo, Mussolini affermava come gli Italiani fossero “Espansionisti” e non “Imperialisti”, intendendo cioè come il destino dell’Italia non fosse quello di aggredire e conquistare paesi stranieri, ma diffondere pacificamente il “genio” italiano mediante i commerci, la cultura e l’emigrazione [11].

Nei primi anni del Fascismo il principale atto politico nei confronti delle colonie si concretizzò nell’invio in Somalia del Quadrumviro De Vecchi [12] in qualità di Governatore e consistette in una specie di punizione per De Vecchi, il cui atteggiamento di critica e minaccia stava diventando imbarazzante e insostenibile per Mussolini, che pensò di mandarlo il più lontano possibile dall’Italia, senza disconoscere i meriti acquistati durante la Marcia su Roma.

Quando De Vecchi sbarcò a Mogadiscio, l’8 dicembre 1923, diede subito dimostrazione della sua fama di “duro” con i primi discorsi tenuti come governatore. I suoi primi atti consistettero nell’allontanamento da tutti gli uffici governativi dei funzionari legati al vecchio regime e la loro sostituzione con esponenti del partito Fascista[13]. Inoltre, giudicando che la situazione politica somala non fosse adeguata al nuovo regime instaurato in Italia dal Fascismo, decise di sottoporre a più stretto controllo tutto il territorio della Colonia e principalmente i Sultanati della parte settentrionale del paese, formalmente indipendenti, ma di fatto controllati dall’Italia da diverso tempo. Per attuare i propri progetti ordinò una serie di azioni militari, che portarono a scontri e disordini riappacificati in seguito con grande fatica.

Un’altra azione attuata da De Vecchi (che comporterà in seguito notevoli conseguenze) fu l’occupazione della linea dei pozzi d’acqua dell’Ogaden, attuata nel 1925. La linea dei pozzi, molto importante nell’economia dell’Ogaden per il carattere desertico della zona, si trovava in territorio etiopico. De Vecchi pose lungo questa linea una serie di presidi militari, in aperta violazione del confine tracciato da Menelik e Nerazzini nel 1897, che poneva il limite dei possedimenti italiani a 180 miglia dal mare, mentre i pozzi si trovavano a 300 miglia. Per evitare tensioni con l’Etiopia, Mussolini ordinò a De Vecchi di ritirare i presidi dietro il vecchio confine; De Vecchi eseguì gli ordini a metà, nel senso che arretrò i forti di presidio, ma fece pattugliare da truppe italiane la linea dei pozzi, controllando così l’intera zona.

Il 1° luglio 1925 la Somalia annesse l’Oltregiuba, che le veniva ceduto dall’Inghilterra come compenso per l’intervento italiano durante la Prima Guerra Mondiale; l’Oltregiuba non rappresentava un grande acquisto, perché il territorio era poverissimo e la stessa capitale Chisimaio si trovava in pessime condizioni. De Vecchi venne destituito nel 1928. In quel periodo la situazione dei coloni italiani era molto favorevole, perché potevano disporre di ingenti aiuti finanziari da parte del governo e di abbondante mano d’opera locale, che si trovava in condizioni poco dissimili da quella degli schiavi.

Durante i primi anni di governo, Mussolini si adoperò per elaborare una propria politica coloniale, che vedeva nell’espansione un mezzo per allentare la pressione demografica in Italia, indirizzandosi verso l’Africa e gli stati dell’Asia minore, dove si poteva aumentare il prestigio e il peso politico di una nazione, che si poneva tra le più potenti e che doveva occupare il posto che le spettava di diritto sulla scena internazionale. Questa politica coloniale doveva però essere sempre intesa come “Espansionismo”, perché il carattere rivoluzionario e proletario del Fascismo non avrebbe permesso una politica “Imperialista” tipica di stati capitalisti.

Tuttavia Mussolini poté occuparsi personalmente di politica estera solo dopo il 1925, quando il regime appare ormai consolidato. Fino a quella data, benché il Duce detenesse la carica di Ministro degli Esteri, la direzione politica del Ministero era stata assunta dal Segretario Generale Salvatore Contarini [14], che tendeva a rafforzare la posizione dell’Italia nell’ambito delle intese e delle alleanze esistenti, senza gli atteggiamenti sovversivi che erano tipici della politica parallela condotta da Mussolini nello stesso periodo, in netto contrasto con quella ufficiale.

