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Armati d'Etiopia

 

 

 

Sguardi in campo abissino.

 

Mentre le nostre truppe, suonata la diana, sono balzate avanti come un sol uomo verso il cuore dell'Etiopia, rovesciando dinanzi a se ogni resistenza, superando vittoriosamente ogni ostacolo, pare opportuno rispondere a due punti interrogativi che molto di noi, abituato a misurar le cose altrui col metro della nostra razza e della nostra mentalità ben altrimenti evolute, si pongono più d'una volta.

Quanti sono in realtà, gli armati del Negus? E, militarmente parlando, quale forza effettiva rappresentano essi e di quale sforzo possono essere ritenuti capaci?

Quanti sono, è mal valutabile, trattandosi di uno Stato per il quale mancano dati sicuri financo nei riguardi della sua popolazione: e ciò indica subito il grado di civiltà cui esso e giunto. Censimenti veri e propri, non ne sono mai stati fatti; e solo da computi largamente approssimativi, è lecito presumere che gli abitanti oscillino tra i dieci e i dodici milioni. Partendo da tale base, gli uomini mobilitabili, e cioè atti a portare le armi, potrebbero ascendere forse ad oltre un milione. Ma sono appunto le armi che fanno difetto, perché non pare che l'Etiopia disponga di un quantitativo superiore ai 500-600 mila tra fucilo e moschetti. E'  da ritenere, dunque, che i combattenti veri e propri posano raggiungere, al massimo, i 500-600 mila e che gli altri, armati di sole armi bianche (sciabole, lance, coltelli ecc.), debbano costituire, nel caso di una leva in massa, una specie di riserva umana, destinata a colmare i vuoti e, più probabilmente, a provvedere alla raccolta e al trasporto di viveri, munizioni, ecc.

Da rilevare che appena un quarto o un quinto dei combattenti è costituito dagli uomini permanentemente in servizio presso il Negus e i ras, ed è dotato di armamento sufficientemente moderno. I rimanenti possiedono il più svariato campionario di fucili, moschetti, carabine, doppiette e archibugi che si possa immaginare: roba di ogni età e di ogni provenienza, che compiacenti regali, commerci clandestini e innumerevoli atti di banditismo e di rapina hanno convogliato da oltre un secolo sull'altopiano.

Un cenno a parte merita la Guardia imperiale - originariamente un nucleo di 3000 tra fanti, artiglieri e cavalieri, oggi sicuramente almeno raddoppiato - che si differenzia dal resto per avere armamento ed equipaggiamento simile a quello degli eserciti europei e per disporre della quasi totalità delle mitragliatrici e dei cannoni esistenti: si parla di forse un migliaio delle prime e di qualche centinaio dei secondi.

In definitiva ciò che l'Etiopia potrebbe, al massimo, mettere in campo non dovrebbe discostarsi molto da ciò che abbiamo cercato di sintetizzare nel grafico:

 

 

A interpretare esattamente questi dati, giova però ricordare che gli uomini e le armi non bastano: bisogna alimentare di continuo gli uni e le altre. E quando si tratti di masse ingenti come le abissine e di armi divoratrici di cartucce come le moderne, il problema diventa inquietante, soprattutto per uno Stato che in fatto di disponibilità di viveri e di munizioni, di vie e di mezzi di, comunicazione, di capacità e di possibilità organizzative è ancora ai primordi. Ora, per quanto si sappia, di grossi depositi da tempo preparati dal Negus - segno indubbia anche questo della sua premeditata volontà di aggressione - par dubbio pensare che essi possano essere sufficienti a mantenere in efficienza per una guerra guerreggiata in grande stile, centinaia di migliaia di uomini. A proposito di munizioni, v'è, in realtà, una fabbrica impiantata sin dal 1908 ad Addis Abeba; ma non è certo da sola che essa potrà produrre il quantitativo di cartucce pari al fabbisogno, né provvedere adeguatamente alle riparazioni e alle sostituzioni delle armi in genere e delle armi automatiche in ispecie.

E adesso veniamo alle altre domande. Quali forze effettive rappresentano oggi gli armati del Negus e di quale sforzo possono essere ritenuti capaci'?...

Intanto per giudicare le cose secondo realtà, occorre sgombrare il campo da due pregiudizi correnti. Non bisogna ritenere che gli abissini costituiscano un esercito organizzato quale l'intendiamo noi eccezione fatta per la Guardia imperiale, non esiste uniformità di vestiario, né equipaggiamento né, come abbiamo visto, tanto meno di armamento; non vi ha traccia di una ripartizione permanente della massa in grandi unità; non v'è alcuna stabile assegnazione dei gregari ad armi e specialità diverse.

Ma essi non sono neppure quell'accozzaglia caotica che altri vorrebbe: turba senza capo né forma né meta, pronta a scagliarsi a testa bassa e alla cieca contro chiunque, avida solo di uccidere e di predare.

In media stat virtus e, come spesso accade, anche la verità: non si tratta di turba e nemmeno di un organismo militare paragonabile ai nostri, ma piuttosto di una via di mezzo tra l'una e l'altra: meglio ancora, di un esercito rimasto nella sua struttura e nella sua mentalità feudale, a dispetto del suo armamento parzialmente moderno, e che e tipica espressione di una società rimasta anch'essa feudale, e cioè in arretrato di un migliaio di anni nei confronti della nostra, a dispetto dei disperati tentativi di esaltazione e di riabilitazione fatti dai suoi interessati zelatori d'Occidente.

