L'economia di guerra

Gli aspetti fondamentali dell'economia di guerra.
1. Guerra ed economia.
Uno degli aspetti più importanti della guerra
moderna è l'economia. L'importanza della strategia economica per la strategia di
guerra era già apparsa durante l'altro grande conflitto; ma solo la consumazione
di quell'esperienza, per alcuni paesi assai dolorosa, poteva darne la
consapevolezza e preparare connessioni sistematiche. L'evoluzione dei fatti e
delle idee in proposito si può riportare alla rivoluzione industriale del secolo
scorso e alla conseguente trasformazione delle istituzioni. Ma oggi appare più
netta in due ordini di fenomeni decisivi: una nuova tecnica della guerra; una
nuova tecnica corrispondente delle istituzioni, insieme politiche e sociali,
economiche e finanziarie.
Ai tempi in cui la guerra era affare dei principi e si conduceva con limitati
eserciti mercenari, l'economia del paese ne era scarsamente influita, a meno che
non si trattasse di guerra eccezionalmente lunga ed intensa. L'avvento degli
eserciti mercenari, con le maggiori spese relativamente ingenti che implicava,
aveva sì trasformato gli ordinamenti fiscali e conseguentemente quelli politici;
poiché non bastavano più pel finanziamento della guerra le entrate patrimoniali
del Fisco e le requisizioni e il bottino, e bisognava far ricorso ai contributi
dei cittadini, che volevano consentirli già allora con la loro rappresentanza
parlamentare. Ma la condotta della guerra si inseriva sull'economia di pace
senza grandi cambiamenti, prelevandone tutto il necessario per la resistenza e
per il successo. L'economia non essendo ancora giunta al perfezionato sistema
moderno di scambi ed essendo chiusa, le guerre si sostenevano con limitate
risorse materiali disponibili, per cui fra l'altro si svolgevano e si
interrompevano con ritmo stagionale. Il loro carattere tecnico militare si
adeguava già allora alle esistenti condizioni economiche; ma piuttosto sotto
specie finanziaria. Si poneva solo il problema del prelievo dal reddito
nazionale delle somme necessarie per la leva degli eserciti; neppure pel loro
mantenimento, poiché vivevano sul paese per diritto bellico di confisca di
requisizione di bottino. Gli effetti della guerra erano solo indiretti, quelli
delle manipolazioni finanziarie e monetarie, dell'impoverimento e del turbamento
sociale: importanti pur allora, e tuttavia limitati.
Né il rapporto fra guerra ed economia è sostanzialmente modificato quando si
tratta di provvedere all'armamento e mantenimento dei moderni eserciti nazionali
reclutati con la coscrizione obbligatoria. Neppure allora si hanno profonde
modificazioni di struttura e di orientamento della vita economica. Ma si hanno
già nuove considerazioni anche qualitative del rapporto fra guerra ed economia,
per il fatto che al soldo dell'esercito subentra il costo ben più alto
dell'armamento di masse più numerose.
La rivoluzione industriale del secolo scorso ha contribuito a cambiare, con la
struttura economica del mondo, quella degli eserciti e la stessa condotta della
guerra. Le industrie meccaniche e metallurgiche hanno avuto gran parte così
nella nuova organizzazione industriale come nella nuova organizzazione bellica.
Non solo hanno modificato la tecnica della guerra in se stessa, ma con lo
sviluppo di un macchinismo sempre più dinamico complesso e costoso, hanno
mostrato che la struttura economica di pace deve essere tempestivamente
preparata alle esigenze di guerra. E logicamente, per l'interdipendenza dei
fatti economici tra loro e coi fatti sociali, non solo nell'industria, ma
nell'agricoltura, nella finanza e in tutte le strutture economico-sociali in
genere, che condizionano in vario modo l'efficienza e il successo della guerra.
Ma la consapevolezza di questa vera rivoluzione della tecnica e dell'economia di
guerra mancava ancora allo scoppio della guerra del 1914-18. Le dimensioni del
fatto bellico essendo prevedibilmente cresciute rispetto alle limitate guerre
nazionali del secolo. passato, non si era trascurato di fare piani di strategia
economica più o meno collegati a quelli della strategia militare; ma tuttavia
parziali, basati su previsioni e riserve di troppo breve durata (si pensi al
geloso mistero con cui si custodivano i cosiddetti tesori di guerra, che non
superavano l'ordine di grandezza di quanto occorre per mantenere un esercito
moderno in campo per un solo giorno). Quei piani si riferivano specialmente al
finanziamento e ai trasporti, o a qualche ramo di produzione industriale più
direttamente connesso con le esigenze immediate di guerra; poiché negli stessi
tecnici della guerra e dell'economia mancavano idee chiare sui nuovi rapporti
che la modificata tecnica insieme della guerra e delle istituzioni economiche
veniva a istituire fra questi due rami indissolubili dell'azione bellica. La
consapevolezza di questi rapporti emerse da una congerie di tentativi parziali e
insufficienti, contradditori e costosi, che stremarono oltre misura tutti i
combattenti e infine fiaccarono quello che appunto sul terreno economico era più
debole.
Gli è che alla base della filosofia di guerra degli inizi di questa vicenda del
nuovo secolo era una considerazione astratta dei rapporti fra guerra ed
economia, che l'una poneva in insanabile conflitto con l'altra. Nel 1914 si
pensava appunto ad una guerra rapida, perché, si diceva dagli economisti, Io
sforzo dei belligeranti sarebbe stato troppo grave per essere durevole. Eppure
l'economia - la nuova tecnica finanziaria aiutando - mostrava imprevedute
possibilità di adattamento al passaggio da un sistema meramente industriale a un
sistema integralmente militare, impegnante milioni e milioni di uomini, e via
via popoli interi, armati fra l'altro dell'economia come mezzo formidabile non
solo di difesa ma di offesa (blocco, rovina del commercio estero nemico,
acquisti emulativi, ecc.). Or questo adattamento poté avvenire appunto per
lunghi tentativi, intorno a un piano solo concettuale, che strategia economica e
strategia militare collegava sempre più, come era necessario, ma come allora si
poteva. Il piano della guerra totale, militare politica economica, era infine
dappertutto quasi compiuto quando, per attriti differenziali verificatisi
appunto nel settore economico, la guerra fu interrotta.
Era naturale che la Germania specialmente, vittima di questi attriti,
raccogliesse continuasse e sistemasse le dolorose esperienze dell'altra guerra e
modificasse le strutture economiche del paese, per essere in grado di mobilitare
il giorno della rivincita immancabile tutte le risorse di un popolo.
2. La nuova tecnica della guerra e i suoi riflessi economici.
Una modificazione che sembrava scompaginare ogni previsione, ma in ogni caso
non tale da rendere inutile un piano elaborato per il peggio, era il successo
della guerra di urto, realizzato oltre ogni previsione dei teorici della guerra
totale. Una trasformazione della tecnica della guerra era evidente, nel fatto
che questa sembrava ridursi, come quella di un tempo, a guerra di minoranze
specializzate. Restava tuttavia il fatto nuovo che, se l'economia di pace
sembrava continuare a vivere indisturbata, le sue risorse dovevano essere
impiegate instancabilmente nella produzione di armamenti ingenti e costosi.
L'esercito di milioni di uomini restava, con deviazioni del suo impiego
dall'attività di guerra all'attività per la guerra; solo il suo fronte era
spostato: anzi tutto il paese era un solo fronte di battaglia, esposto fin
all'offensiva dell'arma aerea diretta alle sue attività produttive.
La nuova tecnica di guerra è contraddistinta:
a) dall'eccezionale impiego di
mezzi meccanici, in parte ad alta precisione, che richiedono vasti e costosi
impianti, per un'intensa produzione specializzata, del genere di quella
occorrente per l'industria di pace;
b) dalla ricerca dell'urto, affidato
prevalentemente a questi mezzi meccanici, aeroplani, carri armati e truppe
motorizzate; che richiede minore impiego di uomini combattenti, sia per
intensità (numero) che per durata;
c) dall'avvento di eserciti qualitativi armatissimi e addestratissimi, quindi composti di personale selezionato,
alimentato incessantemente e abbondantemente da una adeguata economia,
specialmente industriale.
Questi nuovi aspetti tecnici si traducono puntualmente in nuovi aspetti
economici della guerra : alla nuova tecnica di guerra deve corrispondere una
nuova economia di guerra. Per questi fatti principalmente:
a) la necessità di
una preventiva organizzazione economica per la guerra, che può irrigidire anzi
tempo l'economia generale rendendola meno produttiva, ma d'altra parte rende
possibili, diluendoli nel tempo, più ingenti costi della guerra;
b) la
possibilità, allo scoppio della guerra, di impiegare un maggior numero di uomini
nella produzione, sfruttando le risorse prime e continue del gruppo per la
soddisfazione di bisogni anche solo indirettamente connessi con la guerra,
comunque senza alterare le esistenti strutture economiche: ch'è fatto molto
importante per la continuità dell'attività economica, utile al passaggio dalla
pace alla guerra, alla condotta migliore di questa e alla più facile
trasformazione dell'assetto bellico in assetto di pace;
c) la possibilità di
utilizzare per diritto di occupazione o di conquista spazi produttivi la cui
organizzazione economica non sia scompaginata da una lunga guerra distruttiva:
utilissima integrazione dell'economia di guerra del belligerante vittorioso,
specie di fronte all'arma economica del blocco;
d) l'amministrazione più
razionale delle risorse disponibili con un minor costo relativo della guerra
globale, la strategia di guerra essendo più strettamente collegata alla
strategia economica e questa alle fondamentali strutture economiche, in un piano
positivamente elaborato ed effettivamente eseguito della condotta generale della
guerra e della sua condotta economica;
e) la minore perdita di uomini, che oltre
il loro inestimabile valore morale hanno un valore economico in capitali
produttivi personali, che possono infine costituire, o il costo maggiore della
guerra o il mezzo più essenziale della ricostruzione.
