Storia della campagna in
Africa Orientale (*)
Quella che viene qui presentata,
è la storia della campagna di guerra in Etiopia così come
veniva raccontata nel 1938 sulle pagine dell'enciclopedia
"Labor" del ragazzo italiano.
"Le nostre prime Colonie –
l’Eritrea e la Somalia Italiana – confinavano con l’Impero
Etiopico, antichissimo Stato semi barbaro, governato dal Negus
Neghesti (Re dei Re) Hailé Selassié I. Con numerosi trattati
si era più volte cercato di regolare le frequenti questioni di
confine, ma non si era mai riusciti ad ottenere che le tribù
nomadi abissine e somale non invadessero ogni tanto il nostro
territorio a scopo di pascolo o, quel che è peggio, a scopo di
rapina.
Poiché da circa quaranta anni
era cessata ogni ragione di guerra fra l’Italia e
l’Abissinia, le forze che noi tenevamo nelle due Colonie
erano molto limitate e appena sufficienti a garantire
l’applicazione della legge o a impedire qualche sorpresa.
Senonché, da qualche anno, il
Negus, sobillato da stranieri interessati e convinto che al
suo popolo fossero riserbati grandissimi destini, dava segni
di ostilità verso l’Italia, calpestando i trattati e
manifestando il proposito di ricacciarci un giorno o l’altro
nel mare.
Il 5 dicembre 1934 avveniva ai
pozzi di Ual Ual (Somalia) un gravissimo incidente: il
nostro piccolo presidio, comandato dal capitano Cimmaruta,
veniva proditoriamente aggredito, e riusciva a liberarsi
dagli assalitori solo dopo lunghi sforzi e notevoli perdite.
Il nostro Governo, allora, decise di risolvere una volta per
sempre le vecchie questioni e iniziò la spedizione in Africa
Orientale di truppe, armi e materiali.
I popoli barbari non
riconoscono e non rispettano che la forza, e poiché tutte le
trattative non avevano portato a nessuna conclusione,
bisognava dimostrare che Roma è giusta e forte, e sa fare
rispettare dovunque e in ogni tempo i suoi sudditi e la sua
bandiera. Il 17 gennaio 1935 il generale Emilio De Bono era
nominato Alto Commissario per l’Africa Orientale, con
l’incarico di curare la preparazione delle operazioni
militari.
La spedizione divenne subito
popolarissima, e le domande di volontari affluirono in
numero enormemente superiore alla necessità. I capi di tutte
le organizzazioni politiche, amministrative e sindacali, i
senatori, i deputati, diedero per primi l’esempio, e si
determinò fin dall’inizio un’atmosfera di caloroso
entusiasmo, i cui frutti non sarebbero certo mancati.
E così il Governo, per mettere
a profitto dell’impresa il sentimento di tanti volenterosi,
formò le Divisioni di Camicie Nere, che vennero man mano
avviate in Etiopia accanto alle Divisioni dell’Esercito
regolare. I nomi di queste Divisioni che seppero in così
breve tempo dare alla Patria una vittoria completa e
smagliante, meritano di essere ricordate a tutti gli
Italiani: Gavinana, Peloritana, Sabauda, Sila, Cosseria,
Assietta, Pusteria (formata da alpini) e Trento
(motorizzata) erano le Divisioni dell’Esercito; 28 Ottobre,
23 Marzo, 21 Aprile, 3 Gennaio, 1° Febbraio, Tevere
(mutilati, combattenti, Italiani all’estero e studenti) e
Cirene erano le Divisioni volontarie di Camicie Nere. Si
aggiunsero inoltre due Divisioni di truppe indigene (in
Eritrea) e due Raggruppamenti arabo-somali (in Somalia) e
finalmente una Divisione di truppe libiche.
Tutti i reparti vennero dotati
in larga misura dei mezzi di guerra più moderni e
perfezionati: gruppi di mitragliatrici, carri armati veloci
e pesanti, artiglieria di montagna e di campagna, batterie
di medio calibro. Battaglioni di zappatori, di telegrafisti,
di minatori, di pontieri, reparti lanciafiamme completavano
e rafforzavano le grandi unità operanti in Africa Orientale.
