Il piano regolatore di Addis Abeba
L'on. Giuseppe Bottai,
Governatore di Roma, già ardito di guerra, ha partecipato
come volontario all'impresa etiopica coi grado di maggiore
di Fanteria della Divisione Sila, prendendo parte a diverse
azioni. Entrò, il 5 maggio, colla colonna del Maresciallo
Badoglio nella capitale etiopica: in quello stesso giorno il
Governatore di Roma, quasi a ricollegare l'Urbe colla nuova
conquista, veniva nominato Governatore civile di Addis
Abeba. Uno dei principali e più impellenti problemi della
ricostruzione dell'Impero riguarda il piano regolatore di
Addis Abeba, a proposito del quale S. E. Bottai ha dettato
per «L'Illustrazione Italiana» , l'articolo che
segue.
Sette giorni prima di entrare a Addis Abeba,
con la colonna del Comando Superiore A. O., io feci sulla città un volo, che
fu definito, da Cesco Tomaselli, mi pare, "catastale". Era il governatore
civile designato, che andava a dare uno sguardo dall'alto al suo prossimo
dominio. Veduta dalla carlinga d'un aeroplano, una città rivela chiaramente,
a occhi esperti di piani urbanistici, i suoi caratteri fondamentali, i suoi
elementi costitutivi. Poverissima mi apparve quella, intorno a cui, tra
spari e rumore di folla spaurita, volteggiavo quasi a fior di terra. Strade
appena un poco più tracciate e rassodate di quella imperiale, che prendeva
le mosse da Dessiè; pochi gli edifici-centro, gli edifici, cioè intorno ai
quali la vita s'organizza e si disciplina: la Stazione, col rampante Leone
di Giuda dinanzi (a proposito, lo aspettiamo a Roma da un momento all'altro,
questo ex. leone!), il sudicio bailamme del Ghebbi vecchio, congerie di
capannoni e casipole, il nuovo Ghebbi, con la sua pianta rettangolare più
alberghiera, che monumentale, l'ottagono della Chiesa di San Giorgio; e poi,
qua e là, timide apparizioni di nuclei d'abitazioni, di basse caserme
intorno all'Ippodromo. Nel complesso, il sospetto di un'aggregazione urbana
di fortuna, dispersa nel vasto giro dei colli com'un attendamento diventato,
di provvisorio, cronico; la mancanza, quindi, di quel senso di solito, di
costruito, d'ordinato, di lavorato, che, per noi romani (e dico: romani, per
qualificare quella tradizione dell'«Urbs», che è propria degl'italiani in
quanto romani) è il senso stesso della città. Già, Adua, Adigrat, Macallè,
Quoram, Dessiè, mi avevano persuaso dell'incapacità delle genti etiopiche a
comprendere e applicare quei principi politici e sociali d'organizzazione,
che una città rappresenta. Qui, a Addis Abeba, la stessa sommersione
dell'aggregato edilizio nella marea verde degli eucalipti, se poteva dare a
un osservatore in volo la gradevole impressione d'una città-giardino,
denunciava un'impotenza dell'uomo a emergere dalla selvaggia natura, a
piegarla alle sue esigenze.
Quando ritornai ad Addis Abeba, il 5 maggio,
per via di terra, questa volta, ero già persuaso, che per le necessità
funzionali dell'Impero Italiano quella capitale, così com'era, sarebbe stata
tutta da rifare. Una capitale è una cabina di comando, che ha bisogno
assoluto di certi ingranaggi e di certe leve per agire. Quella era un
accampamento in disordine e, quando v'entrammo, devastato. Bisognava,
dunque, ricominciare ab imis fundamentis. Grave inconveniente, sotto
alcuni punti di vista. Ma quale ghiotta occasione per dei costruttori di
città, quali sono gl'italiani del tempo di Mussolini, questa, d'una città,
d'una capitale da rifare da capo, da costruire funzione per funzione, con
nessun altro rispetto che quello dell'utilità e della bellezza! I cortigiani
e le soldatesche del Negus avevano distrutto tutto il distruggibile. Ma ben
misera cosa era questo tutto. Non valeva la pena di rimpiangerlo. Si
trattava, a pensarci su, d'una demolizione, anticipata con metodi barbarici,
ma necessaria.
