Lungo la piana di Littoria e presso il bosco di Sabaudia, nell'autunno del
1935 i baraccamenti degli operai che avevano sudato alla bonifica pontina
erano ancora in piedi. Gli operai se ne erano appena andati verso zone da
bonificare, altri erano partiti per l'Africa a lavorare sulle strade
dell'Eritrea e della Somalia, o volontari per la guerra.
Cinquemila uomini, che arrivavano a scaglioni da tutte le parti del mondo,
occuparono grande parte dì quei baraccamenti, si impossessarono di alcune
fra le bianche, linde, nuove di zecca costruzioni delle due città pontine.
Lavoratori la maggior parte, prendevano immediata coscienza di che cosa era
riuscito a fare, in poco giro d'acori, il lavoro italiano in Patria.
Venivano per fondare l'Impero del Lavoro; si trovavano, di colpo, già nel
proprio elemento.
Portavano con sé tutti i fermenti, tutta l'esperienza della triste e
avventurosa emigrazione del passato: erano, oggi, una strana, meravigliosa,
impressionante emigrazione alla rovescia. E ci si domandava come la gente
che li aveva veduti partire fra tripudi dì canti, sventolare di tricolori,
grida di «evviva Mussolini» dai Paesi che li ospitavano, potesse capire così
poco di quel che stava succedendo in Italia e nel mondo.
Ci si pensa sempre dopo: peccato che io non abbia fatto, per il mio gusto,
un preciso censimento dei mestieri e delle professioni dei miei
duemilacinquecento camerati. Sarebbe curioso e forse istruttivo, oggi. I
dati che più si sanno, su questo «ritorno di fiamma» che fu il contributo
degli Italiani all'Estero alla guerra d'Etiopia, sono questi: oltre
diecimila domande di arruolamento ai Consolati; di esse, cinquemila soltanto
accettate.
A Littoria e a Sabaudia due Legioni vennero organizzate, a cura della
Direzione degli Italiani all'Estero, inquadrate nella Divisione «Tevere».
Una, la prima che doveva partire, la 221a, al comando del Console
Piero Parini, Ministro Plenipotenziario, raccoglieva gli elementi appena
arrivati e scelti e li inquadrava con ufficiali, parecchi dei quali erano
dei diplomatici. La seconda, la 321a, doveva raggiungere la prima
in Africa, al Comando del Console Gangemi, inquadrando gli ultimi
complementi che ancora giungevano dall'estero.
Intanto che si aspettava la partenza, in quei baraccamenti di Littoria e di
Sabaudia ognuno cercava già di mettere a contributo le proprie specifiche
competenze: il meccanico diventava armaiolo, l'uomo di penna scrivano o
furiere; e il musicista, dilettante o professionista, passava alla fanfara.
Mentre i collezionisti di francobolli gironzolavano attorno alle baracche
per rapinare le buste buttate via (mai vista una simile bazza, un
assortimento uguale di timbri e di bolli di tutte le poste del mondo!), i
ranghi e i quadri si completavano, avevano principio le istruzioni e le
marce, arrivavano i muli, le salmerie, le mitragliatrici, si perfezionava
l'attrezzatura delle due Legioni.
Finché, tra scrosci di pioggia e larghi frenetici saluti di uomini donne
bambini di sull'uscio delle case rurali, in un'alba di novembre la 221a
prese il «via» da Sabaudia per Napoli.
Allungheremo lo stivale, sino all'Africa Orientale... Le neonate
canzoni di guerra sul treno speciale, si alternavano con tanghi argentini e
brasiliani, con strofette di «chansonniers» parigini, con melopèe arabe.
Tutti i luoghi del mondo, tutti i ricordi di climi usi e maniere venivano a
contatto, sprizzavano scindile di confronti, proverbi, discussioni.
Qualcuno, si metteva a recuperare alla meglio un pò di italiano. C'erano di
quelli - nati all'estero - che non ne sapevano una parola. Due giovanottoni
di vent'anni, fratelli, venivano da Odessa: si esprimevano a gesti e a
larghi sorrisi di contentezza. Lassù, da quand'erano nati, non doveva
essergli mai capitato di assistere a tanta spontanea e calda allegria
Nelle baracche lungo i campi e le strade presso Littoria, quelli della 321a,
non ancora a punto di organizzazione, pativano le pene dell'innamorato che
vede un fratello arrivar primo presso la bella che tutte due amano.
Anche a bordo del «Piemonte», che salpò da Napoli con un particolare
saluto di bengala, di fanfare e di acclamazioni, dopo un giorno o due di
navigazione vennero a galla le molte abilità dei Legionari. La fanfara sì
sfogava da mane a sera; e intanto l'istruzione alle armi diventava una gara
di bravura. Ingegneri arruolati come semplici Camicie Nere, tracciavano
piani di sfruttamento edilizio dell'Etiopia, di recupero delle acque
sotterranee, studiavano tipi speciali di tucul.