Nel 1925 Mussolini riprese il controllo del Ministero e affidò a Dino Grandi [15] il compito di fascistizzare Palazzo Chigi, manovra che venne favorita dalle dimissioni di Contarini nel marzo del 1926. Tuttavia i progetti di Mussolini (essenzialmente di stampo revisionista) non poterono essere messi in pratica a causa della staticità della situazione internazionale e la politica estera italiana venne a conformarsi con quella prefascista, basata sull’amicizia con la Gran Bretagna: in questo modo Mussolini ottenne da Londra diverse concessioni, quali l’Oltregiuba, il riconoscimento della sovranità italiana sulle isole dell’Egeo, l’occupazione dell’Oasi di Giarabub e un trattato che divise l’Etiopia in due sfere d’influenza economica, italiana e britannica. Nel corso del 1926 avvenne la svolta in politica estera: in una serie di discorsi, in Italia e in Tripolitania, Mussolini riaffermò la vocazione espansionistica dell’Italia, riscuotendo notevole consenso da parte dell’opinione pubblica, principalmente di quella nazionalista. Queste dichiarazioni suscitarono apprensione all’estero, principalmente in Turchia, indicata come possibile direttrice d’espansione, che si preparò alla guerra mobilitando parte dell’esercito, in Francia, dove si temevano le rivendicazioni italiane in Tunisia, e in Inghilterra, che, tramite l’ambasciatore a Roma William Tyrrele, fa giungere un monito a Palazzo Chigi. L’opposizione di Francia e Inghilterra, e, in misura maggiore, una serie di problemi di natura sociale ed economica in Italia, principalmente la rivalutazione della lira, voluta per scopi politici, a prezzo di un aumento della disoccupazione, di una pesante deflazione interna, della riduzione dei salari, oltre all’opposizione degli industriali per niente favorevoli ad un’espansione coloniale, costrinsero Mussolini a modificare la politica estera, che si assestò su una linea più morbida e diplomatica.

Mussolini accentuò quindi il suo interesse nell’area danubiana e balcanica [16], per sovvertire i rapporti di forza in Europa centrale e mise in secondo piano i propositi di espansione nel Mediterraneo e nel Mar Rosso. Durante questo periodo si giunse ad accordi con la Francia sulla questione di Tangeri e ci si riavvicinò alla Turchia. Con l’Etiopia, che in Africa rappresentava l’unica direttrice di espansione in quanto unico stato ancora indipendente, si accentrò maggiormente lo sforzo di Mussolini e furono siglati accordi politici tramite una politica di amicizia e di penetrazione commerciale, che culminarono con il trattato di amicizia ventennale, firmato nel 1928 con il reggente ras Tafari Maconnen (il futuro Negus Hailè Selassiè). Il 1929 vide un nuovo cambiamento nella politica estera italiana, che divenne più aggressiva grazie ai mutamenti avvenuti nella situazione nazionale e internazionale: il rafforzamento del regime attraverso i Patti Lateranensi [17] concordati con il Vaticano, l’occupazione tedesca della Renania [18], la vittoria dei Laburisti in Inghilterra, la conferenza sul disarmo e la crisi economica degli Stati Uniti portarono Mussolini ad esprimere la necessità che aveva l’Italia di un proprio Impero e per questo vennero elaborati progetti espansionistici in direzione dell’Etiopia, verso la quale la politica di amicizia italiana nascondeva propositi in realtà aggressivi. Inoltre venne intensificata la repressione in Libia, dove la guerriglia venne stroncata da Badoglio e Graziani in tre anni, causando diverse migliaia di morti e di deportati. Vennero minimizzate le concessioni fatte dall’Inghilterra dopo la guerra mondiale (“le quattro palme spelacchiate di Giarabub”, “i novantunmila chilometri quadrati di boscaglia” dell’Oltregiuba, “che parevano ben più il dominio di un sultano d’antropofagi che non quello di una grande potenza colonizzatrice”) [19].

In questo modo l’Italia, all’inizio degli anni Trenta, possedeva una politica coloniale organica; tuttavia, prima di poter passare all’azione, occorreva avere l’appoggio o almeno l’assenso di Francia e Inghilterra. Per questo Mussolini iniziò una serie di trattative diplomatiche con entrambe le potenze, in modo da ottenere i massimi vantaggi, ora dall’una e ora dall’altra, sia in Europa che in Africa. Infatti Mussolini era sicuro dell’appoggio di Francia e Inghilterra, come esse erano certe di disporre del suo aiuto sul teatro europeo per contenere Germania e URSS; questo è testimoniato dal Patto a Quattro del 15 luglio 1933 [20].

Tuttavia, mentre con la Francia si giunse ad accordi (il 7 gennaio 1935) con i quali l’Italia rinunciava ad ogni pretesa sulla Tunisia ed i Francesi affermavano di non avere nessun interesse da difendere in Etiopia (fatto che permise a entrambe le nazioni di disimpegnare le truppe poste ai rispettivi confini) [21], con l’Inghilterra non ci si riuscì ad accordare, perché i delegati inglesi affermarono che la propria opinione pubblica non avrebbe permesso al governo di appoggiare una nazione impegnata in una guerra coloniale, e questo portò ad un irrigidimento delle relazioni tra i due stati, sebbene l’Inghilterra non si opporrà mai apertamente all’Italia durante la guerra d’Etiopia.

Dopo essersi assicurato in Europa, Mussolini era libero di dedicarsi ai progetti per la guerra. Le disposizioni ai governatori delle Colonie e allo Stato Maggiore dell’Esercito indicano come Mussolini intendesse impegnarsi in una guerra su larga scala, con l’impiego di un ingente numero di uomini e mezzi per arrivare rapidamente alla vittoria. Per questo ordinò ai comandanti di muovere le truppe con la massima velocità e di usare tutti i mezzi a disposizione per sconfiggere il nemico, compresi i gas velenosi. Inoltre Mussolini modificò le strategie da adottare: mentre i generali intendevano provocare l’offensiva abissina per ritirarsi su posizioni fortificate dove sconfiggere le truppe etiopiche grazie alla superiorità dei mezzi italiani e quindi iniziare una vittoriosa controffensiva, il Duce ordinò una rapida avanzata a partire dall’Eritrea. Durante la prima metà degli anni ‘30 vennero quindi elaborati diversi piani d’azione e venne dato modo all’industria italiana di prepararsi adeguatamente ad una produzione di guerra. E comunque l’imperativo era solo uno: fare presto!

