Le prime operazioni

 

 

 

 

 

 

La crescente imponenza della mobilitazione abissina, divenuta ancor più minacciosa a causa dei ricchi rifornimenti d'armi e dell'appoggio morale proveniente da grandi e piccole potenze, non poteva essere da noi ulteriormente sopportata. Suonava così l'ora nella quale, rompendo ogni indugio, l'Italia doveva passare i confini ed iniziare la grande sua impresa di civiltà e di rivendicazione. Con tale atto, l'Italia sfidava, oltre al Re dei Re di Etiopia, anche e diremmo soprattutto la Lega delle Nazioni; ma ne traeva il coraggio dal suo buon diritto e dalla consapevolezza della sua storica missione. In tale stato di grazia e di verace potenza era tutto il popolo italiano il 3 ottobre 1935, e in tale stato esso rimarrà durante tutta la campagna e oltre.

 

 

La prima fase delle operazioni

fino all'occupazione di Adua e di Adigrat in Eritrea

e di Dagnerrei in Somalia

 


Cenni sul terreno
Quella parte dell'Africa Orientale che, per la presenza in essa di colonie italiane e per la posizione di queste a contatto del vasto impero etiopico, più direttamente c'interessa, può considerarsi distinta in quattro parti principali, e cioè: ad occidente, un ampio ed elevato acrocoro (altipiano etiopico propriamente detto), che è separato, verso sud, mediante il fiume Auash ed i laghi Galla. da un altro altipiano, meno vasto e di minori altitudini (altipiano somalo-galla); ad oriente, da due grandi depressioni, il bassopiano dancalo e quello somalo, entrambi già in nostro possesso.

L'altipiano etiopico propriamente detto, costituito da una formidabile muraglia alpestre che ad oriente precipita, con un erto ciglione, sulle bassure della Dancalia, mentre ad occidente degrada in catene successive verso il Sudan anglo-egiziano. L'altitudine media di queste è di 2.000-2.500 metri: mentre le vette dell'acrocoro centrale raggiungono anche i 4.000 metri. Per la millenaria azione delle acque correnti e per fenomeni di assestamento tettonico, questo altipiano è scisso da profonde spaccature, costituenti anguste vallate, nel cui fondo scorrono corsi d'acqua più o meno importanti; da queste fratture, poi, si elevano delle alture di forma caratteristica (ambe), a fianchi molto scoscesi e con pianori, più o meno vasti, in vetta.
E' facile comprendere come queste profonde incisioni del terreno ne rendano molto più arduo il percorso, e determinino anche delle profonde differenze di clima, di flora, di fauna tra le diverse regioni, le quali vengono ad essere, inoltre, separate, distinte e protette le une dalle altre, con conseguenze etniche e storiche di grande rilievo.
I tratti montuosi sono i parte brulli, in parte coperti da fitte macchie o da boschi; i tratti piani si presentano coperti dalla consueta boscaglia delle pianure tropicali africane, oppure più o meno intensamente coltivati.
L'altipiano somalo-galla ha caratteristiche morfologiche non dissimili da quelle dell'altipiano etiopico, ed è costituito da una piattaforma sui 2.000 metri di altitudine, su cui si elevano gruppi montani, generalmente anche essi di forma tabulare (ambe) e raggiungenti altitudini non lontane dai 4.000 metri.
Guardando ora alle possibilità di penetrazione dai territori già in nostro possesso verso i due altipiani, si vede subito che la depressione dancala. brulla, arida. allocata, malsana, di difficile percorribilità, costituisce una zona pressoché proibitiva per operazioni militari, specie con truppe bianche; solo nella parte meridionale di essa, il solco del fiume Auash, che alimenta una lussureggiante fascia di vegetazione tropicale, rappresenta una via di facilitazione verso i sultanati di Aussa e di Birù.
Le vie di penetrazione più agevoli, quindi. nello scacchiere nord sono quelle che attraverso la linea di confine del Mareb immettono nella regione del Tigrai e quindi nel cuore dell'Etiopia.
Nello scacchiere meridionale, invece. il bassopiano somalo. elle si presenta come un enorme piano inclinato verso sud-est ed uniformemente scendente al mare, arido, desertico ma di percorribilità non difficile, costituisce una zona naturale di accesso verso punti molto sensibili dell'Impero: la capitale; la regione, per molti aspetti importantissimi, dell'Harrar; la ferrovia di Gibuti.
Vedremo. poi, quali fossero, sia nell'uno sia nell'altro scacchiere, le direttrici principali di penetrazione e quali siano state prescelte dal nostro Comando Superiore.