Le truppe dell’Eritrea erano al comando diretto dell’Alto
Commissario generale De Bono, ed erano divise in cinque
Corpi d’Armata (generale Santini, Maravigna, Bastico,
Babbini e Pizio Broli); quelle della Somalia obbedivano al
generale Rodolfo Graziani, che aveva già brillantemente
illustrato il suo nome nelle lunghe e dure campagne di
guerra che portarono – dal 1921 al 1931 – alla conquista
integrale della Libia che culminarono nelle memorabili
imprese del Fezzan e di Cufra.
Non bisogna credere che una
spedizione così imponente e che raggiunse i 400 mila uomini
fosse di semplice e facile attuazione. Premesso che
l’Eritrea dista 4 mila chilometri dall’Italia e la Somalia
circa 8 mila, bisogna considerare che le nostre due vecchie
Colonie non erano affatto preparate a ricevere e a far
muovere un numero così ingente di armati. Le risorse delle
nostre due Colonie erano quanto mai limitate, fu quindi
necessario portare tutto dall’Italia: i viveri per la
truppa, i foraggi per i quadrupedi, i carburanti per le
macchine e per l’aviazione, il vestiario, l’armamento,
l’equipaggiamento, le munizioni, i mezzi sanitari e
veterinari, e così via. L’acqua era scarsissima in Somalia,
era appena sufficiente in Eritrea; si dovette quindi
provvedere alla escavazione di pozzi, a rendere potabile
l’acqua che non lo era, a trasportarla dove faceva difetto.
Pensate che la quantità minima occorrente è di sei litri al
giorno per uomo e di venti litri per quadrupede.
Ma per poter portare tutto
questo materiale alle truppe – milioni di tonnellate –
occorreva raccogliere tutto a Napoli, imbarcare il
materiale, trasportarlo a Massaia (per l’Eritrea) e a
Mogadiscio (per la Somalia), sbarcarlo e poi inoltrarlo al
seguito delle truppe; e qui si incontrarono le maggiori
difficoltà: la preparazione dei porti per lo sbarco
immediato dalle navi, che dovevano tornare rapidamente in
Patria per caricare altro materiale, e la preparazione delle
strade, di cui le Colonie erano poverissime. Il lavoro,
compiuto sotto la direzione dell’Intendente generale
Dall’Ora, fu immenso, e mercè l’abnegazione e l’opera
indefessa di tutti, si raggiunse il risultato di poter
sempre abbondantemente provvedere a tutte le necessità di
vita e di guerra delle truppe.
È un pò difficile fissare in
cifre la potenza militare dell’Impero etiopico al momento
dell’inizio delle ostilità. Si può ritenere che gli armati,
più o meno modernamente, raggiungessero il numero di 300
mila; di essi però solo una parte obbediva al Negus, il
resto era alle dipendenze dei vari Ras. Vi erano inoltre
numerose altre bande, truppe irregolari mobilissime, ma di
scarsa disciplina e consistenza. Le truppe della Guardia
Imperiale (circa 15 mila uomini) erano le sole equipaggiate
e addestrate all’europea.
Il soldato abissino è buono
per slancio, sobrietà, resistenza alle fatiche. Ben nutrito
e ben comandato può rendere moltissimo, soprattutto in quei
terreni rotti e accidentati che consentono raramente
l’impiego di grande masse di armati. Mancava però
completamente, all’esercito etiopico, ogni organizzazione
moderna per il servizio sanitario, per il vettovagliamento e
per il munizionamento.
All’inizio dell’ottobre 1935
tutto era pronto, e il Duce ordinava al generale De Bono di
passare il confine. Il 3 ottobre, infatti, tre colonne
passavano la frontiera e s’inoltravano verso gli obiettivi
prestabiliti. La resistenza del nemico, tuttora intento alla
radunata delle truppe, fu piuttosto fiacca, e così il giorno
6 la nuova linea era raggiunta: Adigrat (I Corpo d’Armata),
Entisciò (Corpo d’Armata Indigeni), Adua (II Corpo
d’Armata). L’occupazione di quest’ultima località era
particolarmente importante perché vendicava per sempre i
gloriosissimi nostri soldati, caduti con le armi in pugno
nella giornata del 1° marzo 1896. dovunque le popolazioni
facevano atto di sottomissione, e il clero vestito dei suoi
sfarzosi paramenti, rendeva omaggio ai nostri comandanti.
