Sintesi politico-militare della guerra
Al momento in cui il Governo italiano, dopo quaranta
anni di provocazioni etiopiche, decideva di agire con le armi, i termini del
problema della guerra in Etiopia, obiettivamente esaminati, si presentavano
nel modo che sinteticamente andremo esponendo.
L'Etiopia non è una nazione ma un mosaico di nazionalità che vanno per
gradazioni dal nero al semita bruno o rossastro. Al centro del territorio è
la massa dei conquistatori Amara; attorno - tranne sulla frontiera eritrea -
il cerchio dei popoli soggetti, comprendenti più che la metà della
popolazione totale. Queste popolazioni, sottomesse dal 1887 al 1899 e cioè
da breve tempo, sono state trattate all'abissina e cioè per la maggior parte
ridotte in schiavitù. Il cosidetto «stato etiopico» non è dunque omogeneo: è
vero che in quasi tutte le provincie sottomesse esistono delle vere colonie
amara, le quali vi hanno importato la lingua e talvolta imposto la religione
copta, ma innegabilmente esistono tuttora delle screpolature assai
importanti appena mascherate dalla paura e pronte di tramutarsi in lesioni
alla prima scossa violenta. Indipendentemente da ciò. occorre tener presente
che il valore bellico della popolazione, appunto per le stesse cause, non è
omogeneo: i popoli sottomessi hanno generalmente un valore guerriero
inferiore agli Amara.
La struttura sociale della stessa razza dominante. l'Amara, struttura
tipicamente feudale, è atta a favorire le tendenze centrifughe e
disgregatrici. In un esercito di contingenti feudali, le cose possono
reggere finché si riportano successi, ma, nel caso contrario, sono gli
interessi particolari che predominano: ognuno cerca di provvedere per sé e
di trarsi fuori dal raggio del disastro. Ciò è vero non tanto per i grandi
capi, troppo compromessi, quanto per i capi dei minori contingenti: la
storia mostra costantemente che ad ogni grave sconfitta etiopica è seguito
il dissolvimento dell'esercito.
I caratteri razziali dei combattenti etiopici si riflettono ampiamente sulla
condotta della guerra e dei combattimenti. Per quanto armato modernamente,
l'etiopico resta sempre, in sostanza, un barbaro ed è portato dall'istinto
irresistibile alla eterna tattica barbarica: l'attacco falangitico. Questa
tattica è stata sempre seguita nelle lotte interne che hanno insanguinato
costantemente la Etiopia, ma contro un avversario europeo armato
modernamente, il sistema falangitico (nonostante conservi adepti sotto le
più svariate forme anche in Europa! non può portare che al disastro,
all'ecatombe davanti agli sbarramenti di fuoco rapido e radente dei
difensore.
I precedenti storici dimostrano che, se il suo attacco furioso e falangitico
non riesce, l'abissino si scoraggia e si sbanda. Questo sbandamento non è
transitorio ma prelude al dissolvimento di tutto l'esercito di cui già si è
detto. Solo la continua presenza e la stretta vigilanza di ufficiali europei
può attenuare in parte questi caratteri negativi.
Per il complesso dei caratteri sociali e militari suddetti, l'abissino è
inadatto alla guerriglia: feudalismo e mancanza di tenacia e di spirito di
iniziativa non si conciliano con le dure esigenze di quel genere di lotta.
L'abissino è insomma, individualmente, un guerriero valoroso e sprezzante al
maggior grado del pericolo: esso cerca direttamente la battaglia corta,
violenta e decisiva. E' però un combattente barbaro e perciò sprezza e
ignora l'arte tattica alla quale la complessità delle armi moderne offre
innumerevoli combinazioni ed inoltre, mentre è pronto a sacrificarsi in un
assalto furibondo, è facile a perdersi d'animo in caso di insuccesso e a
darsi a una non meno rapida fuga. Infine, le esigenze dell'agricoltura e
l'incostanza del suo carattere escludono che egli sia capace di quelle
lunghe, tenaci resistenze che onorano un popolo: non vi è esempio di un
grande esercito abissino che abbia tenuta la campagna per più di una
stagione asciutta.
Infine, quanto al numero degli armati mobilitabili, esso teoricamente
potrebbe essere ingente, ma in pratica è limitato dal numero di armi moderne
disponibili e relativo munizionamento e dalle gravissime difficoltà di
vettovagliare grandi masse in un paese senza comunicazioni. In conclusione,
calcolando prudentemente, si potevano al principio del 1935 stimare le forze
etiopiche in 250 mila uomini armati di fucile moderno e sufficientemente
munizionati; essi possedevano qualche diecina di mitragliatrici e qualche
cannone.
Delineate così le condizioni generali politico-militari dell'avversario,
quale sarebbe stata la sua più probabile condotta di guerra davanti ad un
attacco italiano?