Vi è interdipendenza fra i due ordini di fatti, della tecnica di guerra e della
economia di guerra; questa si adegua a quella; ma a sua volta lo sviluppo
economico non è estraneo alla soluzione dei problemi tecnici della guerra.
Tecnica della guerra e tecnica della sua economia si modellano più strettamente
e rigidamente di un tempo l'una sull'altra, appunto per la maggior importanza
che ha l'economia per la guerra. Già l'altro grande conflitto aveva posto dei
problemi militari non più risolubili al vecchio modo economico; e dei problemi
economici non più risolubili sotto l'impero della vecchia tecnica di guerra.
Si pensi al maggior bisogno di mezzi bellici, alla
maggiore distruzione di ricchezza e alla minore possibilità di ricupero
dell'economia nella moderna delicatezza e complicatezza del sistema economico,
in una guerra troppo lunga, di popoli interi, impiegante fra l'altro l'economia
stessa come arma di lotta per indebolire l'avversario e prolungare la propria
resistenza. Ecco la necessità economica della guerra di urto, di minoranze
specializzate; ed ecco un esempio dell'adattamento necessario della strategia
militare alle esigenze economiche.
Il personale combattente dev'essere sceltissimo fisicamente e moralmente;
occorre un nuovo tipo di uomo per combattere vittoriosamente con le macchine
moderne; ecco il senso complesso dell'esercito di specialisti. Caduta è la
concezione della forza del numero; il numero non equivale alla forza perché è
vinto dalla superiore capacità strategica e tattica. Alla quale è però
necessario disporre di truppe bene armate, ben rifornite, bene addestrate, di
morale elevato; che implica una superiorità strategica non militare soltanto ma
appunto economica, e di una economicità lata non gretta. Ecco un esempio
reciproco dell'adattamento necessario della strategia economica alle esigenze
militari.
La superiorità tecnica e morale non può aversi se non selezionando i migliori da
una massa che sia a sua volta elevata; e questa massa, tutta, deve servire a
soddisfare i bisogni maggiori e più affinati dei combattenti. Si può dire con
apparente paradosso che la guerra diviene di massa quanto meno l'esercito è di
massa; e che il maggior valore dell'elemento materiale industriale e tecnico
della guerra moderna non sostituisce l'elemento personale e morale, l'uno e
l'altro potenziandosi reciprocamente in una maggiore efficienza totale.
E' questo il significato della guerra totale: concentrazione ed espansione di
tutte le energie. Tutte le forze della nazione sono in essa impegnate: militari
ed economiche, politiche e morali: sia nelle necessità immediate della difesa
(non solo esercito in campo, ma milizia di contraerei e resistenza attiva della
popolazione), sia nella produzione di guerra (eserciti di operai per alimentare
non solo le fabbricazioni di guerra, ma gli altri bisogni dei combattenti, resi
più alti dallo sforzo e dal vivere comune su un livello più elevato), sia infine
nella rimanente vita economica del paese che continua a richiedere per fini sia
pure indiretti di guerra beni di consumo, di produzione, di esportazione.
Lo sviluppo delle armi automatiche, la meccanizzazione e motorizzazione
dell'esercito, la mole degli armamenti aerei, la straordinaria potenza di fuoco
e grazie a questi fatti la sua mobilità, le nuove tecniche automobilistiche
chimiche mediche: fanno mutare per grandi proporzioni i bisogni del materiale
di guerra, e pongono nuovi complicati problemi per la condotta anche economica
della guerra. Non occorre meno di tutta la capacità tecnica organizzativa
dell'economia moderna per rispondere alle alte esigenze tecniche della guerra
totale. Bisogna impiegare, sistematicamente come non mai, tutte le forze
disponibili del lavoro e dell'intelligenza e della tecnica; e mobilitare tutta
l'attrezzatura economica della nazione, agguerrita anch'essa nel senso letterale
della parola, per il suo impiego bellico più intensivo. Questo problema è reso
più difficile, da una parte per gli sforzi sempre maggiori che sono richiesti
all'economia nazionale; dall'altra per la vulnerabilità cresciuta di quell'attrezzatura,
dati i progressi della tecnica militare, della aviazione e della propaganda.
3. Importanza delle istituzioni corporative per l'economia di guerra.
Vero è che a queste esigenze corrisponde, espressa dalle circostanze, la
possibilità di un'incredibile resistenza alla lunghezza e severità dello sforzo.
Ma questo a patto di un duraturo efficace adattamento delle istituzioni.
Principalmente in triplice senso:
a) la espansione dei vecchi parziali problemi
di finanziamento della guerra, prima risolubili con manovre monetarie creditizie
fiscali, in un problema più generale di continua e totale mobilitazione
economica;
b) il collegamento più stretto e continuo fra strategia militare e
strategia economica;
c) la continuità di marcia della vita economica, nella
sutura maggiore possibile fra economia di pace preparata per la guerra e vera e
propria economia di guerra.
Non vi è una semplice mobilitazione militare e una mobilitazione civile ad essa
sovrapposta più o meno lentamente e parzialmente; vi è una mobilitazione totale
di esercito e lavoro, di tecnica e ricerca scientifica, di agricoltura e
industria, di economia e finanza, per la guerra totale, terrestre aerea navale,
militare politica ed economica. Il fatto economico, senza essere proprio al
centro di questa guerra totale, vi gioca una parte importantissima. Per i fatti
tecnici mostrati e per la rilevanza che vi acquista il fattore economico, la
condotta, la durata, il successo e le conseguenze della guerra sono anche
problemi di efficiente organizzazione economica. Ma occorre perciò una nuova
tecnica delle istituzioni, adeguata alla nuova tecnica della guerra.
Se le istituzioni in genere hanno grande importanza nella condotta della guerra,
quelle di un'economia diretta come appunto attuate in Italia, sono
particolarmente opportune, col loro principio corporativo come norma di azione e
come forma di organizzazione. Un'organizzazione strumentale dell'economia fatta
di produttori nei quadri dello Stato può realizzare la continua aderenza della
politica economica e finanziaria di guerra alle forze del sistema economico,
pronta con i suoi quadri e con le sue regole di condotta ad assicurare la
continuità dell'agire di quelle forze nel più sicuro adattamento alle nuove
esigenze. Essa può procurare l'orientamento dell'economia ai fini della lotta,
di fronte a una tecnica della guerra che richiede strutture di lunga e costosa
preparazione e quindi la possibilità di un passaggio insensibile dall'economia
di pace all'economia per la guerra, all'economia di guerra e poi di nuovo
all'economia di pace, con la minore alterazione possibile delle strutture
economiche. Con la sua efficacia organizzatrice ed educatrice di una elevata
psicologia delle forze economiche nazionali, essa può procurare continuamente e
sicuramente la sintesi delle forze economiche sociali e politiche, nella
subordinazione degli interessi particolari e di gruppo agli interessi generali
della nazione in lotta, in una disciplina che sopprime l'antitesi fra economia
privata ed economia pubblica, fra economia e finanza, fra manovra monetaria e
movimento reale dei beni.
Nella sua essenza produttivista, l'economia corporativa può offrire le
condizioni prime di un'economia della guerra totale, cioè la disponibilità
pronta e adeguata dei molti beni a questa occorrenti, utilizzando nella
concentrazione massima delle forze produttive l'iniziativa privata e
l'assistenza statale in uno sforzo razionale coordinato e continuo. Essa può
coordinare la disciplina della produzione e dei consumi, del commercio e del
credito, in un controllo integrale dei rapporti di scambio del mercato interno;
e con l'autarchia mettersi nelle condizioni migliori per superare le conseguenze
della frattura del mercato mondiale, assicurando tuttavia, in una coordinazione
unitaria del commercio estero ancora possibile, gli approvvigionamenti necessari
o utili alla guerra.
4. La preparazione alla guerra.
Quattro gruppi di problemi si presentano all'economia di guerra presa nella
sua più larga espressione:
1) come predisporre il paese alla guerra;
2) come
condurre la guerra, cioè: a) con quali risorse economiche (finanziamento in
senso lato); b) con quali mezzi finanziari da accentrare nello Stato
(finanziamento in senso stretto);
3) come distribuire i costi della guerra
(distribuzione che deriva in gran parte dal finanziamento vero e proprio);
4)
come convertire l'economia dall'assetto di guerra all'assetto di pace (che
dipende dal modo onde la guerra è condotta e se ne intendono liquidare i
carichi).
Se la nuova tecnica della guerra impone un grande processo di trasformazione ed
organizzazione economica, è chiaro che questo non può improvvisarsi, dev'essere
anzi minutamente e tempestivamente preparato. La necessità di predisporre le
attrezzature necessarie specialmente industriali, che sono a ciclo produttivo
assai lungo, importa il vincolo tra l'economia di pace e l'economia di guerra; e
al centro di questo vincolo è l'organizzazione. Non è facile passare da un
equilibrio libero a un equilibrio strettamente vincolato; e d'altra parte un
tecnico militare poté giustamente dire che vince la guerra, oggi, chi sa meno
allontanarsi dalle condizioni di pace. Or siccome ciò non può voler dire che si
possa sostenere l'immane sforzo della guerra moderna coi mezzi disponibili nella
pace e vivendo come in pace, significa invece che già in tempo di pace bisogna
preparare le strutture economiche e finanziarie adeguate alla condotta della
guerra, sicché il passaggio del paese dal piede di pace al piede di guerra
avvenga senza attriti e ritardi.