Pochi giorni dopo anche Axum,
la città santa dell’Abissinia, veniva occupata, e ai primi
di novembre il I Corpo d’Armata raggiungeva Macallé,
piantando il tricolore sulle rovine del forte di Enda Jesus,
che quaranta anni prima aveva visto gli eroismi
indimenticabili di Galliano e dei suoi soldati. Alla fine di
novembre il Maresciallo Badoglio assumeva il Supremo Comando
delle operazioni in Africa Orientale.
Intanto l’esercito del Negus
si veniva raccogliendo e si avvicinava minaccioso alla linea
tenuta dalle nostre truppe. Nel dicembre del 1935 e nel
gennaio 1936 tentò in vari punti di sorprendere la
sorveglianza delle nostre linee, ma fu sempre ricacciato con
gravissime perdite. Più importante fra tutti questi scontri
fu la prima battaglia del Tembien (20-24 gennaio), nella
quale rifulse, alla difesa di passo Uarieu , l’eroismo delle
Camicie Nere della Divisione 28 Ottobre.
Il Maresciallo Badoglio,
portato a termine il lavoro oscuro e imponente della
predisposizione delle strade, dell’acqua e dei materiali,
inizia ai primi di febbraio le operazioni decisamente
offensive contro il nemico, che si è raccolto in tre folte
masse: nell’Endertà con Ras Mulughietà; nel Tembien con Ras
Cassa e Ras Sejum e nello Sciré con Ras Immirù.
Sostenuti da una imponente
massa di artiglieria, i Corpi d’Armata I e III, dal 10 al 15
gennaio, attaccano e disperdono la massa principale del
nemico, e conquistano d’assalto la munitissima altura dell’Amba
Aradam. Badoglio serra quindi come in una morsa l’aspro e
difficile territorio del Tembien, costringendo i difensori
alla fuga; alla fine dello stesso mese, i Corpi d’Armata II
e IV attaccano decisamente le forze di Ras Immirù e le
rigettano al di là del Tacazzé. In tre settimane la parte
migliore e più combattiva dell’esercito abissino è
annientata. A nulla avevano potuto la tenacia e il valore
delle truppe contro lo slancio ammirevole dei nostri reparti
e contro la mirabile azione di concorso della nostra
aviazione.
La strada verso il cuore
dell’Impero era ormai libera da ostacoli. Contemporaneamente
il generale Graziani aveva felicemente risolto il
difficilissimo problema affidato alla sua capacità e alla
sua esperienza. Con poche forze, di fronte a una linea di
confine smisurata (oltre 600 chilometri), egli ha supplito
con rapidità fulminea delle mosse, con un’attività senza
riposo, con un’arditezza fredda, straordinaria, alla
soverchiante superiorità numerica del nemico. Rafforzata la
sua estrema sinistra mediante l’occupazione di Dolo, egli
elimina con pochi e vigorosi colpi di maglio il pericoloso
rientrante che sta al centro della sua linea; a Gorrahei il
nemico è battuto e volto in fuga (7 novembre).
Il comandante abissino Ras
Destà, informato delle scarse forze di Graziani, raccoglie
verso occidente una grossa massa di armati, manifestando il
proposito di voler raggiungere al più presto Mogadiscio. Ma
graziani lo previene e lo attacca il 12 gennaio e, dopo una
settimana di battaglie vittoriose e di arditissime puntate,
lo sgomina e raggiunge Neghelli, a circa 400 chilometri dal
punto di partenza. Assesta il paese, prepara le strade per i
rifornimenti, e inizia una laboriosissima e difficile
preparazione per l’attacco decisivo, che sferrerà,
nell’aprile, contro il nucleo principale avversario,
raccolto intorno ad Harrar.
Le dure sconfitte toccate ai
suoi Ras, nel Tigrai, non hanno ancora indotto il Negus alla
rassegnazione. Deciso a fare l’ultimo sforzo con le poche
truppe rimastegli fedeli e con la Guardia Imperiale, pensa
di battere l’ala sinistra della forte colonna italiana che,
raggiunta l’Amba Alagi, procede vittoriosamente verso il
centro dell’Etiopia.