Considerando l'insieme dei punti deboli etiopici che abbiamo elencato ed
altri elementi, quale la necessità di guadagnare tempo per favorire
l'afflusso delle armi vendute dall'Europa, per compiere la radunata degli
armati provenienti dalle lontane regioni etiopiche ed anche per permettere
alle forze diplomatiche amiche di agire tempestivamente in Europa, risultava
chiaro che la condotta più razionale da adottare dal Negus era di attuare
una difensiva strategica in grande profondità. Convergevano al medesimo
risultato altri elementi riguardanti l'attaccante e cioè le difficoltà di
avanzata in un terreno montuoso e povero al nord, vastissimo e privo di
appoggio ai fianchi al sud. Questi elementi ritardatori moltiplicavano le
difficoltà crescenti che trova ogni attacco strategico per cui è fatale che
esso si esaurisca avanzando.
La profondità della difensiva strategica era tuttavia limitata da un
elemento politico : la fragilità del conglomerato etiopico. L'attacco
doveva, insemina, venir arrestato prima che, essendo penetrato troppo a
fondo, producesse la demoralizzazione e quindi la disgregazione del potere
del Negus. Se si esamina una carta dell'Etiopia si vede che tale punto
culminante viene a trovarsi presso a poco nel circo montagnoso che circonda
a sud il Lago Ascianghi.
A 200 km. circa dal confine eritreo, il Negus doveva quindi cercare la
decisione con una controffensiva tattica.
Veniamo al campo italiano e consideriamo il problema all'inverso. Si
trattava di trasportare a 200 km. dal confine eritreo una tale massa di
truppe che potesse sicuramente schiacciare i 200 mila uomini che il Negus,
conducendo la guerra razionalmente, avrebbe potuto opporci in quel punto,
pur lasciandone almeno 50 mila sul teatro di operazioni secondario della
Somalia. Il trasferimento operativo di un adeguato numero di divisioni
doveva avvenire nel minor tempo possibile, sia perché altrimenti l'attacco
avrebbe perduto di efficacia, sia e più ancora perché era indispensabile per
l'Italia, date le condizioni generali in Europa, risolvere militarmente la
situazione etiopica entro una sola stagione asciutta e cioè in otto mesi
circa di operazioni.
Il problema era risolvibile a condizione che i servizi del Corpo di
operazioni venissero assicurati dalla immediata costruzione a tergo di esso
di una adeguata rete stradale atta a permettere il traffico automobilistico.
La massa di truppe da trasferire operativamente era infatti ingentissima ed
inoltre non poteva essere composta di sole truppe indigene, non solo per
evidenti ragioni morali, ma anche perché di truppe indigene l'Italia non ne
aveva in numero adeguato. Donde l'immensità del problema dei trasporti e la
necessità che l'esercito dei combattenti venisse fiancheggiato
immediatamente da un esercito di lavoratori. In sostanza era lo stesso
problema che si era imposto al gen. Robert Napier nella sua marcia su
Magdalà nel 1868: soltanto, esso si presentava con termini centuplicati.
Riassumendo, il progetto italiano non poteva essere che questo: costituita
una adeguata base di operazioni nell'Eritrea e nel Tigrai. portare da essa
un attacco strategico di annientamento da nord a sud verso il cuore
dell'Etiopia, cercando la decisione, che si sarebbe trovata quasi certamente
a 200 km. circa dal confine. Su! fronte secondario della Somalia, svolgere
una difensiva strategica attiva, mirando ad attrarre ivi il maggior numero
di forze avversarie e sottraendole così al teatro di operazioni principale.
Il periodo di comando del Generale De Bono (gennaio-novembre 1935)
Lasciando il Ministero delle Colonie per assumere la carica di Alto
Commissario per l'A.O., il gen. De Bono aveva già potuto rendersi conto
meglio di ogni altro, dall'incidente di Ual Ual e dai relativi precedenti,
come non fosse più possibile continuare la politica amichevole, anzi
magnanima, seguita fino allora dall'Italia nei riguardi del Negus.
Bisognava dunque predisporre ogni cosa per una grande campagna sui fronti
dell'Eritrea e della Somalia che entrava nell'orbita delle probabilità
immediate. Ma appunto per l'indirizzo non aggressivo della nostra politica
etiopica e, in ultimo, per non fornire esca a pretesti, le nostre Colonie in
A.O., se erano attrezzate per la difesa locale, non lo erano affatto per le
grandiose operazioni offensive che si prospettavano, specie in Eritrea. La
rete stradale che abbiamo precedentemente intravista, partente dai confini
eritrei per circa 200 km. verso il sud. occorreva iniziarla dalle banchine
di Massaua. Più ancora, bisognava ampliare le banchine stesse per renderle
atte allo scarico degli uomini e sopratutto dei materiali innumerevoli e
delle derrate sterminate occorrenti al gran Corpo di spedizione in via di
graduale mobilitazione.