Perciò l'economia di guerra non si riduce più soltanto al problema di costituire
in seno all'economia nazionale un'organizzazione destinata al potenziamento
bellico della nazione (cosiddetti piani di mobilitazione militare e civile, e
neppure soltanto all'economia concepita in funzione della difesa nazionale
durante la lotta (economia di guerra vera e propria, cioè di tempo di guerra).
Si concepisce come un'economia nazionale tutta tempestivamente organizzata in
modo tale da permettere il passaggio dalla pace alla guerra in piena efficienza
(economia per la guerra, o di guerra in tempo di pace, o militare).
Le trasformazioni strutturali dell'economia nei rapporti internazionali con
forme sempre più aspre di lotta e di vera guerra economica; l'esperienza
dell'altra guerra sugli stretti legami fra guerra ed economia; la persistenza di
problemi politici internazionali non soluti, fra imperi conservatori ad ogni
costo e paesi giovani ad ogni costo espansivi: v'è in ciò abbastanza per
spiegare l'ammonimento del Duce, che non vi è differenza fra economia di pace ed
economia di guerra e che il fatto, meglio il fato della guerra, deve dominare
l'economia. L'economia diretta corporativa e quella nazista sono forme di
economia militare permeate di questa filosofia. Ed esse hanno reso decisivi
servizi per il passaggio dalla pace alla guerra e per la condotta di questa.
Dal punto di vista economico, la possibilità dell'insensibile passaggio
dall'economia di pace a quella di guerra aperta consente di osservare la regola
fondamentale della continuità della vita economica, tanto essenziale per la
condotta della guerra totale moderna. Dal punto di vista finanziario, la intensa
e lunga preparazione delle strutture necessarie alla guerra ne diluisce e
diminuisce i costi, in quanto le spese sono distribuite in più lungo periodo,
con anticipazioni effettuate in tempi più favorevoli di prezzi più bassi, di
maggiori disponibilità, di più facili approvvigionamenti, a saggio di interesse
più mite. Si aggiunga il beneficio della preparazione psicologica, che fa venir
meno i fenomeni di percussione sul mercato monetario e finanziario e dei beni,
che di solito accompagnano lo scoppio non preveduto della guerra. Infine si ha
la possibilità di predisporre un piano non teorico ma concreto, vicino alla
realtà ogni giorno vissuta di collegamento fra l'economia di pace e l'economia
di guerra, per una sutura compiuta fra l'una e l'altra, adeguata alla difficoltà
e complessità dei problemi che lo scoppio della guerra pone, specialmente con la
mobilitazione di tutte le risorse della nazione in essa impegnata.
Il successo travolgente della Germania belligerante di oggi si deve a questa
minuziosa preparazione delle strutture economiche necessaria alla guerra,
secondo un piano coerente, stabilito anche nei minimi particolari e
inflessibilmente attuato, solo con lievissime modificazioni suggerite dagli
eventi. Ma in genere le predisposizioni del tempo di pace per adattare
preventivamente l'economia nazionale allo stato di guerra sono un'esigenza
fondamentale, nella pianificazione dell'economia di preparazione alla guerra; e
sono l'oggetto di tentativi compiuti da anni con vario successo, secondo lo
spirito diverso e le diverse istituzioni, in tutte le grandi potenze del mondo.
La preparazione alla guerra implica principalmente, ma non solamente: il
potenziamento dell'economia generale, che costituisce un pegno di maggiore
resistenza e di successo; la specifica predisposizione di impianti industriali
in ombra, in genere trasformabili con costo minimo e rapidità massima ai fini
della guerra; un più stretto controllo dell'attività produttiva e una già
avviata disciplina dei consumi, attraverso sopratutto organi appropriati di
distribuzione e circolazione dei beni; l'autarchia economica e finanziaria in
previsione della rottura del mercato internazionale e della chiusura del mercato
interno; accordi con paesi territorialmente vicini e politicamente affini o
neutri per forniture di materie prime e beni strumentali o di consumo
indispensabili; adattamento preventivo dell'economia monetaria all'economia dei
beni; elasticità del sistema fiscale; istituti giuridici adeguati al
raggiungimento di questi fini diversi, che ne dirimano le difficoltà e le
contraddizioni, in un clima di sicuro affasciamento di tutte le energie nazionali
allo scopo ultimo del successo della guerra.
Allo scoppio della guerra poi, è lo Stato che nella quasi completa evizione del
meccanismo dei prezzi avoca a sé la valutazione dei bisogni e la distribuzione
delle risorse disponibili per il gruppo intero, cercando di realizzare
continuamente un nuovo equilibrio generale. Anche l'economia di guerra ha un
problema centrale di equilibrio: di equilibrio generale, più che di equilibri
parziali. Perciò non si tratta tanto di particolari problemi e di minute
provvidenze; di cui ciascuna può essere razionale, o solo opportuna, in sé, e
malgrado ciò dannosa alla economia dell'insieme. L'economia di guerra, intesa
come dev'essere nel senso più lato, è economia di blocco e di massa. Come questa
medesima essenza della moderna realtà di pace porta all'economia regolata per
piani, molte ragioni di più richiedono oggi un'economia pianificata per la
guerra.
La guerra sottopone le strutture economiche a uno sforzo immane; ch'esse possono
ben sopportare, a condizione che l'azione sia coerente in se stessa e il più
possibile aderente a quelle strutture: le quali sono insieme di forze non
automatiche ma umane, tuttavia ubbidienti a una loro logica, la logica intima di
un equilibrio generale anche esso non meccanico, ma tuttavia organico. Ora
appunto l'unità organica dell'economia generale richiede una direzione organica
dell'economia di guerra: una politica economica fatta come possibile più
organica, che lasci il minor margine all'improvvisazione allo sperpero
all'errore: cause di maggior costo, fatale agli stessi fini immediati della
guerra, in una situazione che richiede avarissima amministrazione di risorse
limitate, in un mercato chiuso, per dati scopi di «massimo».
Vero che, come diceva Machiavelli, non l'oro ma i buoni soldati vincono la
guerra; e quelli che portano le armi, come gli altri che producono in ogni
angolo del paese, devono avere tesori di quello spirito di sacrificio che
sopratutto occorre. Ma per diminuire i loro sacrifici, che pesano sulle
possibilità di resistenza attuale e sulla vitalità futura della specie,
sopratutto per renderli non inutili, anzi quanto più possibile efficienti, in
una modificata tecnica della guerra, altamente meccanizzata, bisogna pensare
alla preparazione di adeguate strutture tecniche ed economiche : dalle armi e
gli indumenti e il nutrimento sufficiente pei fronti esterni, all'equa
distribuzione delle possibilità di vita e dei costi economici e sociali nel
fronte interno.
La cosa è più facile se appunto si tratta del passaggio da un equilibrio non
libero, ma già vincolato con piani corporativi e autarchici, per la guerra, a un
equilibrio più strettamente e razionalmente vincolato, di guerra aperta e
totale. Ma vi è sempre il pericolo di perdere di vista le forze prime del
sistema, con provvedimenti empirici e parziali o di più facile attuazione, ma
vani e dannosi, specie nella misura in cui concedono a motivi politici o
sociali, pur fondati ed evidenti, ma che se vengano meno ai fini essenziali
della guerra vengono identicamente meno a queste più vicine ragioni politiche e
sociali.
I danni, non solo economici ma politici e sociali, degli espedienti demagogici
dell'altra guerra sono da tal punto di vista molto istruttivi. Per questa
esperienza e per la migliorata tecnica della politica economica e finanziaria,
il problema dell'economia di guerra è oggi più esattamente determinato, e perciò
stesso di più facile soluzione astratta. Se anche ciò non elimina la grande
difficoltà delle soluzioni concrete, la conoscenza degli elementi determinanti e
la loro sistemazione in un piano razionale sono fattori assai utili di successo.
Intendiamo, in un piano come oggi dev'essere, per la nuova tecnica della guerra,
generale, che i piani parziali e slegati di un tempo integri e coordini
nell'insieme: quelli della produzione, della distribuzione, del consumo, del
risparmio, del finanziamento, e infine della ricostruzione.
5. I problemi essenziali dell'economia dì guerra.
La guerra si presenta con questi fenomeni economici fondamentali, tra loro
reciprocamente connessi perché, piuttosto, aspetti di uno stesso fenomeno:
a) una riduzione della generale capacità di produzione del paese belligerante,
per la chiusura del mercato e per le energie sottratte al lavoro e chiamate al
servizio militare, e per:
b) una trasformazione dell'indirizzo della produzione, da beni di più o meno
immediata riproduttività a beni che non saranno affatto o saranno solo entro
lungo tempo produttivi (produzioni di guerra); che implica:
c) un maggior consumo sia di beni capitali che di beni diretti, necessari per
l'armamento e il mantenimento dell'esercito, quindi:
d) una deviazione dei beni disponibili dai consumi civili e privati ai consumi
militari e pubblici.