 

 

 

 

 


 

NOTE

 

[1] Questa arretratezza sociale si esprime anche con il fatto che nel meridione d’Italia continua la guerra al brigantaggio. Il brigantaggio fu certamente il fenomeno legato alle misere condizioni dei contadini, ma trovò appoggi presso tutte le categorie sociali del Mezzogiorno, evidentemente interessate a limitare il controllo dei piemontesi sull’Italia meridionale. Le cause del brigantaggio erano però antiche e profonde, ma la delusione creata dal passaggio garibaldino prima e dall’accentramento amministrativo poi erano i motivi più recenti di questo fenomeno. La situazione si aggravò subito dopo la vendita all’asta dei beni demaniali ed ecclesiastici. I compratori appartenevano prevalentemente alla nuova borghesia rurale che si stava rivelando ancora più avara e tirannica dei vecchi padroni. L’aggravarsi delle condizioni dei contadini causò la ripresa dei disordini che in pochi mesi assunsero le proporzioni di una vera e propria guerriglia. In Calabria, Puglia, Campania, Basilicata, bande armate di briganti iniziarono nell’estate del 1861 a rapinare, uccidere, sequestrare, incendiare le proprietà dei nuovi ricchi. Si rifugiavano sulle montagne ed erano protetti e nascosti dai contadini poveri; ma ricevettero aiuto anche dal clero e dagli antichi proprietari di terre che tentavano, per mezzo del brigantaggio, di sollevare le campagne e far tornare i Borboni. All’inizio essi combatterono per due scopi l’uno in contrasto con l’altro:

  • ottenere la riforma agraria che Garibaldi non aveva concesso deludendo le loro speranze;

  • impedire la realizzazione dell’Unità d’Italia per far tornare i Bordoni, cioè proprio quei re che avevano sempre protetto i latifondi delle nobiltà e della Chiesa, negando ogni riforma.

A creare questa confusione agivano numerosi fattori, tutti comprensibili:

  • l’odio per i nuovi proprietari, sfruttatori di manodopera come e più dei precedenti e per giunta venuti dal basso e quindi ancora più inaccettabili dell’aristocrazia, “voluta dal destino e da Dio”;

  • l’incomprensione per le leggi del nuovo Stato, che apparivano non “italiane”,come dicevano i garibaldini, ma “piemontesi”, cioè altrettanto straniere quanto lo erano apparse quelle austriache ai Lombardi;

  • la protezione concessa da ecclesiastici e aristocratici, necessaria ai briganti per sopravvivere, ma condizionata dalla fedeltà al re di Napoli in esilio;

  • infine l’equivoco che lo Stato italiano “laico e liberale”, fosse in realtà uno stato ateo, cioè uno stato senza Dio, pronto a distruggere le chiese e a eliminare i preti offendendo la profonda religiosità delle masse contadine meridionali.

Per approfondire l’argomento del brigantaggio cfr. Giacinto de’ Sivo, I Napolitani al cospetto delle nazioni civili, del 1861, Il Cerchio Iniziative Editoriali, Rimini 1994; lo studio più documentato sull’argomento, che risente però dell’impostazione marxista secondo cui il Brigantaggio è un episodio della lotta di classe; Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli, Milano 1979; quindi Carlo Alianello (1901-1981), La conquista del Sud. Il Risorgimento nell’Italia meridionale, Rusconi, Milano 1994; Aldo Albonico, La mobilitazione legittimista contro il Regno d’Italia: la Spagna e il brigantaggio meridionale postunitario, Giuffrè, Milano 1979; Brigantaggio lealismo repressione nel Mezzogiorno. 1860-1870, Gaetano Macchiaroli, Napoli 1984; e Francesco Mario Agnoli, La conquista del Sud e il generale spagnolo José Borges, Di Giovanni, San Giuliano Milanese (Milano) 1993; vedi una sintesi nel mio Il brigantaggio, in Cristianità, anno XXI, n. 223, novembre 1993, pp. 15-22. Per approfondire l’argomento della Questione Meridionale cfr. Piero Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale dall’Ottocento ad oggi, Donzelli, Roma 1997; Giuseppe Galasso, L’altra Europa. Per un’antropologia storica del Mezzogiorno d’Italia, nuova edizione accresciuta, Argo, Lecce 1997; Giuliano Minichiello, Meridionalismo, Editrice Bibliografica, Milano 1997; e Marta Petrusewicz, Come il Meridione divenne una Questione. Rappresentazioni del Sud prima e dopo il Quarantotto, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 1998.