Sopratutto grave era appunto la deficienza della base marittima di Massaua.
non attrezzata per le esigenze di una grossa spedizione e nemmeno pei
bisogni delle truppe che andavano gradatamente addensandosi sull'Altipiano
con la mobilitazione e la radunata eritrea e con l'arrivo delle prime truppe
d'Italia. Si scontava la impreveggenza dei governi prefascisti, i quali
avrebbero potuto - ad esempio nel 1912 quando il terremoto distrusse Massaua
- creare un porto ben attrezzato per gli imbarchi e gli sbarchi almeno come
Porto Sudan.
Urgeva poi il problema gravissimo della salita del ripido ciglione
dell'altipiano: portare uomini e materiali da quota zero a quota duemila,
avendo disponibili inizialmente solo una ferrovia giocattolo senza alcun
valore logistico e una strada stretta e difficile di montagna, senza
possibilità di attuarvi una doppia corrente di traffico automobilistico.
Anche qui, pochi milioni spesi a tempo debito avrebbero potuto risparmiarne
molti che si dovettero spendere rapidamente.
Nell'estate vi furono momenti di vera crisi. Ma l'Alto Commissario fece
fronte a tutto con animo imperturbato e mantenne l'assoluta certezza della
riuscita, anche quando molti dubitavano. Ed occorreva invero una ben solida
fede per intraprendere, nell'imminenza di una guerra, l'immane lavoro
dell'attrezzamento ex-novo di una Colonia cominciando dalle fondamenta. Il
gen. De Bono, vecchio soldato, ma animato da fervore più che giovanile,
volle rendersi conto personalmente di tutto ed assumersi personalmente ogni
responsabilità di decisione, e per questo e per la costantissima fiducia la
sua opera deve essere adeguatamente rammentata ed esaltata. Immenso e
multiforme fu il lavoro: dal porto alle strade, dai grandi stabilimenti di
seconda linea a quelli di prima linea ed ai magazzini avanzati, dalle
provvidenze per la Marina agli enormi impianti per l'Aviazione. L'opera andò
mano a mano sistemandosi, pur mantenendo un ritmo rapidissimo. Fu creata
così una solida base strategica, logistica e politica per le imminenti
necessità: adesso, tutto può apparire facile a chi guardi le cose
superficialmente, ma allora non si pensava così. Le ulteriori brillanti
operazioni che posero il suggello alla campagna di Etiopia hanno, per il
grosso pubblico, lasciato nell'ombra l'ansioso e febbrile periodo
preparatorio, ma la storia imparziale deve riconoscere che sènza quella
oscura preparazione, le ampie operazioni susseguite non avrebbero potuto
svolgersi. Non vi è dunque alcuna contrapposizione fra il periodo di comando
dell'Alto Commissario De Bono e quello dell'Alto Commissario Badoglio: vi è
invece continuità perfetta ed organica compenetrazione.
Un altro merito eminente del Maresciallo De Bono è stato di essersi sempre
perfettamente reso conto delle necessità politiche e diplomatiche che
dominavano la situazione e inspiravano gli ordini del Duce: la guerra non è
una cosa autonoma ma bensì la continuazione della politica con altri mezzi;
dunque essa deve cercare comunque di adeguarsi alle esigenze della politica
che ne è la mente direttrice. Ed è perciò che il generale De Bono ha sempre,
ad ogni richiesta, risposto «sta bene» senza «se»
e senza «ma» che
valessero a sminuire la sua responsabilità.
Il 3 ottobre, e cioè al momento voluto dalla direzione politica dello Stato,
Egli passava la frontiera senza aver ancora - nonostante il frenetico lavoro
compiuto da tutti - le Grandi Unità in ordine completo: non importa, il
carico si aggiusterà in cammino. L'avversario, come prevedevasi, ripiegava
mantenendo un leggero contatto. Ecco spostarsi avanti il gigantesco congegno
delle basi e allungarsi i nastri delle sedi stradali.
Dal 3 al 9 novembre, un nuovo balzo in avanti portava le nostre Divisioni a
stendersi in un grande arco proteso a sud e ad ovest verso l'avversario,
dallo Scirè alle alture a sud di Macallè. Questo è il vero schieramento da
cui si parte per la campagna nell'Etiopia settentrionale.
Sul fronte somalo, fin dalle prime operazioni il gen. Graziani assumeva un
contegno brillantemente aggressivo. Assicurato alle nostre truppe il corso
del medio Scebeli con le località di Dagnerei e Callafò (20 ottobre), le
colonne si spingevano nella valle del Fafan: un magistrale impiego
dell'aviazione schiacciava gli abissini che occupavano il campo trincerato
di Gorrahei, il quale veniva preso il 7 novembre e diveniva una delle basi
principali per le ulteriori operazioni.
Una audace puntata giungeva a sud di Sassabaneh nei
pressi di Hamanlei (11 novembre). La minaccia su Harar cominciava ad
attrarre verso. il fronte somalo ingenti forze etiopiche.