Ne consegue che i problemi fondamentali dell'economia di guerra consistono:
a) nel come aumentare la disponibilità dei beni e ridurre certi consumi, per
rovesciare i termini della fondamentale alterazione dell'equilibrio economico
risultante da aumento di consumi e diminuzione di produzione, sì da difendere ed
accrescere certo margine fra produzione e consumo, cioè certo risparmio;
b) nel come destinare questo risparmio ai bisogni diretti della guerra, cioè
come attuare una trasformazione dell'indirizzo della produzione, cioè
dell'offerta dei beni, e dell'indirizzo del consumo, cioè della domanda dei
beni, tale che quest'ultimo scopo veramente finale (per-hé in fondo si tratta
di avere la massima quantità di beni da gettare nel fuoco della guerra) sia
raggiunto.
Questo fine dev'essere raggiunto:
1) nel modo più
pronto : il successo della guerra moderna di urto dipende dal tempo più o meno
breve in cui le necessarie trasformazioni delle strutture economiche possono
attuarsi; che è spiegazione della necessità di piani accurati di preparazione nell'accennata saldatura fra economia di pace ed economia di guerra;
2) nel
modo meno costoso economicamente : che dipende anche dalla sicurezza e prontezza
delle trasformazioni, e influisce per molto sulla soluzione del problema
centrale di alimentare efficacemente e durevolmente la guerra;
3) nel modo meno
costoso socialmente, sopratutto ripartendo equamente il costo economico
necessario; e prevenendo od attenuando la redistribuzione di ricchezza implicita
nelle trasformazioni di cui trattasi, e le conseguenti lotte fra i gruppi
sociali, che turbano oltre l'equilibrio economico quello sociale e quello
politico, complicando i problemi della guerra e quelli della ricostruzione.
Le risorse della guerra.
1. L'alimentazione della guerra.
Aspetto fra tutti essenziale della guerra moderna, lunga anche se di urto per
le maggiori possibilità di offesa e di resistenza, e in ogni caso costosissima,
è la necessità di continuamente «alimentarla» fino al successo. E alimentarla
non si può con le riserve accumulate, sì col lavoro e la disposizione al
sacrificio attuali; non attendendo ma anticipando la vittoria, prima
dell'esaurimento, con una preparazione tecnica superiore che non è fatta solo di
risorse materiali, ma sopratutto di capacità e di spirito: della volontà di
tutto un popolo fiducioso nelle proprie forze attuali e nel proprio destino
avvenire. Ciò appunto perché la guerra totale è quella «lotta d'anime» di cui
parlava Polibio, ed è vera guerra di popoli, e impegna tutte le energie entro
certi limiti inesauribili di questi; cui la tecnica da parte sua offre ampie
possibilità di sostituzione, pur in quel minore campo di beni concreti che
possono ritenersi indispensabili alla condotta bellica.
La guerra moderna non può essere alimentata, per il suo stesso carattere, se non
con i mezzi più ingenti creati, o comunque messi a disposizione dei consumi
bellici, durante il suo svolgimento. L'impiego delle risorse economiche
necessarie costituisce il finanziamento in senso lato, economico della guerra. I
vecchi problemi di finanziamento, cioè di prelievo dei mezzi finanziari
necessari allo Stato per procurarsi le risorse da destinare alla guerra, si
risolvono nel regolamento totale dei fattori fondamentali dell'economia. Fatto
primo su cui la tecnica finanziaria, quantunque progredita, deve poggiare è
l'esistenza di un flusso di beni materiali necessari per la sussistenza
dell'esercito e della popolazione e per la produzione del materiale bellico.
Flusso non fondo, perché la popolazione durante la guerra continua a produrre;
anzi deve verificarsi da parte sua una maggiore offerta di lavoro, a compenso
della cessazione del lavoro produttivo dei chiamati alle armi, e una maggiore
offerta di capacità organizzative e di ritrovati tecnici sostitutivi, stimolati
dal fatto nuovo oltre il loro naturale progresso che ha oggi del fantastico.
All'aumento della produzione deve d'altra parte corrispondere una diminuzione
spontanea, necessaria o procurata di certi consumi. Così per duplice via si
alimenta il flusso dei beni da sacrificare alla guerra.
Problema centrale dell'economia di guerra è quello di sanare la contraddizione di
una dilatazione del reddito consumato in un periodo in cui il reddito prodotto
si restringe. Questo squilibrio caratteristico dell'economia straordinaria di
guerra, fra bisogni e disponibilità con cui fronteggiarli, si può sanare agendo
coerentemente e convergentemente sui due fattori essenziali di esso. Cioè:
a) riducendo i consumi di beni sia diretti che strumentali, appena appaiano
concorrenti coi consumi di guerra, quindi i consumi privati non necessari alla
guerra e i consumi pubblici per servizi civili; e anche ì consumi pubblici di
guerra amministrando economicamente, beninteso secondo la logica dell'economia
generale della guerra;
b) aumentando le disponibilità. Aumentare le disponibilità si deve: 1) anzitutto
accrescendo l'offerta di lavoro e di capacità organizzative e di ogni altro
fattore produttivo, per aumentare o attenuare la diminuzione del reddito
attuale. 2) E poiché malgrado ciò e malgrado la economica amministrazione dei
consumi resta sempre un margine fra il reddito attuale e gli ingenti bisogni
militari, occorre trasportare nel tempo ossia trasformare parte dei redditi
futuri della nazione in reddito da consumare attualmente, utilizzando pei
consumi presenti il patrimonio accumulato. Si tratta dunque di mobilitare tutte
le risorse che sono, o possono venire, a disposizione del gruppo.
2. Le riserve dinamiche.
Sebbene sussidiarie, sono tuttavia importanti queste risorse che possono
venire a disposizione del gruppo, sollecitate dall'eccezionale bisogno di una
dilatazione di certi consumi. Sono le cosiddette riserve dinamiche: tanto
maggiori, quanto maggiori sono la ricchezza materiale, lo sviluppo economico e
tecnico, il tenore normale di vita e quei capitali immateriali che sono
costituiti dall'ordinamento istituzionale dal patriottismo dallo spirito di
sacrificio del gruppo. Sono le riserve dinamiche spesso decisive per la
resistenza e quindi per il risultato della guerra. Identifichiamone alcune :
a) In primo luogo la capacità di produzione, per esistenza di servizi di
capitale e lavoro non sfruttati. La capacità di produzione è rivale dei fattori
personali nello stesso combattimento, e si ha secondo il grado di questa
sostituibilità la guerra dell'oro o del ferro, del sudore o del sangue (per
esempio, mentre gli inglesi contano inconsideratamente sulla preponderanza che
dovrebb'essere schiacciante del «material power» il nostro paese non ha grande
margine di scelta fra l'impiego degli uomini e l'impiego dei mezzi meccanici, e
ciò ha importanza grande se non decisiva, nella moderna guerra meccanizzata, e
spiega alcune vicende della guerra in corso).
b) Riserva pure importante è la disponibilità di capitali già impiegati, ma da
trasferire in produzioni occorrenti per la guerra.
c) Rivale della capacità di lavoro e della disponibilità di capitali, impiegati
o non, è la capacità di progressi tecnici. La guerra non è mai del tutto
distruttiva, in quanto seleziona i processi produttivi, e sotto Io stimolo del
bisogno e del pericolo e della chiusura dei mercati promuove i progressi
tecnici.
d) Altra riserva dinamica importante è la capacità di restrizione dei consumi,
ch'è tanto maggiore quanto più elevato è il benessere generale già diffuso nel
gruppo, perché questo consente riduzioni unitarie minori e meno sensibili con
rendimento totale maggiore di risparmio. Ma è anche entro certi limiti vero che,
non la maggiore compressibilità di bisogni ormai irrigiditi dall'egoismo vince
la guerra, sì la scarsità dei bisogni, che meglio assicura una condotta
necessariamente stoica della guerra. «Cartagine, che faceva la guerra con la
sua opulenza contro la povertà romana, si trovava, per ciò stesso, in svantaggio: l'oro e l'argento si esauriscono; la virtus, la costanza, la forza e la
povertà non si esauriscono mai» (Montesquieu).
e) Perciò integrazione necessaria di quest'ultima e delle precedenti riserve
dinamiche è la risorsa della superiorità dell'organizzazione militare economica
amministrativa sociale e politica: insieme di impianti fissi, quindi già in
opera e provati, non improvvisabili e non sostituibili facilmente. Alla mancanza
di questa risorsa si deve, per esempio, la sterilizzazione delle altre immense
risorse russe.
L'inclusione di tutte queste e altre riserve dinamiche fra le risorse della
guerra costituisce il potenziale di guerra, la vera fonte che a prima vista
sembra miracolosamente inesauribile dell'immenso flusso di beni che la guerra
totale divora; e che è condizionata dalla popolazione e dal territorio, dalla
situazione geografica e dalle relazioni politiche, dalle materie prime e
dall'attrezzatura industriale e commerciale, dalle fonti di energia e dai
trasporti, dalla capacità tecnica e dalle riserve spirituali.
La consapevolezza di questo fatto è un portato
della nuova tecnica della guerra e della nuova tecnica delle istituzioni, che a
loro volta cercano di ispirare ad esso tutta la loro condotta. Ma già Pantaleoni
diceva con un'immagine espressiva che i mezzi bellici sono un flusso, la cui
alimentazione può essere superata da un deflusso; il serbatoio è dato dai beni
esistenti più il flusso di quelli che si aggiungono durante il corso della
guerra; serbatoio e limite dei mezzi bellici è il capitale nazionale, non tanto
nella sua consistenza assoluta attuale, quanto nella sua consistenza potenziale
e nella possibilità della sua trasformazione in beni di guerra. Che sono i due
problemi già accennati dell'economia di guerra come economia di produzione,
prima che di consumo: il problema della consistenza delle risorse disponibili,
e quello del loro nuovo impiego.