[2] Per l’arretratezza industriale, preoccupavano “le prospettive di sviluppo che sembravano quanto mai limitate in un mercato internazionale dove già dominavano alcuni forti sistemi industriali decisi a far valere la loro egemonia”. Cfr. V. Castronovo, L’industria italiana dall’ottocento a oggi, A. Mondadori Editore, 1980, pag. 3.

[3] La questione bancaria è alquanto complessa. Nel 1860 il panorama degli istituti di emissione é cosi costituito: Banca Nazionale Sarda, Banca di Parma, Banca delle Quattro Legazioni (Bologna, competente per i territori delle Romagne), Banca Nazionale Toscana. Nello stesso anno nasce anche la Banca Toscana di Credito, che pure viene autorizzata ad emettere banconote. Nell’anno successivo, con la proclamazione del Regno d’Italia, la Banca Nazionale Sarda assume la denominazione di Banca Nazionale del Regno d’Italia, assorbe la Banca di Parma e la Banca delle Quattro Legazioni e diventa il più importante istituto di emissione del neonato Regno d’Italia, estendendo la sua attività anche all’Italia centrale e meridionale. Nel 1866 anche il Banco di Napoli viene autorizzato ad emettere banconote, mentre nell’anno successivo godrà della stessa autorizzazione il Banco di Sicilia. Tre anni dopo, siamo quindi nel 1870, la Banca dello Stato Pontificio riassume la vecchia denominazione di Banca Romana, ottenendo anch’essa dal governo centrale il riconoscimento del diritto di emissione. Alla fine del 1870, quando il giovane stato italiano può stabilire a Roma la propria capitale, circolano dunque su tutto il territorio nazionale banconote emesse dai seguenti istituti: Banca Nazionale del Regno d’Italia, Banca Nazionale Toscana, Banca Toscana di Credito, Banco di Napoli, Banco di Sicilia, Banca Romana. Nel 1893 si attua la prima riforma del sistema di emissione. La Banca Romana veniva posta in liquidazione e le operazioni erano affidate al nuovo istituto, la Banca d’Italia, sorta dalla fusione della Banca Nazionale del Regno con la Banca Nazionale Toscana e con la Banca Toscana di Credito. La Banca d’Italia nasce con la forma giuridica della società anonima (oggi diremmo “società per azioni”) e, sotto la guida del governatore Stringher, inizia a “rimettere ordine” nella circolazione monetaria. Fin quando il fascismo non nazionalizzò le grandi banche e non dette un diverso ordinamento alla Banca d’Italia, al fine di salvare un sistema che era arrivato al totale fallimento, l’investimento andava preferibilmente dove il rischio era maggiore. E non solo per l’evidente motivo che le banche speravano di trarre un guadagno maggiore, ma soprattutto perché gli stessi governi prefascisti avevano fortemente spinto in tal senso. Era inoltre un momento in cui banca e industria erano legate da poteri personali incrociati. Restavano a questo punto tre istituti autorizzati ad emettere banconote: la neonata Banca d’Italia e i due banchi meridionali, il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia. Allo stesso tempo, la raccolta realizzata dal Banco di Napoli e dal Banco di Sicilia, che si fondava in larga parte sulle rimesse degli emigranti, non era impiegata esclusivamente al Sud, e in agricoltura (in base a una legge non scritta convenuta fra i governanti dell’epoca), ma veniva spostata al Nord attraverso la mediazione della Banca d’Italia e del Tesoro. Per far decollare l’industria, Giolitti strappò al Sud l’intero controvalore delle rimesse degli e migranti (centinaia di migliaia di miliardi in lire d’oggi) e per salvare le banche infognate in crediti industriali irrecuperabili, Mussolini spese ufficialmente sei miliardi (questo in un tempo in cui un chilo di pane costava meno di una lira e una Balilla FIAT diecimila lire). Ma i miliardi effettivamente spesi furono forse una ventina, pari a tre interi bilanci dello Stato all’epoca. Certamente furono miliardi ben spesi, in quanto, sotto la guida della Banca d’Italia ripulita e dell’IRI, l’Italia riuscì a compiere la scalata da povero paese agricolo a impero industriale. Per approfondire lo stato del sistema bancario dall’unificazione ad oggi cfr. AA.VV., Rapporti monetari e finanziari internazionali 1860-1914. Le banche di emissione in Italia fino all’inizio del Novecento. Statistiche storiche: il cambio della lira 1861-1979. Elementi di normativa sulle banche di emissione 1859-1918, Editori Laterza, 1990.

[4] La vastità delle emigrazioni europee fu impressionante, tanto che si parlò di grande esodo, e l’Italia fu uno dei paesi più colpiti da questo fenomeno. Tra il 1820 e il 1930 emigrarono 62 milioni di europei. Il flusso di emigrazione raggiunse l’apice tra la fine del XIX secolo e la Grande Guerra. Il maggior numero di emigranti era offerto dalle seguenti regioni italiane: Veneto, Lombardia e Piemonte (al Nord); Calabria, Sicilia e Campania (al Sud). L’emigrazione italiana è stata determinata nel tempo da varie e molteplici cause, fra cui invasioni e crisi alimentari. Invece, l’emigrazione di massa che si è verificata alla fine del XIX secolo ha una causa ben precisa: la difficoltà ad adattarsi alla rivoluzione industriale, capacità scarsa soprattutto nel campo agricolo in quanto gli agricoltori avevano una alimentazione poco nutriente. Questo aspetto arretrato della società cominciò a mutare negli anni che vanno dal 1876-80, ed infatti si riscontra una diminuzione costante della mortalità grazie a miglioramenti sanitari, igienici ed alimentari. Però la natalità non diminuì così velocemente, e questo causò un aumento di popolazione che a sua volta fu una delle cause della emigrazione. L’emigrazione non diminuì con lo sviluppo industriale dell’Italia, anzi crebbe in modo proporzionale a quest’ultimo perché molte categorie di lavoratori furono danneggiate dalla rivoluzione agricola ed industriale.