Frattanto, la Lega delle Nazioni, che ci aveva dichiarato fin dai primi di
ottobre stato «aggressore», faceva entrare in vigore le sanzioni economiche
e finanziarie rapidamente escogitate e decise (18 novembre). Si
intensificava il rifornimento all'Etiopia di armi, specialmente da parte
inglese, cecoslovacca e belga, mentre i «consiglieri» britannici si
moltiplicavano alla Corte del Negus e presso i Comandi etiopici.
Non è compito di questo scritto esporre le cause che portarono la Gran
Bretagna e, per istigazione di questa, la Lega delle Nazioni, a schierarsi
contro l'Italia nella questione etiopica: tuttavia la campagna risulta
incomprensibile se non si tiene conto dell'ambiente generale politico in cui
si svolse: dobbiamo dunque citarne gli elementi più cospicui.
La creazione dell'attrezzamento logistico, il trasporto del grosso del Corpo
di spedizione sui due fronti, lo schieramento di base per la campagna sia
nel Tigrai (Macallè) che in Somalia (Gorrahei), l'inizio del sanzionismo,
sono i quattro avvenimenti che caratterizzano il periodo di comando
dell'Alto Commissario generale De Bono.
Il periodo di comando del Maresciallo Badoglio
Prima fase: il contrattacco anglo-etiopico.
Alla fine di novembre il Maresciallo Badoglio assume il comando in Africa:
da questo momento comincia il vero periodo operativo nella lotta su due
fronti intrapresa dall'Italia contro Ginevra e contro Addis Abeba.
Il Maresciallo Badoglio chiede di rinforzare il Corpo di spedizione; la
mobilitazione indigena aveva fornito all'Eritrea un magnifico Corpo d'Armata
su 28 battaglioni, e reparti equivalenti ad una grossa Divisione in Somalia
(arabo-somali e primi reparti libici); il 5 febbraio era stata iniziata la
mobilitazione e subito dopo si era provveduto al trasporto delle Divisioni
Gavinana in Eritrea e Peloritana in Somalia; più tardi, alla prima si erano
aggiunte le Divisioni Sabauda, Gran Sasso, Sila, due Gruppi di battaglioni
CC.NN. e poi le Divisioni CC.NN. di nuova e geniale ideazione 23 Marzo, 28
Ottobre, 21 Aprile, 3 Gennaio e 1 Febbraio. Dopo un intenso periodo di
addestramento e di selezione della durata di circa tre mesi, queste
Divisioni erano state gradualmente trasportate in Eritrea a fianco di quelle
dell'Esercito.
Ora partivano per l'Eritrea due Divisioni di riserva già pronte e inviate in
allenamento in Cirenaica, la Assietta e la Cosseria e, inoltre, la Divisione
alpina Val Pusteria. Per la Somalia si costituiva infine e si inviava
dall'Italia la Divisione Tevere reclutata con italiani residenti all'estero
volontari, con mutilati e combattenti della grande guerra e con studenti di
tutti gli Atenei d'Italia, e dalla Libia si spediva la divisione indigena
Libia. Contemporaneamente, uno sviluppo grandioso veniva dato all'aviazione,
con l'invio negli aeroporti già approntati, di apparecchi moderni numerosi e
potenti.
Oltre 60 mila operai volontari - che dovevano poi salire a circa 100 mila -
fiancheggiavano le truppe, costituendo quell'esercito di lavoratori al quale
si è già accennato.
Questa fase della lotta è dunque caratterizzata da un atteggiamento italiano
difensivo in Africa, indispensabile per sistemare vie di comunicazioni e
mezzi logistici sulle basi avanzate di partenza e per attendere i nuovi
rinforzi stimati necessari all'ulteriore avanzata: a tale atteggiamento
risponde da parte etiopica un doppio tentativo di offensiva, tanto sul
fronte somalo che su quello tigrino. Parallelamente, l'Italia si organizza
difensivamente e controffensivamente di fronte alle sanzioni.
Nei primi giorni di dicembre, un serio tentativo di soluzione pacifica viene
compiuto dai governi britannico e francese con le proposte cosidette
Laval-Hoare, comunicate all'Italia l'I! dicembre. Ma prima ancora che il
governo di Roma possa esaminarle, i gruppi intransigenti inglesi con a capo
il ministro Eden inscenano un artificioso movimento di opinione pubblica,
forzano la mano al governo Baldwin e gli impongono di sconfessare davanti al
Parlamento le sue stesse proposte. Il ministro degli Esteri Hoare si dimette
e Eden afferra quel portafogli.
Il 21 gennaio 1936 si spegne il Re Giorgio V e gli succede Edoardo VIII; il
23 gennaio il Gabinetto francese Laval, autore degli accordi coloniali con
l'Italia del 7 gennaio 1935, è fatto cadere a mezzo di una crisi
extraparlamentare: gli succede il gabinetto Sarraut con Flandin agli Esteri:
questa sostituzione, generalmente interpretata in senso sfavorevole
all'Italia, avviene sotto la duplice pressione di Londra e di Mosca.