3. Le fonti delle risorse.
Già gli economisti classici, contro i mercantilisti, vedevano che la guerra
si alimenta non di oro ma di merci, di beni concreti attuali, neppure, come da
altri si riteneva, delle generazioni future. Perciò A. Smith diceva che un paese
non può mantenere in armi, senza rovinarsi, più di un centesimo della sua
popolazione: allora gli eserciti erano di minoranze come oggi, ma non certo
così armate. L'insufficienza delle maggiori possibili riserve, e anche del
flusso attuale di beni, era del resto ritenuta un limite insuperabile
dell'intensità e della durata dello sforzo bellico ancora dopo un secolo,
all'inizio del grande conflitto 1914-18. Ma l'esperienza di tale conflitto,
mentre confermava l'insufficienza dei cosiddetti tesori di guerra, mostrava
invece l'importanza della possibilità di procurarsi anzitutto con la produzione
corrente, per una durata anche lunga di una guerra anche totale, un flusso
ingente di beni utili alla guerra. Ciò però si identifica con l'impiego delle
risorse, e dovremo tornarvi in seguito.
a) A proposito ancora della consistenza delle risorse possibili, deve notarsi
ch'è oggi assurdo pensare ad una guerra alimentata col cosiddetto tesoro di
guerra. La Germania aveva allo scoppio dell'altra guerra mondiale un tesoro di
240 milioni di marchi oro, del tutto risibile appena si vide che durante una
grande battaglia del fronte francese in un solo giorno venivano consumate più
munizioni che nell'intera guerra franco-tedesca del 1870-71. Quello dei tesori
di guerra è un istituto superato dalla tecnica bellica, che già da tempo, pur
essendo meno progredita dell'attuale, rendeva insufficiente qualsiasi riserva,
per gli immensi impieghi di uomini e di materiali occorrenti. E d'altra parte la
tecnica finanziaria a questi incalcolabili bisogni può oggi provvedere dando in
mano allo Stato disponibilità per lungo tempo inesauribili, senza alcun
accantonamento preventivo perché appunto derivanti dalla produzione continua
della popolazione e dalla mobilitazione di risorse non tesoreggiate ma già
impiegate diversamente.
Diversa è l'importanza reale delle riserve di
merci accantonate pei bisogni di guerra. A parte certi svantaggi, come la loro
deperibilità fisica o tecnica, il costo del capitale immobilizzato, la
difficoltà e il costo della conservazione, la loro insufficienza; esse
costituiscono una forma assai utile di divisione del lavoro nel tempo : lavoro
accumulato e produzione anticipata di guerra, fatta quando ancora non era molto
costosa o del tutto impossibile come dopo lo scoppio del conflitto.
La riserva di oro e di valute parificate - meglio di quello, perché non vi sono
valute che presentino oggi ancora la sicurezza equivalente al possesso dell'oro,
- è vero tesoro di guerra; ma non nel senso che basti alla condotta della
guerra, pur essendo dell'ordine di grandezza non del milione ma del miliardo; sebbene nel senso ch'è costituita a tutela dell'equilibrio e a saldo eventuale
della bilancia dei pagamenti rispetto all'estero, in circostanze straordinarie
che sono cause di squilibrio, perché si ha bisogno di importare certi beni a
prezzi altissimi e non si può esportare dati i bisogni interni e le difficoltà
varie del traffico. La guerra chiude quasi del tutto il mercato nazionale,
secondo l'area che comprende e secondo gli accordi politici ed economici che
sono ancora attuabili con paesi stranieri, meglio se contigui o vicini o
politicamente amici. E in genere si ha una diminuzione del finanziamento estero,
sia in forma di prestiti pubblici e obbligazioni e partecipazioni azionarie, sia
in forma di crediti momentanei come scoperti e anticipazioni varie su titoli e
sconti di tratte, che servono al commercio normale.
b) Eppure i prestiti esteri a lungo termine sono fra le risorse più importanti
della guerra. Si calcola che un terzo dell'occorrente ai paesi dell'Europa
occidentale per l'alimentazione dell'altra guerra fu coperto con prestiti esteri
privati e statali. Essi impegnano il paese solo al pagamento dell'interesse e di
quote annuali di rimborso; quando non si tratta di prestiti politici fra
governi, che potranno addirittura ripudiarsi o annullarsi facilmente, come
appunto dopo l'altra guerra. In quanto quell'impegno sussista, è una semplice
ipoteca del patrimonio nazionale, i cui servizi si potranno agevolmente
sostenere con la produzione futura. In questo senso il prestito estero è un
modo, forse il solo, di riversare parte del costo della guerra sulle generazioni
future: parziale contropartita dei sacrifici che la presente sostiene per
trasmettere i frutti della guerra, quasi sempre utili in più o meno lungo
periodo. La generazione che fa la guerra si giova intanto dell'immissione netta
di risorse dall'esterno, proprio in una congiuntura in cui sono particolarmente
appetibili; sia pure solo per attenuare la liquidazione delle risorse accumulate
e fruttuosamente impiegate, che sono altrimenti utili alla condotta della guerra
e resteranno per le generazioni future fonte di entrate pel pagamento dei
servizi del prestito di guerra estero.
c) Altro modo di immettere risorse dall'esterno è
la requisizione di titoli esteri - di credito e di partecipazioni e proprietà
varie - in possesso di nazionali, previa indennità o corrispondente rilascio di
titoli di stato interni.
È, per esempio, questo il modo onde l'Inghilterra va
liquidando il suo primato finanziario mondiale a vantaggio degli Stati Uniti.
Viceversa, si possono vendere all'estero capitali immobiliari o partecipazioni
industriali esistenti nel paese; e addirittura posizioni territoriali
strategiche, come ancora nell'esempio dell' Inghilterra. Sono partite invisibili
della bilancia dei pagamenti, che servono a pagare beni di produzione o di
consumo necessari alla guerra; e appartengono piuttosto alla liquidazione di
capitale esistente.
L' Italia e la Germania conducono la guerra in regime di autarchia finanziaria,
né liquidando capitale esistente (crediti), né formando «capitale negativo»
(debiti). Possibilmente, al pagamento delle merci ad esse pure occorrenti, o
indispensabili perché di produzione estera esclusiva, provvedono con le
esportazioni di merci; che però fanno parte delle risorse interne di continua
produzione; sicché quelle non sono aggiunta di nuove risorse dall'estero, ma
semplice scambio. L'utilità di questo però, consistendo nel procurarsi certi
beni indispensabili, è già una cospicua risorsa aggiunta di guerra. E i crediti
a breve termine o di accettazione ottenuti dall'estero, in quanto servono ad
agevolare gli scambi utili e la conseguente manovra della bilancia dei pagamenti
senza far ricorso alle riserve auree, costituiscono anch'essi una risorsa di
guerra.
d) In genere, il mantenere la possibilità di scambi con l'estero costituisce una
risorsa indispensabile o comunque utile di guerra, purché siano strettamente
controllate le importazioni e le esportazioni in modo che le altre risorse non
vengano dannosamente diminuite, come avverrebbe nel caso dell'esportazione di
beni utili alla guerra e, viceversa, dell' importazione di beni che alla guerra
non sono indispensabili.
La possibilità di questi scambi è tanto più utile quando può verificarsi in
territori economici politicamente amici, specie se geograficamente contigui, al
sicuro dalle variazioni della tecnica che possono compromettere le esistenti
comunicazioni (per esempio, la rivoluzione dell'arma aerea ha compromesso il
dominio inglese dei mari, costituendo l'Inghilterra in condizioni di inferiorità
rispetto alla Germania, non più bloccata ma integrata da vasti spazi produttivi
contigui). Il «grande spazio vitale» ha questa funzione essenziale
nell'economia di guerra, alla quale comunque occorre un'autarchia non chiusa ma
espansiva, non rigida ma elastica, che assicuri gli approvvigionamenti
indispensabili.
e) L'essere una nazione in guerra mercato in tutto o in parte chiuso ne
diminuisce certamente le risorse, per quella parte che potrebbe procurarsi con
lo scambio e meglio col prestito. Sicché, esaurite le disponibilità di riserve
all'estero, la cui realizzazione e il cui scambio con merci e servizi, che soli
occorrono, trovano comunque attriti nella chiusura del mercato, occorre una più
rigorosa diminuzione dei consumi e una dilatazione maggiore della produzione.
Come neppure queste risorse, di cui dovremo discorrere più a lungo, bastano,
occorre fare maggior conto del capitale disponibile. Già la liquidazione dei
crediti e averi nazionali esistenti all'estero e l'ipoteca verso l'estero di
capitale nazionale esistente all'interno, sono modi di rendere attuali redditi
futuri. Ma la mobilitazione del capitale o patrimonio accumulato per redditi
futuri ha diverso carattere e molto maggiore importanza quantitativa quando
avviene all'interno. E può avvenire: riducendo o esaurendo le scorte e i
capitali circolanti delle imprese, impiegando riserve di beni diretti o
strumentali (grano, ferro, ecc.), intensificando ed estendendo lo sfruttamento
di energie naturali e di impianti industriali (giaci-menti minerari, macchine,
opifici, fabbricati, impianti fissi in genere, sopratutto omettendo la
manutenzione e gli ammortamenti dei beni capitali esistenti.