[5] In particolare, nell’ambito della Congregazione Consorziale del I Gran Circondario Scoli, istituita nel 1820 dallo Stato Pontificio per governare idraulicamente tutto il territorio compreso tra il Panaro ad Ovest, il Po di Volano a Sud, il tenimento della Mesola ad Est ed il Po di Goro-Po di Venezia a Nord, si fece strada l’idea di ripristinare la grande bonifica della parte orientale del Polesine di Ferrara, utilizzando le nuove idrovore a vapore. Una prima idrovora ideata dall’Ing. De Lotto e realizzata con modifiche dall’Ing. Magnoni nel 1857 a Baura costituì una importante esperienza per il Consorzio, ma l’impresa nella sua globalità era superiore alle forze e alla volontà che esso poteva esprimere. Infatti l’impresa venne realizzata da una società privata a capitale misto inglese e italiano, la S.B.T.F. (Società per la Bonifica di Terreni Ferraresi), che acquistò la maggior parte dei terreni da bonificare e costruì il grandioso idrovoro di Codigoro tra il 1872 e il 1874, prosciugando nuovamente i terreni vallivi.
Ancora una volta però il recupero produttivo dei terreni ed il mantenimento in essere della bonifica si rivelarono assai più gravosi del previsto, tanto che la S.B.T.F. chiese (nel 1883) ed ottenne (nel 1885) dal Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio il decreto di costituzione del Consorzio coattivo di manutenzione, che prese il nome di “Grande Bonificazione Ferrarese” e si staccò così dalla Congregazione del I Circondario di cui faceva parte; l’altra porzione del territorio, comprendente le bonifiche più antiche della zona occidentale a nord di Ferrara, si costituì nel Consorzio indipendente di “Terre Vecchie nel I Circondario Canal Bianco”. All’inizio del Novecento la Grande Bonificazione Ferrarese, presentando ancora la bonifica gravi lacune idrauliche, venne completamente ristrutturata su progetto dell’Ing. Pietro Pasini, il quale, con una geniale soluzione tecnica, separò le Acque Alte dalle Acque Basse, destinando alle prime - zone di Guarda, Copparo, Formignana e Tresigallo - il vecchio impianto idrovoro del 1874 e costruendo ex novo un secondo impianto idrovoro al servizio delle zone più depresse di Jolanda di Savoia, Berra, Ariano Ferrarese e Codigoro.Per approfondire l’argomento delle bonifiche si consiglia la lettura di A. Lazzaroni, L’agricoltura Polesana a cavallo di secolo: fattori di modernizzazione, in N. Badaloni, Gino Piva e il socialismo padano-veneto, a cura di G. Berti, Minelliana, Rovigo 1997, pp. 31-44.

[6] Rodolfo Graziani, Maresciallo d’Italia (Filettino 1882 - Roma 1955). Comandò le forze del fronte Sud nel conflitto italo-etiopico; fu Maresciallo d’Italia e Viceré d’Etiopia (1936-1937). Capo di Stato Maggiore dell’esercito (1939), comandò le truppe italiane nell’Africa Settentrionale (1940-1941). Ministro della Difesa nella Repubblica di Salò (1943-1945), si diede prigioniero agli Alleati (1945).

[7] Giovanni Amendola, giornalista e politico (Salerno 1885 - Cannes 1926). Influenzato dal noto direttore del Corriere della Sera, Luigi Albertini, simpatizza per il Partito Liberale, allora influente Fu attratto dalla vita politica attiva e fu eletto per tre legislature alla Camera dei Deputati nel collegio della sua natia Salerno. Aderì al gruppo della democrazia liberale su posizioni antigiolittiane, facendo della questione morale e dell’opposizione ad ogni estremismo (sia di destra, sia di sinistra) la stella polare della sua attività politica e parlamentare. Nel 1914 si schierò a favore dell’intervento nella Prima Guerra Mondiale a fianco dell’Intesa per completare il Risorgimento e l’unificazione nazionale. Fu uno dei protagonisti di quel cosiddetto “Interventismo democratico” che vedeva nella Grande Guerra la IV Guerra d’Indipendenza. Nel ‘22 è tra i fondatori del quotidiano Il Mondo che contrasta il nascente fascismo. Nel 1924, dopo l’omicidio del deputato socialista riformista Giacomo Matteotti da parte dei sicari fascisti del Duce, divenne il capo dell’opposizione demo-liberale al nascente regime fascista: fu uno dei più convinti sostenitori della secessione parlamentare dell’Aventino. Nel 1925 viene picchiato gravemente a Roma e poco dopo nuovamente fra Montecatini e Pistoia. Riporta molte ferite, dalle quali non si riprenderà più. Abbandonò la vita politica attiva riparando in Francia dove morì nel 1926 a seguito delle lesioni riportate nel vile pestaggio del luglio precedente.