Comincia a profilarsi la possibilità di un aggravamento di sanzioni nei
riguardi del petrolio, metalli e carbone. Il presidente americano Roosevelt.
spinto dalla immensa propaganda britannica, pronuncia il 6 gennaio un
discorso piuttosto sfavorevole alla causa italiana, che fa sperare ai
sanzionisti delle modificazioni alla Legge di neutralità nel senso di far
associar loro, in pratica, anche l'America. I solenni funerali di Re Giorgio
a Londra danno occasione a vari incontri politici: sotto la dirczione dei
Sovieti e della Cecoslovacchia si tenia perfino di abbozzare una
sistemazione danubiana senza l'Italia, e cioè contro l'Italia, per staccare
da essa i due fedeli alleati, Austria ed Ungheria. La duplice
anglo-sovietica con la debole acquiescenza francese, vorrebbe considerare
Roma oramai bandita dal tavolo diplomatico. Londra chiede ed ottiene, come
già dalla Francia, Grecia, Turchia e Jugoslavia la promessa di appoggio
militare a nome del mito leghista, in caso di «aggressione» italiana nel
Mediterraneo, ove già la sua (lotta, inviala in atteggiamento minaccioso
alla fine di settembre, è rimasta senza basi, campata in mare in una
situazione pericolosa.
In questo periodo dunque (metà dicembre-metà gennaio) gli anti-italiani e
gli antifascisti di tulio il mondo toccano il culmine delle speranze: in
Europa l'Italia sarà paralizzala e in Africa la controffensiva abissina
sostenuta dalle nuove armi inviate e consigliata dall'«Intelligence Service»
scaccierà l'«aggressore». Infatti, per nostra fortuna, sotto la pressione
dei ras incoscienti e presuntuosi e dei consiglieri europei, il Negus decide
di abbandonare la difensiva strategica in grande profondità che logicamente
aveva - sembra - adottato inizialmente, e di procedere subito al
contrattacco: questo decisione militarmente assurda, che sarà causa della
completa rovina etiopica, non si può spiegare in altro modo.
Ora si comincia a combattere davvero, e anzitutto sul fronte somalo.
Dopo l'audace e vittoriosa puntala a nord compiuta dalle truppe del gen.
Graziani nel mese di novembre e ai primi di dicembre sull'asse della valle
del Faf, che sembrò preludiare ad una ulteriore avanzata in direzione di
Sassabaneh, il comando etiopico, preoccupato di tale mossa che minaccia di
trasformare in fronte principale quello somalo (in quanto verrebbe
minacciata la ferrovia dell'Harar, unica via di comunicazione coi
sanzionisti) decide di contromanovrare e puntare verso le basi della nostra
colonia partendo dall'estremità occidentale di essa. Manovra di evidente
ispirazione europea.
Viene radunato, con contingenti traiti in maggioranza dalle provincie
meridionali, un esercito di circa 30 mila uomini a) comanda del ras Desta
Damtù, con il compilo di avanzare dalla base di Neghelli per Dolo e Baidoa
verso lo stesso capoluogo della nostra Colonia, Mogadiscio. Quando la
presenza di questo esercito, già preannunciala dagli impazienti giornali
inglesi, viene confermata dall'aviazione, il gen. Graziarli, pur lasciando
le truppe necessaria a tenere le nostre nuove posizioni sul Faf, provvede a
spostare rapidamente verso il punto minacciato, forze adeguate alla
controffesa. I brillanti combattimenti di avanguardia di Lama Scillindi,
Malca Siè ed Amino ed i ripetuti bombardamenti aerei avvertono ras Desta che
la «sorpresa strategica» che egli progettava è fallita. Ciò lo fa restare
esitante per varie settimane, tanto più che egli è tormentato da gravi
deficienze logistiche. Avanza lentamente cercando forse una occasione
favorevole. Ma, senza attenderlo, il gen. Graziani, con una risolutezza che
fa altissimo onore al suo senso di cosciente responsabilità, lo attacca
impetuosamente. La battaglia, iniziatasi il 12 gennaio e sviluppatesi nei
giorni 13 e 14 non è mai incerta. Dovunque gli armati etiopici piegano in
rotta davanti all'azione tattica sapientemente combinata dei reparti
indigeni, di quelli motorizzati e dell'aviazione. L'inseguimento spietato
delle nostre truppe motorizzate giunge fulmineamente e Neghelli, base di ras
Desta, L'esercito di costui è polverizzato, i suoi magazzini cadono in
nostro potere.