Perciò specialmente si dice che il limite ultimo delle risorse di guerra sta nel
capitale trasformabile in beni utili alla guerra. Sembra impossibile convertire
strade in aeroplani ed edifici privati o pubblici in carri armati; eppure
omettendo gli ammortamenti e le manutenzioni di beni capitali di pace una parte
di questi si mobilita, e appunto sotto forma di quote di ammortamento e di
manutenzione passa ad arricchire il flusso del reddito, insomma dei beni che
servono immediatamente alla guerra.
È questo un altro modo di riversare sulle generazioni future una parte del costo
della guerra, pel fatto che quelle riceveranno un patrimonio da ricostituire
almeno in parte. Ma non ingiustamente, perché il capitale è stato accumulato
dalle generazioni passate e dalla presente, e questa può farne l'uso che crede:
anche quello di distruggerlo in una guerra, che può essere tuttavia una diversa
meno appariscente forma di investimento a vantaggio delle generazioni future, e
potenziare di queste l'attività e rendere facile il compito della ricostruzione.
Ciò tanto più, quanto meglio la generazione che ha condotto la guerra abbia
evitato l'esaurimento completo delle risorse capitalistiche del paese, che
aggraverebbe le condizioni della generazione futura ma anche il compito
immediato della ricostruzione. Vi è interdipendenza, come si sa, tra fondo e
flusso di beni: il flusso dipende dal fondo di capitali personali e materiali
disponibili e impiegati nella produzione; ma il fondo dipende a sua volta dal
flusso. Il flusso dei beni continuamente prodotti che intacca nella minore
misura possibile il fondo dei capitali è assai importante, non solo in
condizioni normali, ma anche in guerra, perché fra l'altro semplifica i problemi
del risanamento e della ricostruzione, che devono affrontare i presenti non i
venturi. Intanto, il flusso di beni attualmente prodotti e non consumati per la
soddisfazione dei bisogni normali di pace è decisivo per la resistenza e per il
successo, poiché allontana i limiti di esaurimento dei capitali disponibili.
Bisogna però considerare che anche l'alternativa di spingere oltre misura i
sacrifici della generazione che fa la guerra, attraverso aumento di sforzi e
limitazione di consumi, può ripercuotersi sulla generazione futura diminuendone
con l'efficienza fisica la produttività. Ciò torna a dire che la guerra costa
beni presenti e sacrifici della generazione che la fa; ma che d'altra parte
bisogna andar cauti nell'uso del capitale umano e di quello materiale, ch'è
necessario alla produzione presente e a quella futura, nella solidarietà
necessaria delle generazioni.
4. L'impiego delle risorse.
Comunque è sopratutto importante la dilatazione dell'attività produttiva
utile per la guerra. Che porta al secondo gruppo di problemi essenziali per
l'economia di guerra, quello della trasformazione dell'attività economica per la
deviazione del flusso dei beni disponibili da consumi e investimenti civili a
consumi e investimenti di guerra. Deviazione che a sua volta non manca di
influire naturalmente su quel flusso.
Il flusso del reddito nazionale nell'economia normale suole dividersi in quattro
correnti:
a) quota destinata a consumi privati;
b) quota destinata a
investimenti privati (nuove case, migliorie fondiarie, nuovi impianti
industriali, ecc.), che: 1) sono generalmente di pace, ma 2) possono essere
anche utili alla guerra;
c) quota destinata a consumi pubblici: che a loro
volta possono essere: 1) servizi civili, oppure 2) servizi di difesa e in
genere militari;
d) quota destinata a investimenti pubblici, che si distinguono
anche essi in investimenti pubblici, 1) per la propulsione dei servizi civili,
2) per la difesa militare e per la preparazione in genere alla guerra.
La guerra impone una trasformazione della distribuzione dei vari flussi di
impiego della ricchezza qui schematizzati : della ricchezza, non però solo del
reddito, questo essendo accresciuto della quota di liquidazione del capitale.
Tale trasformazione è tanto più profonda quando la guerra si inizia per
percussione, cioè senza specifica preparazione, ed è, come oggi si intende,
totale: eventualmente fino al punto di imporre di fare tabula rasa della vita
civile, come ha detto un giorno efficacemente il Duce. Ciò importa riduzione,
fino ai limiti del possibile, dei flussi a), b 1), c 1), d 1), a vantaggio
dell'espansione dei flussi b 2), c 2), d 2); ossia la riduzione ed eventuale
eliminazione dei consumi privati e pubblici non indispensabili alla guerra,
degli investimenti privati e pubblici non destinati a produzioni di guerra.
Il limite ultimo del potenziale di guerra sta nel flusso totale dei beni che
vengono resi man mano disponibili, anche attraverso la liqui-dazione del
capitale; ma il potenziale stesso dipende continuamente dalla compressione dei
flussi parziali destinati ai bisogni civili e di pace a vantaggio di quelli
necessari ai bisogni di guerra. E il problema centrale del finanziamento della
guerra, nella sua più lata accezione economica di apprestamento dei beni ad essa
occorrenti, consiste nel ristabilire l'equilibrio turbato dalla profonda
trasformazione dell'impiego dei normali flussi della ricchezza disponibile, e
mantenerlo, nel senso che la corrispondenza tra offerta e domanda, fra
produzione e consumo della quantità e qualità dei beni occorrenti alle nuove
esigenze sia pronta, esatta e continua. Il successo della guerra e il suo costo
ultimo dipendono da questo triplice carattere della manovra della sua economia.
In un'economia normale o di pace, e in un sistema economico liberale o misto,
cioè non collettivista, la corrispondenza tra offerta e domanda, fra produzione
e consumo, avviene attraverso la leva del prezzo, indice di alternative e
strumento di selezione dei bisogni e dei mezzi di soddisfazione. La guerra
implica necessariamente una nuova distribuzione degli impieghi della ricchezza
disponibile; e questa può avvenire per opera esclusiva dello Stato, mediante
l'avocazione diretta ch'esso faccia del necessario alla guerra e la
distribuzione del rimanente all'intera popolazione, secondo le attività di
ciascuno o secondo i bisogni o secondo i meriti, assicurando comunque un minimo
di esistenza compatibile con lo stato di guerra (è il sistema collettivista); o
può avvenire in primo luogo per opera dei privati, che si assicurerebbero la
parte della ricchezza collettiva indispensabile alla produzione e all'esistenza
in base al libero gioco delle forze economiche e alla libera concorrenza dei
bisogni, e il rimanente darebbero allo Stato con prestiti volontari e le normali
imposte (metodo liberale). Inutile dire che questi due metodi non esistono allo
stato puro; che possibile sarebbe il primo, impossibile oggi il secondo, e che
nelle moderne economie miste corporative o dirette si ha una combinazione
dell'uno e dell'altro con forme tuttavia quasi collettiviste.
Data l'urgenza delle trasformazioni occorrenti nel passaggio dalla pace alla
guerra e data l'assoluta imprescindibilità dei fini che in guerra devono
proporsi all'economia, il piano fissato dallo Stato positivamente o solo
concettualmente, preventivamente o solo per tentativi, decide delle alternative
e determina la selezione degli impieghi nelle vie volute, fissando più o meno
rigidamente secondo l'urgenza e la qualità dei bisogni il volume rispettivo dei
flussi di beni utilizzabili e la distribuzione diciamo così interna di ciascuno
di essi.
È lo Stato insomma che determina in via diretta o indiretta,
principalmente con opportune misure di politica economica e poi di politica
finanziaria, la quantità e l'indirizzo degli investimenti e della produzione, la
quantità e l'indirizzo dei consumi. Col vantaggio di attaccarsi al punto
strategico preminente del sistema, dal quale si possono dominare i fattori
essenziali dell'equilibrio; e di meglio coordinare i provvedimenti necessari,
per cui, ad esempio, il regolamento degli investimenti e della produzione a
favore dei beni utili alla guerra può limitare indirettamente i consumi
superflui evitando altre misure di politica economica e finanziaria. Anche
perciò occupa il primo posto nell'economia di guerra l'impiego delle risorse
disponibili alla produzione di guerra: la condotta economica della guerra è
anzitutto un problema di produzione : poiché il suo finanziamento diretto ha
luogo con la produzione corrente di beni nelle quantità e qualità richieste
dalla resistenza e dal successo, e poiché la mobilitazione del potenziale
produttivo può costituire un correttivo degli effetti inflazionisti del
finanziamento indiretto, monetario, fiscale, ecc.
5. La produzione per la guerra.
Il problema principale dell'economia di guerra è l'adattamento delle forze
produttive a nuovi bisogni quantitativamente e qualitativa-mente diversi; poiché
la guerra costa beni e servizi attuali, non futuri; e certi beni e servizi, non
altri.
Importante è mantenere più alto possibile il flusso di beni occorrenti alla
guerra, se esso proviene da un serbatoio, insieme di beni esistenti, la cui
alimentazione, in produzione attuale sopratutto, può essere superata dal
deflusso. Bisogna cercare di compensare le due ragioni di questo squilibrio:
certa diminuzione della produzione insita nell'impiego di molte energie
produttive all'uso delle armi, e d'altra parte un totale aumento dei consumi e
un'indubbia distruzione di ricchezza. È importante poter far fronte con risorse
sempre fresche ai divoranti bisogni di guerra, perché ciò allontana il limite
ultimo delle possibilità economiche. Come già accennato, la resistenza e la
riuscita della guerra e poi il passaggio alla pace, cui sarà necessario un basso
saggio di interesse dei capitali richiesti dalla ricostruzione, dipenderanno
dalla misura in cui il flusso dei beni occorrenti alla guerra continuerà senza
intaccare notevolmente il fondo di beni capitali esistenti.