Le forze contrapposte
Ai primi di ottobre, già un nerbo considerevole di truppe italiane era stato concentrato nelle due nostre colonie.
In Eritrea, esse erano state raccolte in tre grandi unità (corpi d'Armata) così costituiti:
I Corpo d'Armata A. O. (gen. Santini): divisione «Sabauda»: divisione Camicie Nere «23 Marzo»; con battaglioni di CC. NN., artiglierie motorizzate, squadroni di carri veloci.

A disposizione del Comando Superiore A. O. rimanevano la divisione Camicie Nere «21 Aprile» e la divisione «Gran Sasso», oltre alle truppe in continuo arrivo dall'Italia.
Reparti di copertura e di osservazione, inoltre, di composizione varia, erano dislocati nella depressione dancala e nel bassopiano occidentale della Colonia Eritrea (Setit).
La direzione delle operazioni era affidata a S. E. l'Alto Commissario generale Emilio De Bono.
In Somalia, alle dipendenze del Vice-Governatore, generale Rodolfo Graziani, si trovavano la divisione «Peloritana» e vari raggruppamenti di truppe indigene, taluni ancora in via di formazione. Dette truppe erano così ripartite: un'aliquota di truppe regolari ed irregolari in copertura; masse di manovra più arretrate, lungo le principali linee di operazione; truppe per la difesa territoriale delle basi e dei campi trincerati costieri.
Non è agevole dare notizie e cifre sicure circa l'entità delle forze etiopiche, poiché anche le indicazioni fornite in proposito dalla stampa estera sono apparse molto incerte e contraddittorie. Si può ritenere che col chitet di mobilitazione, battuto fin dal 12 settembre, l'Impero abbia potuto raccogliere sotto le armi circa mezzo milione di uomini, non tutti naturalmente impiegabili in prima linea. Ai primi di ottobre, le forze già mobilitate e con-centrate o in via di concentrazione si potevano far ascendere, secondo le informazioni più attendibili, a 190-220 mila uomini, di cui: da 110 a 120 mila nello scacchiere eritreo; da 80 a 90 mila nello scacchiere somalo; una massa di riserva nelle province centrali dell'Impero.
Sempre con gli stessi criteri di valutazione approssimativa, le armi disponibili in Etiopia, all'inizio della mobilitazione ordinata dal Negus, potevano così determinarsi: 250 mila fucili di tipo moderno, oltre ad una massa di talune centinaia di migliaia di fucili di tipo antiquato; mitragliatrici varie 2500, cannoni con affusto a deformazione 90, pezzi da montagna su affusto rigido 380, aeroplani di tipo vario 17.

Lo sconfinamento in Eritrea e la occupazione di Adua e di Adigrat
Nella notte fra il 2 ed il 3 ottobre. dopo la storica adunata del popolo italiano indetta dal Duce, il Comandante Superiore in Eritrea riceveva l'ordine di iniziare le operazioni per il raggiungimento degli obiettivi fissati. Questi consistevano, per il primo sbalzo, nella fronte Adigrat-Entisciò-Adua, già raggiunta dal generale Baratieri nel 1895 e poi in parte ritratta (Adua) in seguìto all'avvenuto concentramento dell'esercito scioano nella zona del lago Ascianghi.

 

L'avanzata era stata predisposta dal generale De Bono, su tre colonne: ad occidente, lungo la direttrice Adi Ugri-Adi Qualà-Adua, la colonna Maravigna (II Corpo d'Armata); al centro, sulla direttrice Decamerè-Gura-pianura dell'Hasamò-Entisciò, la colonna Pirzio Biroli (Corpo d'Armata indigeno); ad oriente, da Adi Caieh, per Senafé e Guna Guna. ad Adigrat, la colonna Santini (I Corpo d'Armata).
Adigrat. Entisciò ed Adua sono unite da una cattiva comunicazione trasversale che prosegue, poi, per Axum e Selaclaca, mantenendosi quasi parallela alla catena che separa il bacino del Mareb da quello del Tacazzé.
Tra le due colonne laterali (Santini e Maravigna) erano interposti circa una sessantina di chilometri; la colonna centrale, perciò, doveva essere in grado di poter intervenire prontamente, in caso di bisogno, in sostegno sia dell'una che dell'altra.
Poco prima dell'alba del 3 ottobre. le tre colonne varcarono il confine, ricalcando le orme dei nostri primi eroici pionieri coloniali che già avevano portato il tricolore italiano in terra etiopica.
La colonna orientale al comandante gen. Santini, quel terreno era ben noto. poiché già nel 1896 egli, sottotenente nei cacciatori d'Africa, aveva marciato su Adigrat, procedeva su tre colonne: a sinistra. la 114a Legione CC.NN. della divisione «28 Ottobre», con reparti mitraglieri e servizi; al centro la 180a e la 116a Legione, con reparti di artiglieria, genio e sanità; a destra, l'intera divisione «Sabauda», e con essa il Comando del Corpo d'Armata.
Il servizio di sicurezza sulla fronte era disimpegnato dal X e dal XXV battaglione indigeni.
Nella prima giornata furono compiute quasi sedici ore di marcia ininterrotta e resa più dura dall'aspra natura del terreno. Del nemico nessuna traccia.