Le speranze etiopiche si portano ora tutte sul fronte del Tigrai. dove si
deve svolgere il «gran piano». Quivi, infatti, il forte gruppo di ras Cassa
Darghiè, cugino in secondo grado del defunto Menelich e del Negus Ailè
Sellassiè, unitamente ai guerrieri tigrini del ras Sejum Mangascià, ha
serrato sotto lentamente nel Tembien e si prepara ad attaccare di fianco la
nostra Armata di Eritrea, coperto a sinistra da un altro forte gruppo
composto dei guerrieri gòggiamesi al comando del ras Immirù, mentre il
nucleo principale etiopico al comando di ras Mulughietà, «ministro della
Guerra», attaccherà di fronte le posizioni di Macallè.
Ma nei giorni 21, 22 e 23 gennaio, in una serie di sanguinosi combattimenti
nell'aspra regione del Tembien, il ras Cassa è strategicamente prevenuto e
tatticamente arrestato con gravi perdite. Il gruppo principale di ras
Mulughietà resta davanti a Macallè, coperto dalla fortissima posizione dell'Amba
Aradam, incerto sul da farsi. La controffensiva etiopica è fallita a nord
come era fallita a sud.
Seconda fase: In ripresa offensiva italiana
Nel febbraio si svolge la nostra ripresa offensiva con
carattere decisivo, tanto in Africa che in Europa. Si comincia nel Tigrai.
Il Comando Superiore italiano, con il suo atteggiamento aspettante, non solo
è riuscito a compiere la pre-narazione tattica e logistica indispensabile ed
a far giungere i rinforzi, ma ha dato esca alla presunzione barbarica degli
abissini, i quali sono venuti addirittura a portata tattica delle nostre
Divisioni: possiamo così colpirli con il massimo della potenza consentita
dalle nostre armi.
Dall'11 al 15 febbraio l'armata etiopica di ras Mulughietà, fortificatasi
con folle iattanza in vista di Macallè, viene attaccata e distrutta dal I e
dal III Corpo italiano: schiacciata sotto il fuoco delle artiglierie e
dell'aviazione. I resti di essa fuggono dapprima con certo ordine, poi in
completo dissolvimento oltre l'Amba Alagi, senza nemmeno tentar di
difendersi su quell'immenso bastione che chiude a sud il Tigrai e che viene
infatti occupato, senza resistenza, dal I Corpo il 23 febbraio.
Il 27 febbraio si inizia e il 1 marzo si conclude la seconda battaglia del
Tembien contro i gruppi di Cassa e Sejum. rimasti stolidamente aggrappati
alle loro posizioni del Tembien: essi vengono frantumati dalla manovra
avvolgente del III Corpo e del Corpo d'Armata eritreo.
Infine. dal 29 febbraio al 2 marzo, l'armata goggiamese di ras Immirù,
attaccata con manovra convergente dai Corpi d'Armata II e IV, viene battuta,
respinta, inseguita in piena rotta fino al di là del Tacazzè. Sul fronte
tigrino non esistono più eserciti etiopici: le prime riserve si trovano fra
Quoraiii e Dessiè.
Nel campo diplomatico, il presunto successo dei sanzionisti si rivela dubbio
e pericoloso. Anzitutto, il presidente Koosevelt è sconfessato dal Senato di
Washington: la Legge di neutralità viene prorogata senza alterazioni od
aggiunte. Resta così stabilito che, se si adotteranno a Ginevra sanzioni sul
petrolio, l'America non si associerà.
Il tentativo di sistemare i paesi danubiani all'infuori dell'Italia cade
miseramente fin dall'inizio: è un sogno di illusi. La Conferenza navale di
Londra fallisce del pari perché l'Italia non firmerà accordo di nessun
genere in regime sanzionista.
In queste condizioni, il Comitato ginevrino cosidetto dei Diciotto per il
«coordinamento delle sanzioni» si riunisce il 2 marzo. L'Inghilterra
dichiara che è pronta ad applicare le sanzioni sul petrolio. La Francia
propone che prima di trattare l'argomento venga rivolto un ultimo appello di
pace ai belligeranti; in conseguenza il Comitato di pacificazione cosidetto
dei Tredici trasmette a Roma e ad Addis Abeba un «appello urgente» per
«l'apertura immediata di negoziati nella cornice della Società e nello
spirito del Patto, in vista della pronta cessazione delle ostilità».
L'Italia accetta il giorno 6. ma le trattative ginevrine, che, del resto,
falliscono per le insensate pretese preliminari etiopiche, sono travolte da
un avvenimento internazionale di grave importanza. Il 7 marzo la Germania
dichiara che, in conseguenza del patto franco-sovietico, considera decaduto
e nullo il trattato di Locarno e ripudia gli articoli 42. 43 e 44 del
trattato di Versaglia inerenti alla smilitarizzazione renana. Le truppe
tedesche lo stesso giorno occupano, dopo quattordici anni, le due rive del
Reno.
Come i cerchi provocati dalla caduta di una pietra nell'acqua, le
conseguenze della folle politica sanzionista si allargano sempre
maggiormente.