Da ciò, l'importanza di una politica economica produttivista; aiutata dalla
nuova tecnica di guerra, che essendo piuttosto di minoranze specializzate turba
meno profondamente l'assetto produttivo e distrae minori energie per le pure
attività belliche, e aiutata dalla nuova tecnica delle istituzioni
economico-finanziarie corporative, essenzialmente produttivista. Un'economia
produttiva è altrettanto indispensabile alla guerra quanto una spada affilata:
ha detto giustamente il maresciallo Goering. Risorsa prima della guerra è la
dilatazione dell'attività produttiva, la possibilità di accrescerla sempre più,
in confronto del periodo di pace.
Ma l'adattamento delle forze produttive alle nuove esigenze implica pure
trasformazione qualitativa, nel senso che importano alla condotta bellica i beni
che si possono trasferire alla soddisfazione dei nuovi bisogni; quindi l'altro
limite vicino dello sforzo bellico è nella possibilità di trasformazione dei
beni esistenti in beni di guerra. Il carattere tecnico della moderna guerra
totale implica queste condizioni:
a) che la trasformazione non debba avvenire
all'improvviso, da un giorno all'altro, ma lentamente, attraverso attrezzature
industriali che servano possibilmente per la pace e per la guerra, come i
cosiddetti impianti in ombra
o reversibili per produzioni in serie e intercambiabili;
b) che continui ad
essere sufficientemente elastica e mobile, cioè ad adattamento continuo, per
l'eventualità di far fronte a cospicue richieste improvvise. Infatti il processo
produttivo ha diverso andamento e diversa lunghezza nei diversi settori, e
l'alternativa dell'utilizzazione dei beni diminuisce con l'inoltrarsi del
processo stesso verso la fase del prodotto pronto pel consumo finale, diminuendo
con essa la possibilità della trasformazione produttiva. Vi sono numerosi
prodotti che l'esercito usa nella stessa forma dei consumatori civili
(carburanti, alimenti, materiali vari), per altri (tessili, calzature) occorrono
trasformazioni lievi; ma oggi si tratta di produrre carri armati, armi
automatiche, ecc. in grande quantità, che richiedono modificazioni dell'intero
apparato produttivo. Industrie metallurgiche meccaniche chimiche e altre servono
per la pace e per la guerra; ma non è facile trasformare un'industria di guanti
in un'industria di aeroplani, se a questa oggi occorrono migliaia di macchine
varie non trasformabili. In economia di guerra è importante tener conto di ciò,
perché l'offerta è più rigida proprio quando dovrebbe più prontamente reagire ai
mutamenti della domanda, specie nel trapasso dalla pace alla guerra e fra le
diverse fasi di questa.
Queste varie esigenze richiedono un controllo continuo dello Stato; non solo,
come è ovvio, immediatamente sulle produzioni o fabbricazioni di guerra, ma su
tutto il processo produttivo, sulle possibilità di impiego di tutte le sue
risorse. I metodi di direzione della produzione di guerra sono:
a) la
statizzazione, già dal tempo di pace, dell'industria di armamenti e di certe
industrie-chiavi (minerarie meccaniche metallurgiche);
b) la requisizione in
vista del conflitto (statizzazione differita e temporanea);
c) il controllo
delle imprese private, di vera
e propria mobilitazione militare o civile, quindi più severo del normale
controllo di politica economica, che può andare sino alla ripartizione del
lavoro fra le imprese e alla loro organizzazione coattiva;
d) molteplici
interventi diretti normali o straordinari, come la distribuzione diretta del
credito e delle materie prime, la disciplina più stretta del finanziamento
e degli impianti, la localizzazione delle industrie, il vincolo e la cessione
obbligatoria a prezzo di impero di materie prime importanti (ferro, rame, ecc.),
la disciplina delle importazioni, ecc.
Tutte le varie misure della mobilitazione
industriale devono inspirarsi alla consapevolezza del grande posto che oggi
occupa il potenziale industriale e tecnico nel generale potenziale di guerra. E'
forse vero che la guerra oggi si vince prima nelle officine e poi sui campi di
battaglia. Perciò la forza militare è maggiore nei popoli industriali: e questa
è un'importante giustificazione militare dell'autarchia, non solo come politica
di autosufficienza, necessaria in guerra, ma come acceleramento di sviluppo
industriale.
6. L'organizzazione del lavoro per la guerra.
A questa organizzazione statale del lavoro produttivo nazionale in genere
giova particolarmente la collaborazione dei vari gruppi di produttori:
organizzati in sindacati e portati sul piano dell'azione amministrativa statale
attraverso le corporazioni, come in Italia, o altrimenti come in Germania. La
disciplina corporativa o analoga giova specialmente all'organizzazione del
lavoro umano in senso stretto, che per le sue reazioni biologiche e psicologiche
è ancor più in guerra tanta parte del lavoro produttivo; sopratutto in un paese
il quale, come ad esempio il nostro, deve chiamarlo a supplire alla scarsità di
altri capitali produttivi. Ma dappertutto, in genere, bisogna durante lo sforzo
bellico lavorare di più e razionalizzare meglio il lavoro; per un maggior
rendimento, che non dev'essere solo quantitativo, ma anche qualitativo, specie
nella guerra tecnicizzata moderna dove sono largamente impiegati mezzi e armi di
precisione, il cui impiego dev'essere sicuro per non compromettere l'efficacia
della stessa azione militare: artiglierie e munizioni mal fabbricate servono
poco, se pure non danneggiano le stesse truppe che le adoperano.
Un giudice non sospetto della disfatta francese, il Maurois, ha indicato fra le
sue cause gli stolti metodi seguiti nella mobilitazione industriale: operai
specializzati indispensabili per la fabbricazione di aeroplani e cannoni
vennero inviati in caserme di provincia a scopare cortili e sbucciare patate; i
malumori e i contrasti politici danneggiavano la produzione, mentre lo stimolo
del guadagno non era. sufficiente a intensificare l'attività di molte imprese:
per mesi e mesi la Francia continuò a lavorare al comodo ritmo del tempo di
pace. Altro occorre alla guerra; e l'opposta esperienza germanica ne è
testimone, con la sua immensa superiorità in fatto di armamento, dovuta alla
straordinaria potenza dell'organizzazione industriale. Non tanto la ricchezza
occorre alla guerra, quanto l'organizzazione del lavoro produttivo, specialmente
umano. Certo, la ricchezza rende più facilmente solubili problemi che, quella
mancando, sono insolubili o quasi. Ma la sconfitta francese dimostra che un
popolo ricco può perdere con la guerra se stesso, se non abbia provveduto
tempestivamente a quell'organizzazione e se gli manchi la materia umana - numero
e spirito - per compierla.
Il maggior lavoro utile alla guerra e la
limitazione dell'offerta normale per la destinazione di molti lavoratori al
servizio militare vero e proprio devono trovare un compenso:
a) nella
limitazione o soppressione di servizi non assolutamente indispensabili;
b)
nella offerta individuale di lavoro più lungamente protratta e tecnicamente più
efficiente, di individui che sono già impiegati;
c) nella offerta aggiunta di
lavoro di persone prima non impiegate (donne anziani fanciulli: la cosiddetta
diluizione del lavoro);
d) nella più rigida organizzazione tecnica e giuridica
del lavoro, che in paesi dove non sono normalmente vietate elimina le
interruzioni di lavoro per controversie salariali o altre, più frequenti durante
la guerra; e che è utile anche in paesi corporativamente organizzati per imporre
meno sensibilmente il maggiore sforzo, i maggiori sacrifici necessari al
successo della guerra.
A quest'ultima serie di provvedimenti appartengono, per esempio, quelli che
mantengono:
a) certa fluidità del mercato di lavoro, perché la richiesta di
trasformazioni produttive incontri l'offerta di lavoro occorrente nella qualità
domandata, ciò che implica, oltre la più intensa attività di collocamento, una
speciale preparazione e talvolta una rieducazione tecnica del personale; e
tuttavia:
b) una maggiore rigidità dell'offerta, che può andare sino al lavoro
obbligatorio e alla militarizzazione, per evitare una dannosa frequenza di
allontanamento dalle imprese del lavoro, specie se qualificato, la cui offerta dev'essere pei bisogni di guerra continua;
c) una maggiore rigidità e severità
delle con-dizioni di lavoro, specie con la fissità delle garanzie contrattuali,
la sospensione di limitazioni legislative alla libertà di lavoro per la tutela
del lavoro stesso, ecc.: compensando questi necessari provvedimenti restrittivi
con una intensificata assistenza assicurativa o di fabbrica.
I problemi che riguardano la politica del lavoro in guerra si possono
raggruppare in:
a) problemi di organizzazione tecnica, per l'aumento della
produttività;
b) problemi di organizzazione giuridica (per la continuità della
produzione nella cooperazione fra i diversi fattori, sotto la maggiore
disciplina e la corrispondente maggiore responsabilità degli imprenditori e
dirigenti di impresa);
c) problemi di organizzazione economica, che riguardano
specialmente la retribuzione del lavoro. Poiché quest'ultima è il reddito della
massima parte della popolazione e la massima parte del reddito nazionale, che è
potere di acquisto, è importantissima per il problema della limitazione dei
consumi, cioè interessa non più la produzione ma il risparmio per la guerra.
Il risparmio per la guerra.
1. La disciplina dei consumi nell'economia di guerra.
Poiché la guerra si alimenta di vari beni attuali è evidentemente importante
che i privati cittadini, e Io Stato stesso in quanto produttore di servizi
civili, si privino del consumo di beni che possono servire alla condotta della
guerra. Quindi la disciplina dei consumi dopo quella della produzione, e
anch'essa nella duplice portata quantitativa e qualitativa, assume nel quadro
dell'economia di guerra un posto di grande rilievo.