[8] Luigi Federzoni, uomo politico e scrittore (Bologna 1878 - Roma 1967). Leader del movimento nazionalista italiano e fondatore del suo organo, L’idea nazionale (1911), deputato nel 1913, interventista e pluridecorato, nel primo dopoguerra, dopo aver contribuito alla fusione dei nazionalisti nel partito fascista, fu successivamente ministro delle colonie (fino al 16 giugno 1925), degli interni e di nuovo delle colonie (6 novembre 1926 - 18 dicembre 1928). Senatore dal 1928, ebbe la presidenza del senato (1929-1938) e dell’Accademia d’Italia (1938-1943). Nella seduta del Gran consiglio del fascismo del 25 luglio 1943 si pronunciò contro Mussolini. Nei primi mesi del 1927 Luigi Federzoni - da poco tornato al dicastero delle Colonie - scrisse un diario, annotando puntualmente, ora per ora, le proprie giornate, i propri incontri, le proprie impressioni. Ne emerge un quadro interessante dei rapporti tra i diversi gerarchi, delle loro posizioni politiche e personali, dei contrasti e delle gelosie esistenti nel regime fascista. Per uno studio più esauriente e completo cfr. L. Federzoni, 1927. Diario di un ministro del fascismo, prefazione di S. Romano, a cura di A. Macchi, Firenze, Passigli, 1993 .

[9] Cfr. R. Graziani, Ho difeso la patria, Garzanti, Milano, 1948, pag. 32.

[10] Sforza nasce a Montignoso (MS) il 24 gennaio 1872, da una famiglia nobile (ha il titolo di conte). Si avvia alla carriera diplomatica nel 1896: i suoi primi incarichi all’estero sono al Cairo, a Parigi, a Costantinopoli e a Pechino. Nel 1905 si dimette, non accettando una destinazione, ma presto rientra in carriera per volere del Visconti Venosta: dal 15 gennaio al 7 aprile 1906 partecipa alla Conferenza di Algesiras. Tra le due guerre Sforza si dimette nel 1922 dalla carica di ambasciatore a Parigi ma rimane sulla scena politica. Sarà anche convinto avversario del Re Vittorio Emanuele III succube di Mussolini e corresponsabile delle malefatte e dei crimini del Fascismo. L’atteggiamento antimonarchico gli creerà problemi con Churchill che credeva di poter contare sulla monarchia come fattore di equilibrio nell’Italia post-bellica sconfitta e liberata. Di fede repubblicana, rientrato in Italia dopo 16 anni di assenza, aderisce al Partito d’Azione e prende posizione per l’immediata abdicazione di Vittorio Emanuele III ed il mutamento istituzionale; è ministro senza portafoglio, con l’incarico di Alto Commissario per le sanzioni contro il fascismo, nel secondo governo Badoglio e nel primo gabinetto Bonomi. Caduto il primo governo Bonomi, il CLN lo candida alla presidenza del Consiglio. Ma ecco scattare contro Sforza il veto – improvviso ma non inatteso – del primo ministro inglese Winston Churchill. “No, Sforza no: anzitutto è un repubblicano intransigente. E poi non è un amico della Gran Bretagna”.

[11] Mussolini si espresse così: “Caposaldo fondamentale della nostra azione politica in Africa Orientale resta il mantenimento rigoroso dell’integrità dell’Etiopia, con la quale intendiamo promuovere, così attraverso l’Eritrea come attraverso la Somalia, intensi e fecondi rapporti commerciali”. Cfr. Ministero degli Affari Esteri, I documenti diplomatici italiani, VII Serie, vol. I, doc. 222. In realtà già nel 1919 Mussolini prende una posizione ben diversa, in contrapposizione con i concetti appena espressi, vale per tutti un suo articolo di fondo su Il Popolo d’Italia: “Una nazione di 40 milioni di abitanti, come l’Italia, che potrà contarne 60 fra cinquanta anni, quand’abbia coscienza di se, delle ingiustizie e delle umiliazioni sofferte, e delle sue memorie, può dare del filo da torcere ai trionfatori del dollaro e della sterlina”. Cfr. B. Mussolini, Il Popolo d’Italia, 09/05/1919.

[12] Cesare Maria de Vècchi, uomo politico italiano nacque a Casale Monferrato, Alessandria, nel 1884. Laureato in giurisprudenza, dopo aver preso parte alla prima guerra mondiale, fondò e diresse il movimento fascista nel Piemonte. Deputato nel 1921, fu, insieme con Balbo, De Bono e Bianchi uno dei quadrumviri che guidarono la marcia su Roma. Governatore della Somalia; primo ambasciatore presso la Santa Sede (1929), ministro per l’educazione nazionale nel 1935-1936, fu poi nominato governatore delle isole dell’Egeo. Nel 1943 alla seduta del Gran consiglio del 24-25 luglio, votò contro Mussolini. Morì a Roma nel 1959.