La decisione
Il Maresciallo Badoglio, perseguendo chiaramente il
preciso scopo di distruzione delle forze avversarie, fa scavalcare dal I
Corpo d'Armata e dal Corpo d'Armata indigeno il bastione dell'Amba Alagi ed
iniziare rapidamente la costruzione di una rotabile alle loro spalle, la
quale dovrà congiungersi con la pista etiopica che dal Lago Ascianghi porta
a Dessiè.
Contemporaneamente, sul fronte somalo, il gen. Graziani, ricevuti oramai i
rinforzi e compiuto a sua volta immensi lavori stradali e logistici, è in
grado di tramutare la propria missione di difensiva attiva in una missione
puramente offensiva: portare un attacco in direzione dell'Harar che travolga
l'armata etiopica di Ras Nasibù, da tempo fortificatasi per difendere quella
regione e gli accessi dal sud alla linea ferroviaria.
Mentre si preparavano cosi le due azioni principali a nord e a sud, il
Maresciallo Badoglio provvedeva a rendere crescente, insopportabile la
pressione politica mediante l'occupazione di regioni etiopiche di primaria
importanza. Già una colonna leggera aveva occupato Sardo al centro dell'Aussa
col consenso di quelle popolazioni, storicamente ostili alla dominazione
amara. Dopo le tre battaglie del Tigrai, l'ala destra del nostro fronte
settentrionale, in varie colonne, avanzava su Socotà, su Gondar e lungo il
confine etiopico-sudanese. La pacifica sottomissione di queste regioni,
sgombrate dai guerrieri fuggiaschi del Negus, otteneva appunto lo scopo di
accrescere fortemente la pressione politica, facendo intravvedere imminente
lo sgretolamento del cosidetto Impero etiopico.
I risultati non tardavano a vedersi. Il 31 marzo, raccolte le ultime riserve
e la Guardia imperiale, il Negus attaccava impetuosamente i nostri Corpi
d'Armata I ed eritreo, solidamente sistemati sulle montagne a nord del Lago
Ascianghi. Risulta che egli si illudeva di sorprendere truppe che riteneva
impreparate perché appena giunte sul nuovo terreno occupato. Invece, il
nostro servizio delle informazioni aveva funzionato esattamente e le nostre
truppe, opportunamente prevenute, attendevano la battaglia. Questa si
svolgeva iniziandosi con il classico furioso attacco di fronte e di fianco
delle masse etiopiche, gettatesi sotto il fuoco delle nostre armi
automatiche e delle nostre artiglierie in posizione, subendone gli effetti
più completi e micidiali. Esauritosi l'attacco dei neri, le nostre truppe
procedevano al contrattacco, che spazzava in rotta i resti dell'avversario.
L'aviazione, divenuta decisamente l'arma più atta all'inseguimento,
annientava gli avanzi delle formazioni etiopiche. accalcantesi nella stretta
a sud del Lago Ascianghi.
Questo insieme di operazioni sul fronte settentrionale ha confermato ancora
una volta che la strategia offensiva più efficace non è quella che va alla
ricerca dell'avversario facendone il giuoco e lasciandogli scegliere il
teatro della battaglia, ma è invece quella che obbliga l'avversario a
battersi nelle condizioni volute da noi. In Europa, i -grandi capitani hanno
generalmente ottenuto questo risultato gettando le loro masse armate in una
direzione vitale per il difensore, in modo che questi fosse obbligato a
pararsi davanti all'aggressore. In Etiopia, le difficoltà estreme di
traslazione impediscono questa condotta, ma il Maresciallo Badoglio ha
ottenuto l'identico risultato con un altro mezzo: la crescente pressione
politica.
Le truppe italiane, inebriate dalla completa vittoria, marciavano
sollecitamente su Dessiè, rifornite dall'aviazione, mentre sessantamila
lavoratori venivano proiettati fra l'Amba Alagi e Quoram per costruire la
rotabile. Il 15 aprile le nostre truppe entravano a Dessiè, base principale
del fronte etiopico del nord.
Sincronicamente si svolge a sud l'attacco del gen. Graziani. Il giorno 14 la
sua ala sinistra, composta principalmente della Divisione «Libia», prende
contatto con le truppe avanzate dei degiac Abbedè Damtù e Maconnen
Andelacciù: ne consegue l'aspra battaglia sul fiume Gianagobò, ove gli
etiopici si sono fortificati, durata fino al 18.
Dopo questa operazione preliminare, le truppe del gen. Graziani, su tre
colonne, convergono in direzione del vastissimo campo trincerato di
Sassabaneh, ove il 24 cominciano l'attacco delle posizioni avanzate. Hanno
luogo così gli aspri combattimenti di Dagamedò, Hamanlei e Gunugadu. Cadute
queste località, il giorno 29 la potente linea fortificata di Sassabaneh e
Bullaleh, progettata e costruita da ufficiali belgi e turchi e difesa con
estremo accanimento dagli abissini di ras Nasibù, viene presa d'assalto. Il
giorno 30 le colonne convergono su Dagabur. L'armata etiopica del sud è in
completa rotta sulla carovaniera di Giggica, e l'aviazione termina di
disperderla.