Pescatori siciliani della Tunisia s'informavano se nell'Uebi Scebeli c'erano
anguille, se i coccodrilli del Giuba si pescano meglio con la lenza o la
rete. Un ex impiegato della Banca d'Etiopia,, venuto da Addis Abeba prima
del conflitto, dava lezioni d'amarico anche a chi non le voleva.
E un naturalista, professore non so dove, si diffondeva a raccontare le
virtù medicamentose del sugo di scorpione in amore, estratto sotto la luna
di gennaio.
A un certo punto, ci trovammo ad assistere agli spettacoli di un'intera
perfetta compagnia di varietà; violinisti, tenorini, soprani e baritoni,
ballerine, fachiri, lottatori, illusionisti, sollevatori di pesi. Le navi
britanniche che incrociavano nel Mar Rosso passavano silenziose aggrondate:
ma l'eco dei nostri canti doveva amareggiare il sonno e la digestione dei
loro comandanti. «Questa gente par che vada a nozze, invece che alla
guerra», pensavano di certo.
Poi, quattro mesi di sabbia. Quattro mesi di addestramento duro, di monsoni,
di tormenta in un campo presso l'aeroporto militare, tra dune o spine.
Quattro mesi ad aspettare di poter prender parte alle vittorie che il
bollettino radiofonico della Legione propalava ad ogni alzabandiera. La
Legione sorella, la 321a, era arrivata a sua volta, e si era
accampata, mentre noi eravamo presso la strada per Afgoi, a levante di
Mogadiscio, anch'essa tra dune e spine ma più lungi dal mare. Mancavano le
ruote per partire.
Scambi di visite - dieci chilometri sotto il sole andare, dieci tornare -
tra i parenti dell'una e l'altra Legione; fugaci incontri, col «permesso
fino alle ore 22», a Mogadiscio. Intanto, Graziani vinceva a Neghelli e sul
Daua Parma, preparava l'offensiva, il grosso colpo finale, su Dagabur.
Aspettando la guerra vera, la Legione - il solito gusto del lavoro! -
abbelliva l'accampamento che diventava una sorta di piccola città di
frasche, tavole, teli scoloriti, con strade e tabelle d'indicazione. Il
bollettino radiofonico diventava un quotidiano più ricco di notiziario dei
giornali d'Europa; e i Comandi degli altri reparti se ne disputavano le
copie in cartavelina. Pittori si sfogavano a decorar d'affreschi l'interno
della baracca della mensa ufficiali. Sportivi fondavano squadre di calcio;
un palco per il pugilato raccoglieva, dopo il rancio della sera,
cazzottatori potenti.
E un'orchestrina di prim'ordine faceva il giro dell'accampamento, nei dì di
festa, rallegrava gli ospiti di passaggio con un repertorio di canzoni e
musiche internazionali. Finché le ruote arrivarono.
Arrivò un centinaio di autocarri, donati alla Legione dagli Italiani del
Nordamerica, con due autoambulanze, tutta la attrezzatura di un ospedaletto
da campo, con persino il motore per la luce elettrica e una nuova radio: e
cominciò la gara per poter partire. Perché su quelle cento macchine non
c'era posto per tutti quanti.
Allora, ciascuno tirò fuori la propria specialità. I tiratori scelti, i
mitraglieri perfetti, i lanciafiamme abituati, accamparono i libretti di
tiro e altre benemerenze. I falegnami sfoderarono pialle e seghe, per
attrezzare gli autocarri; e i fabbri martelli e incudini; e gli sterratori
pale e vanghe per crear strade nel campo dove le macchine non
s'insabbiassero. Chi sconosceva il motore a scoppio - o la bicicletta - fece
di tutto per diventare autista.
Giorno e notte, per un bel po' di tempo, il campo sembrò il cantiere,
frettoloso e risonante, di una esposizione universale. Cadeva il tangabil,
cominciavano le pioggie, tutto diventava verde, migliaia di libellule gialle
e grigie battevano le ali contro i vetri dei Petromax.
Solo 1.500 uomini salirono sulla colonna celere che, con una memorabile
corsa senza soste da Mogadiscio a Gabredarre, condusse la Legione ad
ascoltare l'elogio di Graziani e ad inserirsi nella Colonna Frusci, al
centro dello spiegamento che doveva avanzare su Hamanlei, Sassabaneh,
Dagabur, Giggiga, Harrar.