[13] L’ordinamento del P.N.F. che viene presentato è certamente quello in vigore dopo la caduta dell’Etiopia, ovvero ad Impero costituito. Rimane il fatto che, intuitivamente, esso fu solo potenziato sulla base del precedente periodo in cui esistevano solo le colonie e quindi relativamente al periodo da noi analizzato. Comunque vengono riportate le date di costituzione per una maggiore comprensione. L’organo supremo del P.N.F. in A.O.I. è l’Ispettorato del P.N.F. per l’Africa Orientale Italiana, con sede in Addis Abeba. Presso il Governatorato di Addis Abeba e presso ognuno dei 5 Governi ha sede una Federazione di Fasci di combattimento. sul territorio risultava essere il seguente:

Governatorato di Addis Abeba
Federazione dei Fasci di Addis Abeba
costituzione 22 giugno 1936-XV
Sedi : GIL, OND, Ispettorato fascista del lavoro, ufficio Stampa e Propaganda AOI

Governo dell’Eritrea
Federazione dei Fasci di combattimento dell’Eritrea
costituzione settembre 1928-VI
Federazione dei Fasci di Asmara, Casa Littoria "A.Mussolini"
Sedi : OND, GIL,Patronato Assistenziale Sociale e dei Lavoratori
Fasci di combattimento :
Massaua,
Cheren,
Cobbò,
Assab

Governo di Galla e Sidama
Federazione dei Fasci di combattimento di Galla e Sidama
costituzione 29 gennaio 1937-XVI
Federazione dei Fasci di combattimento di Gimma
Fasci di combattimento a :
Bonga,
Olettà

Governo dell’Amara
Federazione dei Fasci di combattimento dell’Amara
costituzione 25 luglio 1936-XV
Fascio di Gondar , con sede presso l’ufficio postale
Sedi : OND, GIL, Ufficio del Lavoro
Fasci di combattimento a :
Debra Marcos,
Dessiè,
Debra Sina,
Dire Daua

Governo di Harar
Federazione dei Fasci di combattimento dell’Amra
costituzione 22 giugno 1936-XV
Fascio di Harar
Sedi : OND, GIL
Fasci di combattimento a :
Giggiga

Governo della Somalia italiana
Federazione dei Fasci di combattimento dell’Amara
costituzione febbraio 1928-VI
Fascio di Mogadiscio
Sedi : OND, ONC, GIL
Fasci di combattimento :
Vittorio d’Africa,
Merca,
Isca Baidoa,
Lugh Ferrandi,
Neghelli,
Villaggio Duca degli Abruzzi

 

Dalle Federazioni dei Fasci di combattimento dipendono :
i Fasci femminili,
la Gioventù Italiana del Littorio
l’Opera Nazionale Dopolavoro,
gli Istituti di Cultura,
le Opere Assistenziali

 

Alle dipendenze dell’Ispettore del P.N.F. e sotto la direzione dell’Ispettore Fascista del lavoro dipende l’Ispettorato Fascista del Lavoro, con sede in Addis Abeba. L’ordinamento gerarchico è il medesimo del Regno. Tutte le località sedi di Fascio di combattimento sono dotate di Casa Littoria.


LIBIA

Federazione dei Fasci Bengasi
costituzione febbraio 1928-VI

Fascio di Derna
costituzione 5 luglio 1936-XV

Fascio di Misurata
costituzione 10 febbraio 1937-XVI

Federazione dei Fasci di Tripoli
costituzione 1° aprile 1927-V

[14] Figura singolare, Salvatore Contarini, fu segretario generale al ministero degli Esteri, stretto ma non passivo collaboratore di Mussolini (si dimetterà all’inizio del 1926).

[15] Dino Grandi, uomo politico italiano, nacque a Mordano, Bologna, nel 1895 e morì a Bologna nel 1988. Fu uno dei fondatori del movimento fascista e uno dei principali organizzatori delle squadre nell’Emilia-Romagna. Entrò in parlamento nel 1921. Ministro degli esteri (1929-1932), ambasciatore a Londra (1932-1939), ministro guardasigilli (1939), presidente della camera dei fasci e delle corporazioni (1939), ebbe una parte di primo piano nella seduta del Gran consiglio del 24 luglio 1943 che portò alla caduta del fascismo. Lasciò due volumi di memorie: 25 luglio, quarant’anni dopo e Il mio paese.