Frattanto, il 20 marzo, il Maresciallo Badoglio, trasferitosi a Dessiè.
dispone la costituzione di una potente forza autotrasportata la quale,
fiancheggiata da colonne eritree, procede senza incontrare resistenza su
Addis Abeba. Il Maresciallo Badoglio vi entra il 5 maggio, alla testa di
ventimila uomini.
Egli trova la città da tre giorni in balìa degli incendiari e dei
saccheggiatori, ebbri di alcool e di strage, che si contendono il bottino in
una delle solite orgie insensate tipiche delle genti nere. Da tre giorni
infatti, il pavido Negus era fuggito di soppiatto con la famiglia, i ras, i
«ministri», traendosi al seguito due vagoni di talleri, frutti delle ultime
rapine, e sei vagoni di caffè sottratto agli agricoltori galla, da vendere
agli accaparratori di Gibuti. Così l'ultimo sovrano negro dell'Africa
respingeva anche la tradizione militare lasciategli dai predecessori barbari
ma valorosi. Teodoro e Giovanni: morire almeno con onore alla testa degli
ultimi seguaci. Alle Sellassié, il modernista, il ginevrino, valutato a
Londra come statista insigne, idolo degli studenti di Cambridge. che in suo
onore avevano innalzato lo straccio colorato etiopico sulla loro università,
si recava a trascinare i suoi piati ed a spendere i suoi talleri in una
inutile odissea fra Londra e Ginevra.
La fine dell'avventuriero coronato era degna dei suoi inizi di usurpatore e
del suo regno di intrigante.
La sera stessa in cui le legioni italiane entravano nella capitale
dell'avventuriero fuggiasco, il Duce, dopo aver convocato il popolo italiano
ad un convegno immenso, proclamava fieramente: «La guerra è finita. La pace
è ristabilita. L'Etiopia è italiana».
Il 9 maggio veniva proclamata l'annessione dell'Etiopia e il Re d'Italia
assumeva il titolo imperiale.
La rapida campagna da noi guadagnala non aveva il carattere «Nelle solite
imprese coloniali si trattava invece, in ogni senso, di una vera guerra
oltremare in territorio coloniale.
Aver compreso chiaramente i caratteri di questa guerra, averne intraveduto
il contorno generale, aver subito accertato ed accettato il modulo grandioso
che la sua condotta imponeva ed aver cosi effettuato la spedizione d'Africa
più grandiosa che la storia annoveri, costituisce la gloria dell'Italia
d'oggi.
Questa comprensione perfetta, seguita - ciò che era più difficile - da una
rispondente attuazione, non era realizzabile che sotto due condizioni: una
nazione straordinariamente compatta, unanime attorno ai suoi capi nel mezzo
della tempesta sanzionista. che non avesse discusso i sacrifici momentanei
che l'impresa comportava;
ed una perfetta, assoluta unità fra pensiero ed azione, fra il concetto
politico e l'attuazione concreta militare. Queste due condizioni sono state
realizzate dal Regime fascista, e non sarebbero state conseguibili sotto
altri regimi, come la storia costantemente conferma in senso positivo e
negativo.
Compatta volontà di tutti gli Italiani, sentimento di fierezza nazionale,
comprensione unanime della necessità storica dell'impresa, elevatezza
incomparabile di spirito civile e militare, entusiasmo nel Paese e nelle
truppe, guerra combattuta da tutto il popolo con la sua volontà, con il suo
sangue e con i suoi risparmi, tutto ciò è frutto della lunga preparazione
politica e morale del Regime.
Condotta della guerra chiara, semplice, grandiosa, decisiva, implacabile e
rapida, adeguatezza dei mezzi agli scopi, ampiezza di vedute, tenacia e
volontà incrollabili nel campo operativo, fallico e logistico, tutto ciò è
frutto della perfetta unità di direzioni e di comando realizzata da
Mussolini.
Non si creda che scrivendo ciò noi non ci rendiamo conto dei meriti altissimi guadagnati di fronte alla nazione e alla storia dai comandanti e dalle truppe; vogliamo soltanto affermare che forza d'animo del condottiero, energia e capacità tattica delle truppe sarebbero stati elementi di forza male utilizzati se non sovrastati e coordinati dalla direzione politica imperiosa di Roma.
Il coefficiente maggiore per il successo militare devesi sempre riscontrare non solo nel genio del condottiero e nella bontà delle truppe, ma. prima ancora, nella volontà di un governo forte e deciso, che sappia esattamente che cosa vuole, che agli obiettivi sappia commisurare i mezzi e i modi e che indirizzi con fermezza verso gli scopi prefissati la sua spada vittoriosa.
Maurizio Claremoris