Di questi anacronismi l'Africa sola può essere rapace, in pieno secolo XXI.

Ciò premesso, vediamo di individuare i punti di forza e di debolezza delle truppe del Negus, in relazione agli avvenimenti odierni.

Le qualità innate del combattente - tradizionale coraggio, sobrietà eccezionale, formidabile resistenza alle marce - e la quantità della massa sono indubbi elementi di forza, soprattutto quando vengono opportunamente valorizzati. Ora questa valorizzazione da parte del nemico non dovrebbe mancare, ove si tenga conto dell'opera di attiva propaganda svolta da mesi contro di noi sin nei più lontani centri dell'impero, dell'azione di emissari e di avventurieri piovuti da ogni parte del globo alla corte dei Negus, del contrabbando che su vasta scala verrà indubbiamente organizzato a favore dell'Abissinia da talune regioni finitime.

Maggiore valorizzazione alle innate qualità r degli Etiopi arrecherà il fatto di combattere in clima c sono avvezzi, su terreni noti, senza eccessivi pesi li im-pedimenta logistiche, senza preoccupazioni per i territori che fossero costretti ad abbandonare, giacché per i popoli primitivi il concetto di spazio, come d'altronde quello di tempo. assume valore sensibilmente inferiore a quello che siamo obbligati ed attribuirvi

Per contro, accanto a questi coefficienti do furia, l'esercito del Negus ne presenta altri, e non certo trascurabili, di debolezza.

Innanzi tutto. la poca disciplina, speso fonte di disordine nelle file dei g e di discordie ira contingenti dei vari Ras, quando nate non s risolva in aperte, ribellione di questi al Negus. Si aggiunga a ci;, e alla :;ce,,-

La disponibilità di mezzi bellici che_ possano stare alla pari; con quelli degli eserciti europei e alla quale abbiamo accennato, la quasi nessuna pratica della guerra moderna.

L'esperienza ultima fatta dogli Abissini contro organismi militari degni di tal nome sale a circa quarant'anni addietro; e quarant'anni sono molti, son troppi, soprattutto quando durante il loro corso i mezzi di lotta hanno subito l'incremento vertiginoso di mero e di potenza che si e verificato dal 1914 .in poi. Ma vi ha di più. Se l'Abissino, io quanto uomo, e per sua matura insoffe-rente ai lunghi sforzi e incline a scoraggiarsi ed : sbandarsi davanti alle prime gravi difficoltà, quale tara il comporta-mento dell'Abissinia, io quanto Stato, allorché caduto il miraggio delle facili illusioni e rivelatesi fallaci gran parte delle promesse di aiuti, c-, si troverà molto probabilmente a dover fronteggiare d, soIa la situazione?

Questo è il punto.

Una guerra moderna, sia pur condotta sul suolo e sotto il cielo africano, presuppone u capacità di azione e dì rei - ne di primo ordine. Non si tratta soltanto di opporre armi, animi ad -- non animi tanto di far affidamento sul la forza materiale, quanto sulle forze morali, per vincere. Quella materiale si può acquistar, da un anno all'altro: l'altra e un'eredità di secoli. e contrassegno divino della civiltà, e simbolo eterno della stirpe, che non si dà e non si prende a pagamento, come una qualsiasi merce di contrabbando.

Ora sembra arduo immaginare che , Stato, la cui base è poggiata sull'esoso sfruttamento di un urico popolo dominante sopra molti soggetti, in cui vigono ancora co.starei sorpassati da circa un millennio, schiavitù regna s retto da ordina, mento feudale che è indice irrefutabile di disordini, e di disgregazione, che, ha dimostrato, si, di saper sostenere sforzo di notevole entità, ma limitati i cl tempo e agevolati da un concorso straordinariamente favorevole di circostanze che difficilmente si ripeteranno - sembra arduo maginare, ripetiamo, che uno Stato siffatto trovi in stesso la forza morale sufficiente per reggere oltre un certo limite alla prova durissima che lo aspetta.

E arduo è essenzialmente perché di fronte ad c erge in piedi, con tutta la forza e la fede dei suoi vivi -dei suoi morti, con la ferrea volontà di riscattare il passato e di forgiarsi l'avvenire, con il suo spirito di decisione che non indietreggerà dinanzi a ne un ostacolo perché sa di poterli tutti superare e che non si risparmierà nessun sacrificio perché a tutti e preparata, l'Italia di Vittorio Veneto e della .,.,ci, su Roma. Tra un decrepito anacronistico organismo ancoralo disperatamente al tenebrose dei tempi andati, ritto tuttora in piedi solo perché è tornato corrodo alle potenze europee mantenervelo per tanto tempo, paragonabile a una facciata verniciata in bianco ma dietro la quale e tutto mera, e la prorompente giovinezza del nostro Paese, che al suo passato glorioso si riallaccia solo al fine di trarne incitamento per il futuro, e che si prepara a percorrere sino in fondo la sua strada, dubbio non è possibile.

Quella che un tempo il poeta chiamava la grande proletaria e che oggi e la n e più fresca di idealità c do energie che vanti il inondo, mossa. E nessuno potrà fermarla. sino ai giorno in cui vecchi e nuovi conto non saranno regolati per sempre.

GIACOMO ZANUSSI

 

 

FONTI

(*) L'Illustrazione Italiana, anno LXIII, n. 40, 4 ottobre 1936-XIV, pag. 575-576.



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