[16] L’ostilità prevalente dei vertici politico-militari italiani nei confronti del nuovo stato dei Serbi, Croati e Sloveni (regno di Jugoslavia dal 1929) rappresentò una linea di continuità, perseguita con strumenti diversi, tra la politica prefascista e quella fascista. Un caso singolare: l’impianto del piano Badoglio del 1918, teso a disgregare dall’interno la neonata Jugoslavia, si ripropone in un progetto di propaganda elaborato nel 1927 dall’addetto militare a Belgrado, Sebastiano Visconti Prasca. Il bombardamento e l’occupazione di Corfù, voluti da Mussolini nel 1923 come reazione all’eccidio di una missione italiana operante nell’area greco-albanese, rappresentarono un incidente di breve durata, risolto anche per le pressioni di Londra, ma esso anticipò lo stile degli interventi più spicci adottati poi dal governo di Roma nei suoi rapporti con i paesi balcanici. Col 1925, superata la crisi Matteotti, prende avvio la vera fascistizzazione della politica estera italiana e assumono altra organicità i piani di penetrazione nell’Europa danubiano- balcanica. Ricordiamo Contarini come propugnatore di una linea politica più moderata nei confronti della Jugoslavia: segnale, quindi, di fronte ad altre intransigenze, della possibilità di adottare da parte italiana interventi meno miopi nell’area balcanica. Il 1925, il 1926 e il 1927, sono le tre tappe in cui di dispiega il più stretto controllo italiano sull’Albania. Dino Grandi, ministro degli Esteri con Mussolini tra il 1929 e il 1932, ci ricorda nelle sue memorie che “il controllo dell’Albania ... divenne un potenziale strumento offensivo per colpire al cuore la stessa Jugoslavia, o meglio la Serbia”. Cfr. Dino Grandi, Il mio paese. Ricordi autobiografici (a cura di Renzo De Felice), Bologna, Il Mulino, 1985, p. 312.

[17] I rapporti fra Stato e Chiesa furono regolati dalla L. 27 maggio 1929, n. 810. - Esecuzione del Trattato, dei quattro allegati annessi c del Concordato, sottoscritti in Roma, fra la Santa Sede e I’Italia, l’11 febbraio 1929. [Pubblicata nel Suppl. ord. Gazz. Uff. 5 giugno 1929, n. 130]. Per una lettura cfr. http://www.amicus.it/leggi/Patti_Lateranensi. 

[18] 7 marzo 1936 Hitler inviò truppe nella regione tedesca della Renania, che il trattato Versailles aveva voluto zona smilitarizzata.

[19] Queste frasi sono attribuite a Corrado Zoli, ex Governatore dell’Eritrea. In La ripartizione dell’Africa, «Gerarchia», luglio-agosto 1932, riportato in A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, vol II La conquista dell’Impero, Mondadori, 1992, pag. 15.

[20] A cavallo tra il 1932 ed il 1933 Mussolini, che nel frattempo aveva dimissionato Grandi assumendo l’interim degli Esteri, mostrò di puntare ancora ad una intesa con Parigi, e soprattutto al progetto di un “Patto a Quattro” tra Italia, Gran Bretagna, Francia e Germania come soluzione alternativa al tradizionale sistema di sicurezza collettiva sostenuto dalle democrazie. Nel novembre 1933 ripresero anche gli incidenti di frontiera nel Fezzan meridionale, dove pattuglie francesi avevano avviato i rilievi topografici lungo la zona confinaria di Ghat. Altri imbarazzanti “contatti” videro coinvolti in questo periodo tecnici e militari dei due paesi, impegnati nelle serrate operazioni di delimitazione “unilaterale” con l’obiettivo di reclamare, una volta giunti al tavolo delle trattative, il fatto compiuto. Cfr. v. Enrico Serra, Il confine meridionale della Libia e gli accordi Mussolini-Laval in: Jean-Baptiste Duroselle, “Italia e Francia dal 1919 al 1939”, a cura di Jean-Baptiste Duroselle ed Enrico Serra, Milano, 1981, pp.174-194

[21] Il 7 gennaio vennero firmati gli accordi:

  1. per quanto riguarda le concessioni territoriali, l’Italia avrebbe ottenuto 114.000 kmq di deserto al sud della Libia e 800 kmq ai confini dell’Eritrea;

  2. lo statuto privilegiato degli italiani della Tunisia del 1896 sarebbe stato progressivamente abolito entro trent’anni secondo quanto stabilito da un accordo dettagliato;

  3. la Francia dichiarava il proprio “désistement” economico in Etiopia, con l’esclusione dell’hinterland della Somalia Francese e della zona della ferrovia francese Gibuti-Addis Abeba, di cui un gruppo italiano avrebbe ottenuto 2.500 azioni;

  4. i due paesi firmatari promettevano di consultarsi “in caso di minaccia per l’indipendenza e l’integrità dell’Austria” o nel caso di una ufficializzazione del riarmo tedesco.

Laval rinunciò dunque ad includere negli accordi la partecipazione della Piccola Intesa, ed a ottenere una garanzia italiana per la Jugoslavia. La grande novità fu però soprattutto il netto ridimensionamento delle richieste territoriali dell’Italia, che per di più accettava per la prima volta il principio di abbandonare ogni ambizione sulla Tunisia, sia pure trent’anni più tardi. In realtà Mussolini aveva ottenuto, in luogo delle problematiche concessioni territoriali, la conquista politica del “désistement” francese relativamente all’Abissinia, contenuto nelle lettere segrete scambiate dai due statisti lo stesso 7 gennaio. Con esse, la Francia si impegnava a non cercare “in Etiopia la soddisfazione altri interessi che di quelli economici relativi al traffico della ferrovia Gibuti-Addis Abeba”. Sugli accordi del 1935, cfr. Francesco Lefevre d’Ovidio, “L’intesa italo-francese del 1935 nella politica estera di Mussolini”, Roma, 1984.

 



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