 

Anche nella giornata del 4 l'avanzata, ripresa di buon'ora, poté proseguire regolarmente; la colonna di sinistra raggiungeva agevolmente la località di Megheb, ove converse anche la colonna centrale, alquanto attardata dal difficile valico del passo Cherseber; sulla destra la divisione «Sabauda», ch'era riuscita ad ottenere. in condizioni non facili, il collegamento con il Corpo d'Armata indigeno. attestava anch'essa, sulla sera, al margine nord della conca di Adigrat, senza incontrare altri ostacoli che quelli opposti dal terreno.
Il giorno 5, alle ore 14.10, avendo l'aviazione segnalato che truppe nemiche erano in precipitosa ritirata a sud di Adigrat, il generale Santini, dal suo osservatorio del Cherseber, dava ordini di muovere senz'altro sulla città.
Prime a giungere nell'abitato, furono le pattuglie della 114. Legione, subito seguite dal Comandante della divisione, generale Somma, e dal suo Stato Maggiore.
Poco più tardi, i soldati italiani raggiungevano lo storico forte di Adigrat, ove, nel 1896, dopo Adua, il valoroso maggiore Prestinari oppose una memoranda, eroica difesa alle orde di ras Mangascià, mantenendolo sino alla liberazione compiuta dalle truppe del generale Baldissera il I maggio 1896.
Anche la colonna Pirzio Ríroli non aveva incontrato, alle prime sue mosse, alcuna resistenza. Ma giunta che fu all'altezza dell'Amba Augher (una quindicina di chilometri a sud della linea di confine e circa 5 ad est di Entisciò) si ebbe notizia ch'essa era presidiata da circa 500 armati, sotto il comando del degiac Ghebriet. Senza indugio, il generale Pirzio Biroli decideva di attaccare l'amha, con una duplice azione, frontale ed aggirante, affidata alla IV brigata indigeni ed alla Il. Dopo un vivace combattimento, durato qualche ora, il nemico, sotto l'azione concorde delle due brigate e dell'aviazione, che mitragliava la sommità ed il rovescio dell'araba, fu costretto a cedere ed a sgomberare in tutta fretta la posizione. Sul terreno rimanevano una diecina di morti, ed in nostra mano 59 prigionieri, uno dei quali ferito.
Alla colonna Maravigna era affidato il compito di occupare la conca di Adua, il cui nome, indissolubilmente legato al sacrifizio glorioso di tanti nostri eroici combattenti, aveva eccessivamente pesato per un quarantennio sulla immatura coscienza coloniale della Nazione. Allora, si ricorderà, l'avanzata su Adua si svolse lungo la strada Entisciò-Passo Rebbi Arienni-vallone di Mariam Sciavitù. Questa volta, invece, l'itinerario prescelto fu, come si é accennato; quello occidentale, passante per Adi Ugri-Adi Qualà.
Era da attendersi che il nemico, potendo prevedere che in direzione di Adua, capoluogo del Tigrai settentrionale, si sarebbe svolta la nostra azione principale, ci avrebbe opposto forze di qualche entità.
La nostra colonna comprendeva la divisione «Gavinana» e la III brigata indigeni in prima schiera, la divisione CC.NN. «21 Aprile» in seconda.

 

Sopra un ponte di equipaggio, gettato nella notte dal genio, fu passato, all'alba, il Mareb, Primi a passare: la banda del Seraé, comandata dal tenente Morgantini, e lo squadrone carri veloci Duca degli Abruzzi. Seguiva l'avanguardia della «Gavinana».
Il terreno oltre Mareb si presentava coperto da fitta boscaglia, rotto da profondi avvallamenti in senso normale alla direttrice di avanzata e solcato da piste appena tracciate.
A Rama - quattro o cinque chilometri a sud del fiume - si ebbe il primo scontro: nuclei avversari, della forza di 200-300 uomini, accolsero i nostri a fucilate, ma furono rapidamente dispersi, lasciando sul terreno un morto ed un ferito.