Il 31 marzo, fra il monte
Bohorà e il passo Mecan, l’attacco è sferrato con impeto,
con decisione, con disperato valore. Ma le nostre truppe non
piegano e non perdono un pollice di terreno. Non solo, ma
gli alpini e gli ascari si gettano al contrattacco e
liquidano per sempre, alla baionetta, gli ultimi resti delle
forze armate imperiali.
La via è aperta, e ha inizio
la gigantesca marcia di tutta la vastissima fronte verso la
vittoria finale. Mentre il luogotenente generale Storace –
con arditisima rapida marcia in territorio del tutto privo
di strade – porta la sua autocolonna a Gondar, e mentre il
III Corpo d’Armata raggiunge socotà, la colonna di sinistra
dello schieramento (Corpi d’Armata I e Indigeni) occupa
Quorum (7 aprile), punta rapidamente su Dessié – la capitale
della guerra – e vi giunge il 15.
Intanto Graziani, in Somalia,
ha ultimato i suoi apprestamenti, e il 14 aprile inizia, su
tre colonne, quella magnifica manovra, che integrando i
durissimi attacchi frontali, doveva condurlo alla conquista,
a viva forza, del munitissimo campo trincerato di Sassabaneh.
Ras Nasibù abbandona la lotta e le colonne di Graziani
occupano rapidamente Giggiga (6 maggio), Harar (8 maggio) e
Dire Daua (9 maggio).
Da Dessiè ad Addis Abeba la
colonna motorizzata di Santini (oltre 2.000 autocarri) e le
colonne indigene di Pizio Broli volano; il 5 maggio, alle
ore 16, il Maresciallo Badoglio entra a cavallo nella
capitale nemica, che il Negus ha abbandonato al saccheggio,
fuggendo, tre giorni prima. La guerra è finita, e il Duce,
alle 19 del giorno stesso, lo comunica per radio al popolo
italiano riunito nelle piazze di tutta Italia in un solo
sentimento di orgoglio, di riconoscenza, di entusiasmo, di
fede.
In questa breve, ma aspra e
difficilissima campagna di guerra, il nostro soldato ha dato
ancora una volta la prova tangibile delle sue grandi qualità
di resistenza alle fatiche, di adattamento a ogni clima, di
tenacia, di sacrificio, di eroismo. Innumerevoli sono gli
episodi che meriterebbero di essere ricordati; ne
accenneremo solo alcuni fra i più fulgidi. Il sottotenente
aviatore Minniti, caduto col suo apparecchio fra le torme
nemiche, viene aggredito da una folla urlante e selvaggia.
Solo, si difende disperatamente, e la sua pistola fa
miracoli. Sopraffatto dal numero, cade infine crivellato di
ferite; la sua testa – staccata dal busto – viene portata in
trofeo dal nemico sino ad Harar. Il tenente colonnello
d’aviazione Olivetti, constatato un guasto irrimediabile al
suo velivolo, fa lanciare nel vuoto, col paracadute, tutti i
suoi compagni di volo, e precipita fra le fiamme, vittima
cosciente e superba di un sentimento del dovere che tocca le
vette più alte e più pure. Il colonnello di Stato Maggiore
Calderoni, in volo di ricognizione verso una zona non ancora
occupata, è costretto ad atterrare presso Lekemti.
Circondato coi suoi cinque compagni, tra cui il valoroso ed
eroico asso dell’aria Antonio Locatelli, da innumerevoli
armati, si difende eroicamente; cadono tutti, immolati dal
furore selvaggio di quella moltitudine barbara.
Così, in sette mesi, si è
conclusa la più grande guerra coloniale che la storia
ricordi. L’annessione dell’Etiopia è il giusto e meritato
compenso alle forze armate e al popolo d’Italia che, per la
miracolosa antiveggenza del Duce, avevano lottato, sofferto
e vinto nel nome augusto di Roma."
NOTE
FONTI
(*)
Documento tratto dall'Enciclopedia "Labor" del ragazzo italiano, S.A. Edizioni Labor,
Milano, 1938 Anno XVI, pag. 27-32