Due giorni dopo, a Birgot, la colonna Frusci prendeva contatto col nemico: e
gli Italiani all'Estero avevano il battesimo del fuoco, davano all'impresa
il loro contributo di sangue... Ma questa è storia, è epopea, che non si può
riassumere in generici appunti di ricordi. L'hanno meglio riassunta i
bollettini di guerra, che tutti ricordano.
Dopo la presa di Hamanlei, di Sassabaneh, a Dagabur, in una sosta di poche
giornate (per entro alle quali fioccarono notizie enormi: fuga del Negus,
entrata di Badoglio in Addis Abeba, liquefazione di Nasibù per la strada di
Gibuti) la Legione Parini montò la guardia al Quartier Generale. Poi,
sminuita ancora di qualche elemento meno celere, si avventò con la colonna
Navarra alla presa di Giggiga e di Harrar e, infine, di Diredaua: tutto di
corsa, senza mai sostare, senza dormire, centinaia e centinaia di chilometri
in pianura e in montagna, varcando fiumi in piena.
A Diredaua, che qualche reparto di Senegalesi difendeva alla meglio dalle
orde abissine in fuga e dalla popolazione indigena in fermento, la Legione
giunse in tempo a salvare la pelle alla colonia straniera.
Immediatamente, il gusto del lavoro, d'intraprendenza degli Italiani
all'Estero pose mano a trasformare la città, della quale Piero Panini aveva
assunto il governo civile. Tutti i mestieri, tutte le professioni si misero
a contributo. Nell'operare tranquillo e svelto di quella gente si vedeva
chiara l'abitudine a darsi d'attorno dovunque e comunque: si vedeva che
orari venuti per lavorare.
Non c'era bisogno di comandi, di fare inchieste attraverso i furieri: le
iniziative fioccavano, sì da doverle frenare. È mentre il servizio guerresco
di rastrellamento, o di polizia, proseguiva e qualche fucilata risuonava qua
e là, la città venne, rovesciata, ripulita, rimessa a nuovo come un vestito
usato.
In una settimana vennero fondate due scuole: insegnanti, dei Legionari. Si
fondarono ospedali e dispensari e ambulatori, col materiale donato dai
compatrioti del Nordamerica: medici, infermieri, farmacisti, dei Legionari.
Alla Municipalità, un Console Generale degli Esteri, vestito da sergente,
prese nelle mani lo sviluppo degli affari civili: e nacque un corpo di
vigili indigeni, si cominciarono i censimenti commerciali e umani; si mise
un presidio tecnico alla centrale elettrica che prima funzionava poco e
male; si avviarono gli studi per costruzione di un nuovo acquedotto; si
controllarono i prezzi al minuto.
Altri Legionari arredavano con gusto una «Casa del Legionario», con sale di
scrittura, sale per conferenze, sale per giuochi, teatrino: e con uno
spaccio per i militari residenti e di passaggio. Infine, si fondava un
giornale: un giornale in tre lingue, destinato agli italiani, alla colonia
straniera, e soprattutto all'elemento musulmano: stenografi, redattori,
tipografi: dei Legionari.
Mentre avveniva tutto ciò, a celeri tappe la Legione sorella, la 321a,
con tutta la Divisione «Tevere» attraversava l'Ogaden, si avvicina a
Diredaua. Una sua compagnia aveva già partecipato alla presa di Moyale, sul
confine del Kenia.
Appena sistemata la città, la Legione Parini veniva chiamata da Graziani ad
Addis Abeba, in servizio civile e militare; e la 321a, che doveva
raggiungerla nella capitale, aveva la sorte di combattere sulla linea
ferroviaria attaccata dai briganti...
E venne la smobilitazione; ma parecchi Legionari rimasero «in situ». E ora
sono là, meglio che a casa loro: chi fa il tipografo, il meccanico,
l'ufficiale postale, il ferroviere, a Diredaua. Chi, ad Addis Abeba o a
Dessiè, fa lo stenografo, l'oste, il direttore dei telefoni, l'impresario
dei trasporti: e chi lavora sulle strade ad Assab, e chi fa l'ingegnere e
chi l'impiegato municipale o civile.
Essi non sono che l'avanguardia di tanti altri Italiani all'Estero. Si
calcola che il sessanta per cento dei Legionari torneranno in Africa
Orientale. E nel programma di colonizzazione, agli Italiani all'Estero,
combattenti o no, è riservata una forte percentuale di posti.
Cerchino altrove, gli stranieri! Dal 9 maggio del 1936 in avanti, il lavoro
delle braccia e dei cervelli italiani frutterà ricchezza solo in terre
definitivamente italiane, a genti assolutamente italiane.
ADRIANO GRANDE