Verso le 15, però, più forte resistenza si pronunciava davanti al fortino di Daro Taclé contro la banda del Seraé, che si vedeva violentemente attaccata da un centinaio di armati. L'urto veniva validamente sostenuto, ma alla fine, avendo subito perdite considerevoli (16 morti, 15 feriti e 16 dispersi), la banda era costretta a retrocedere. Mirabile il contegno, in questo combattimento, del tenente Morgantini, comandante del reparto; ferito mortalmente, a chi accorreva vicino a lui, per soccorrerlo, diceva soltanto: «Non vi curate di me, portate avanti la binda», e spirava. Primo nostro ufficiale caduto in questa campagna d'Africa, e prima medaglia d'argento al valore.
L'avanguardia della «Gavinana», intanto, schieratasi attorno al bivio di Mai Enda Baria, conteneva nettamente ogni progresso abissino; il mattino seguente, quindi, il III battaglione indigeno attaccava il fortino di Daro Taclè, che nel pomeriggio veniva abbandonato dal nemico. All'attacco cooperava anche una squadriglia di ricognizione. Perdite nostre: 1 ufficiale ferito, 4 ascari uccisi e 8 feriti. Notevoli le perdite avversarie, tra le quali il fitaurari Cassai.
Nella giornata del 4 continuava l'avanzata, su due colonne: quella di sinistra (70° fanteria e brigata indigeni) è ostacolata da una notevole resistenza avversaria e riporta alcuni feriti.
Nella mattinata del 5, questa stessa colonna urta contro considerevoli forze etiopiche, appostate al Passo Gasciorghi. S'impegna un nuovo combattimento, nel quale intervengono anche alcune nostre batterie someggiate ed aerei da bombardamento. Dopo breve resistenza, l'avversario è obbligato a sloggiare ed a ripiegare su Araba Sebhat.
I1 mattino del 6, i nostri sono, ormai, al margine nord e nord-est della conca di Adua. Invano, forze avversarie, dal Debra Sina (m. 2.270), ad ovest di Adua, tentano di opporre un'estrema resistenza: bastano poche aggiustate raffiche di un gruppo del 19° artiglieria per stroncare ogni ulteriore velleità.

 

Alle ore 10.30 del 6, il 1° battaglione dell'84° fanteria entra, a bandiere spiegate, in Adua.
Resistenze residue venivano ancora opposte dall'Amba Sebhat al XXIII battaglione indigeni, che doveva aprirsi la via per lo storico vallone Mariam Sciavitù, quello che nella fatale giornata del 1° marzo 1896, vide la strage della brigata Da Bormida. Il mattino del giorno 8, quindi. veniva avviato in quella direzione il 70° fanteria, così che, dinanzi alla minaccia di una manovra aggirante, l'avversario era costretto. anche qui, a ritirarsi, non senza aver subito perdite notevoli (un centinaio circa tra morti e feriti).
Così la conca di Adua era interamente in nostra mano. Là dove. per un momento, la vittoria aveva ripiegato, per noi, le ali, tornava, ora, a spiegare voli più ampi e più sicuri.
Sulla raggiunta linea Adua-Entisciò-Adigrat veniva subito stabilito il collegamento fra i tre Corpi d'Armata, mentre migliaia di operai e soldati del genio si scaglionavano lungo le piste seguite nell'avanzata, per trasformarle in strade camionabili.
La prima fase delle operazioni si chiudeva, poi, nelle giornate successive, con la conquista dell'intera catena displuviale tra il bacino del Mareb e quello del Tacazzé. Tutto il Tigrai settentrionale poteva dirai, così, in nostro possesso, e con perdite minime: 30 morti (di cui 5 nazionali), 70 feriti (di cui 20 nazionali) e 33 dispersi (tutti indigeni). La superiorità del nostro armamento e l'efficace concorso dell'aviazione avevano consentito di raggiungere gli obiettivi prefissati con così lieve sacrifizio di vite.