Subito, i problemi della ricostruzione si
imposero all'attenzione del Comando Superiore e del Governo Civile della
città, che si trovarono, soprattutto, dinnanzi ai pericoli d'una
ricostruzione affrettata e non preordinata. I privati, sia indigeni che
stranieri, europei e non europei, che via via tornavano, e le stesse
autorità militari nostre premevano per metter mano a lavori. Si vide, di
colpo, la mala parata del provvisorio, del posticcio, che si sarebbe
tramutato in definitivo, compromettendo il chiaro disegno della città. Di
qui, il mio primo decreto del 15 maggio, per, la disciplina edilizia, con
cui si sottoponeva a autorizzazione la ricostruzione degli edifici demoliti
e la costruzione di nuovi edifici; di qui, il decreto del Maresciallo
Graziani, del 28 maggio, che vietava l'alienazione di aree fabbricabili, per
sottrarle alla speculazione e garantirne la intera disponibilità per il
piano di ricostruzione; di qui ancora, la ricostituzione e il riordinamento
dell'Ufficio del Catasto, col provvedimento del 31 maggio, e la tutela del
patrimonio arboreo del territorio urbano. Si trattava di fronteggiare
l'arbitraria manomissione della città. E ci si riuscì. Addis Abeba fu
salvata dalla corsa agli affari edilizi.
Un tale scopo non si poteva, naturalmente,
ottenere solo con dei provvedimenti negativi o proibitivi; bisognava
predisporre un piano positivo. Un piano regolatore. Assai prima che si
delineasse la totale conquista dell'Impero etiopico, Roma aveva manifestata
la su volontà di partecipare all'ordinamento dei centri urbani dei territori
già occupati con la sua millenaria esperienza edificatrice. Adua o Macallè,
con le vaste regioni di cui sono a capo, potevano essere suscettibili di
razionali sistemazioni. Gli Uffici Tecnici del Governatorato si offrirono,
spontaneamente, di studiarle e predisporle. Cosicché, quando il giro della
conquista fu intero, il rapporto tra le due capitali era già creato, oltre
che nell'identità personale del Governatore, i una feconda volontà di
collaborazione. E questa ha, ormai, dati i i primi frutti.
Dal primitivo piano di grande massima,
tracciato in base alle poche, incerte, carte, allora esistenti e ai rilievi
fotogrammetrici si è giunti a un piano studiato sul terreno, che ha ancora,
e vuole e deve avere impostazione generale, per consentire quell'elasticità
d'applicazioni particolari che giovano all'interpretazione di caratteri e
bisogni reali delle città. Puntando sugli unici elementi, che avessero,
nella grama struttura urbana, una forma abbastanza definita: la Chiesa di
San Giorgio, cioè, i due Ghebbi, il vecchio e il nuovo, e la via Maconnen,
gli architetti Guidi, Valle e l'ing. Bianchi hanno disegnati gli assi
principali del nuovo schema. Si delineano, infatti, in questo, due
direttrici principali: la prima, nord-sud, sulla strada congiungente due
Ghebbi; la seconda, ortogonale alla prima, partendosi dalla Chiesa di San
Giorgio, allaccia la vecchia città indigena con il nuovo centro, attraverso
il torrente Gamelè. Da una disposizione quasi puramente geometrica, là dove
le due direttrici s'incrociano, il problema del centro ha avuta spontanea e
logica soluzione. Problema, si badi, non solo tecnico, ma politico; ché il
mettere la nuova città e «accanto» all'antica (proprio, carne molti
nostalgici seguitano a rimpiangere, che non si sia fatto a Roma) sarebbe
stato imperdonabile errore e il a «sovrapporla» all'antica un guasto
irreparabile. Si è operato per inserzione; direi quasi, per innesto. Il
nuovo centro, con la piazza del Governo e la torre littoria, con gli edifici
pubblici e i servizi, ponendosi nel cuore stesso dell'antica dominazione ne
afferma la definitiva decadenza. V'è una fisionomia della città, dovuta alla
semplice vita della popolazione e non all'opera della dispersa classe
dirigente, che può e deve essere difesa contro «europeizzazioni» e
artefatti modernismi. Con il piano adottato, che prevede, tra l'altro, la
separazione del quartiere indigeno da quello italiano, la formazione di
distinte zone, industriale, ospitaliera, alberghiera, sportiva, militare,
non s’avrà né cancellazione né confusione di caratteri; piuttosto, una
integrazione, capace di configurare originalmente la nuova Addis Abeba.
L'impresa è di quelle che debbono invogliare
la nostra giovane architettura. La tecnica italiana delle costruzioni ha la
maturità necessaria per superare la prova.
GIUSEPPE BOTTAI
FONTI
(*) L'Illustrazione Italiana, anno LXIII, n. 40, 4 ottobre
1936-XIV, pag. 575-576.

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