 

Da ogni parte, frattanto, si presentavano ai nostri avamposti abitanti della zona e Capi, per fare atto di sottomissione e porsi sotto la protezione della bandiera italiana. Particolarmente importante, il gesto di Hailé Sellassíé Gugsà, nipote di Re Giovanni e Capo del Tigrai Orientale, il quale, il giorno 10 ottobre, passava nel nostro campo con circa 1.500 armati. Pochi giorni dopo egli, presso l'antico forte italiano di Adigrat, prestava giuramento di tinaio di notabili si presentavano a lui, ed il 14 stesso l'«Abuna» di Axum, la città santa dei Copti, si recava ad Adua, per consegnare all'Alto Commissario le chiavi della città, che il giorno seguente veniva raggiunta da nostre truppe. Al generale Maravigna, entrato nella città santa alla testa della III brigata indigeni, il Capo del clero Copto rivolgeva queste testuali parole, che possono dirsi una consacrazione dell'azione italiana in Africa Orientale: «Noi sappiamo che da Roma é sempre partita la civiltà, anche per quanto riguarda la nostra chiesa e la nostra religione. Il diritto di Roma a dominare é diritto spirituale, che deriva dalla bontà e dalla forza delle sue leggi».
Nuova dimostrazione di questa « bontà e forza delle leggi romane » doveva essere naturalmente, l'abolizione della schiavitù, prontamente effettuata, il 20 ottobre. con questo bando dell'Alto Commissario: «Genti del Tigrai, udite. Voi sapete che dove sventola la Bandiera Italiana vi é libertà. Perciò nel vostro Paese la schiavitù, sotto qualunque forma, é soppressa. Gli schiavi che attualmente sono nel Tigrai sono liberati, e la compera e la vendita degli schiavi sono vietate. Chi contravverrà alle disposizioni del presente bando sarà severamente punito come trasgressore agli ordini del Governo».

Le prime apparizioni in Somalia
Nello stesso periodo di tempo, anche nello scacchiere somalo venivano compiute alcune operazioni di rilievo, lungo le direttrici segnate dai grandi corsi d'acqua (Giuba e Uehi Scebeli).
Nei primi giorni del mese, truppe del settore occidentale occupavano, dopo vivaci combattimenti, Dolo, Oddo e Uoladdaia, alla confluenza Ueb-Ganale Doria. Gli abissini subivano qualche perdita.
Il 4 ottobre, una nostra squadriglia di Caproni bombardava la località di Gorrahei. importante posto militare fortificato e centro di rifornimento, recando lo scompiglio anche in una colonna etiopica, in marcia verso Gherlogubi.
Quest'ultima località, poi, ove gli abissini avevano compiuto dei rilevanti apprestamenti difensivi, veniva occupata, dopo breve combattimento, da truppe del settore nord-orientale.
Nel settore centrale (Uebi Scebeli) piogge continue, che avevano interrotto strade ed allagato vaste zone, costrinsero a ritardare l'inizio delle operazioni. Il giorno 18 ottobre, tuttavia, benché perdurassero ancora le avverse condizioni atmosferiche, allo scopo di prevenire un possibile attacco da parte delle notevoli forze avversarie ch'erano segnalate nella regione degli Sciaveli, il generale Graziani iniziava un'offensiva dalla zona a nord-est di Mustahil contro Dagnerrei, posizione naturalmente forte, sul corso del fiume, elevata di circa 200 metri sul terreno circostante e validamente apprestata a difesa.
Dopo un efficace bombardamento aereo, durato circa un'ora, la posizione veniva assaltata da un gruppo di «dubat» e da una banda di irregolari, al comando di Olol Dinle, capo degli Sciaveli, recentemente presentatosi alle nostre linee e sottomessosi.

 

L'avversario reagiva accanitamente con fuoco di fucileria e mitragliatrici, ma sopraffatto alfine dall'impeto dei nostri «dubat», si dava alla fuga, ripiegando fin oltre il posto di Callafo, che veniva anch'esso occupato dalle nostre truppe, lanciatesi all'inseguimento.
Contemporaneamente a quest'azione principale, un rapido e decisivo colpo di mano veniva eseguito contro il fortino di Bur Dodi, sempre nella vallata dello Scebeli, che fu incendiato, mentre le forze che lo presidiavano venivano sbaragliate ed inseguite fino alla località di Scillave, circa 80 km a nord-est di Bur Dodi.
In queste azioni, che davano in nostra mano la fertile regione degli Sciaveli, il nemico perdeva una cinquantina di morti, numerosissimi feriti ed un centinaio di prigionieri.
Così, in entrambi gli scacchieri, le operazioni militari avevano avuto il loro fausto inizio e le nostre truppe, seguite dai voti augurali ed entusiasti dell'intera Nazione, unita come non mai e decisa a perseverare nel suo sforzo non ostante tutte le avversioni e tutte le insidie, si apprestavano fiduciose ai nuovi e più duri cimenti.

 

Amedeo Tosti