La limitazione dei consumi deve imporsi allo Stato stesso; sia nelle spese
ordinarie civili, che vanno ridotte al minimo compatibile col mantenimento delle
strutture amministrative politiche istituzionali utili alla stessa condotta
della guerra, sia specialmente nelle spese un giorno straordinarie che vanno
assumendo certo carattere di continuità nella vita espansiva dello Stato
moderno, come quelle per impieghi e investimenti vari di media e lunga durata.
Così, per esempio, era un errore, presto riparato con la revoca del
provvedimento, stanziare in piena guerra quattro miliardi per opere pubbliche,
sia pure giustificate dal timore della disoccupazione, che non doveva del resto
aver luogo perché in una guerra di grandi dimensioni e di grandi mezzi sebbene
di minoranze combattenti non possono aversi fattori produttivi disoccupati se
giochi l'organizzazione del mercato; era un errore, a parte la necessità del
finanziamento con emissioni monetarie, causa di aumento dei prezzi, di nuove
spese dello Stato e di inflazione; perché metteva tra loro in concorrenza, come
poi si vide, domande di materie prime e di capitali produttivi da parte
dell'amministrazione civile dei lavori pubblici e dell'amministrazione militare
delle fabbricazioni di guerra.
La limitazione dei consumi vale, con notevoli riserve, anche per le vere e
proprie spese di guerra e i consumi di guerra. Le necessità belliche, con la
loro urgenza ch'è del resto in se stessa fattore di maggior costo, possono
svincolare l'amministrazione della guerra da grette considerazioni strettamente
economiche di costo; ma solo entro certi limiti, poiché non si saprebbe
concepire lo sperpero o l'impiego non necessario o solo non razionale delle
risorse disponibili per la guerra, proprio in una congiuntura in cui le risorse
sono più che mai limitate e i bisogni cui provvedere sono ingenti. Anche dal
punto di vista strettamente militare della economia generale della guerra, della
resistenza e del suo successo, è di estrema importanza che ogni mezzo sia
impiegato con la maggiore parsimonia e, in genere, nel miglior modo possibile.
Ma la limitazione quantitativa e la disciplina qualitativa dei consumi deve
rivolgersi in primo luogo ai privati, per far sì che la maggior frazione
possibile di beni attuali utili alla guerra resti a disposizione dello Stato. Da
tal punto di vista sarebbe particolarmente opportuna l'accennata condotta
collettivista della guerra, nel senso che lo Stato avocasse a sé
l'amministrazione diretta di tutti i beni strumentali e di consumo utili
all'alimentazione della guerra e della popolazione civile, e ne facesse una
distribuzione diretta secondo una gerarchia di importanza dei bisogni da
soddisfare, con quelli di guerra naturalmente al primo posto. Potrebbe così lo
Stato fare nel modo più sicuro la distribuzione del flusso dei beni disponibili
secondo il piano della nuova situazione di equilibrio creata dalla guerra.
Questa redistribuzione di impieghi e insomma di consumi di beni diretti o
strumentali avverrebbe nel modo più economico, evitando errori e resistenze e
ingiuste appropriazioni di particolari. Ma solo da un punto di vista astratto,
perché una siffatta organizzazione integralmente collettivista dell'economia
incontrerebbe attriti concreti nel modo di sentire degli uomini ed altri costi
nella piena burocratizzazione dell'economia. Anche di fronte alle nuove esigenze
che accrescono il carattere collettivo della vita economica è opportuna certa
libertà economica.
Libertà tuttavia strettamente disciplinata, nel senso che i bilanci delle
imprese e delle famiglie sono sottratti alla libera determinazione dei
produttori e dei consumatori per quanto riguarda il consumo dei beni strumentali
e diretti, e sono subordinati dalla coazione statale diretta o indiretta alle
nuove esigenze nazionali; imprimendosi perciò stesso all'economia certo
carattere collettivista. Si tratta in definitiva di far sì che ogni cittadino
non combattente consumi meno di quanto consumava abitualmente, per risparmiare
una parte dei beni occorrenti al maggior consumo di armamenti alimenti e
attrezzature varie della popolazione combattente. E ragioni militari economiche
sociali richiedono che non si lasci ai singoli neppure la scelta dei consumi da
limitare. La disciplina qualitativa si combina con quella quantitativa,
ricorrendosi a vari mezzi secondo i fini da raggiungere entro il quadro di
quello ultimo, di una limitazione del consumo dei beni necessari alla guerra. Vi
sarà il tesseramento dei consumi di prima necessità, che sarebbe antisociale
lasciare alla concorrenza dei consumatori provvisti di diversa forza di redditi
: onde anche il sussidio di prezzi politici pei consumatori economicamente
deboli; e vi saranno altre limitazioni alla distribuzione nel senso di un
massimo invece che di un minimo. La scelta del risparmio privato deve in primo
luogo cadere sui beni e servizi, pronti per il consumo o strumentali, che sono
di utilità diretta per la condotta della guerra; e via via sui beni concorrenti
e succedanei e complementari, data la stretta connessione dei beni e dei fattori
della loro produzione, per cui anche beni che sembrano stare molto in basso
nella gerarchia del valore ai fini della guerra appaiono nella congiuntura
bellica sotto nuovo aspetto. Ora, per tutto ciò si ha una specie di ripartizione
collettivista delle risorse, sia pure in grado diverso secondo le varie famiglie
di beni e la loro maggiore o minore importanza diretta per i bisogni bellici o
della popolazione civile, ma in certo senso e in certa misura indipendente dai
gusti individuali e dal prezzo.
2. Il risparmio forzato dall'inflazione.
Tuttavia in un'economia di guerra mista la disciplina e limitazione dei
consumi si lascia ancora in parte alla leva selezionatrice del prezzo,
direttrice dell'offerta e della domanda nelle quantità e qualità richieste dalle
nuove esigenze. E in primo luogo, come nell'economia libera, all'alto prezzo si
attribuisce l'efficacia di limitare i consumi privati.
Si verificano durante la guerra variazioni dei fattori reali della formazione
dei prezzi, che portano all'aumento di questi. Dalla parte dell'offerta, la
limitazione delle risorse per le restrizioni all'importazione e il rallentamento
di certe produzioni, il maggior costo anche per il maggior rischio dei trasporti
delle materie prime e dei prodotti semilavorati o finiti che si possono
importare, e all'interno l'aumento generale dei costi per le nuove condizioni
della produzione (trasformazioni rapide quanto costose, impiego di servizi
produttori più cari anche perché qualitativamente peggiori, aumento delle
imposte, ecc.). Dalla parte della domanda, le spese ingenti che fa lo Stato per
provocare una maggiore offerta di beni necessari alla guerra, e che si traducono
in maggiori salari e maggiori profitti dei produttori e in maggiori interessi
dei risparmiatori, influiscono sull'aumento dei prezzi. Lasciate in certo modo
libere le forze del sistema economico deve aversi per questi fatti un
adatta-ento del rapporto dei prezzi alla situazione di un'economia impegnata
nella guerra, che ha naturalmente un regime di marcia più elevato e implica
l'impiego di maggiori mezzi di pagamento da parte dello Stato delle imprese
produttive e dei privati acquirenti, e si esprime appunto in un più elevato
livello dei prezzi.
Nell'economia normale vi sono due ordini di cause dell'aumento del livello
generale dei prezzi: quantità offerte di beni e di servizi di consumo; parte
del reddito che viene spesa nell'acquisto dei beni offerti e non risparmiata.
Quando il livello generale dei prezzi ha subito una variazione per effetto di
questi elementi fondamentali, l'effetto diventa anche causa reagendo sugli
elementi stessi: sull'offerta e sulla domanda e su tutte le condizioni
dell'equilibrio economico. All'aumento dei prezzi dei beni di consumo dovrebbe
corrispondere un aumento della produzione per la soddisfazione di una domanda
che dipende da questo aumento stesso. Ma sono in guerra ben limitate le risorse
che si vogliono destinare alla produzione di beni di investimento e di consumo
civili. L'aumento dei prezzi è determinato dall'espansione, in condizioni non
normali, di una produzione che non deve essere destinata a consumi ulteriormente
produttivi; ch'è sostenuta da credito e spese statali, destinati a consumi
immediatamente improduttivi di guerra. Perciò ai fattori reali si aggiungono,
predominando, elementi semplicemente monetari di aumento dei prezzi.
Or ciò precisamente si identifica col fatto di consentire allo Stato di vincere
la concorrenza dei richiedenti privati con un potere di acquisto di cui essi non
possono disporre e quindi con l'offerta di più alti prezzi di compera. L'aumento
dei prezzi risolverebbe automaticamente insieme due problemi: comprimere i
consumi privati e convogliarli verso lo Stato.
In realtà, l'aumento dei prezzi giocherebbe in modo da trasferire il potere di
acquisto dal grosso dei consumatori agli imprenditori, attraverso i maggiori
profitti determinati dai maggiori prezzi; le imprese sarebbero centri più
limitati di raccolta per il successivo trasferimento allo Stato delle risorse
reali, nei modi che vedremo : prestito o imposta. E il mezzo sarebbe
economicamente più semplice e finanziariamente più redditizio. Ma intanto questo
accentramento del potere di acquisto speso dallo Stato in certi gruppi di
imprenditori non sarebbe del tutto temporaneo; perché una parte di tale potere
di acquisto, prima di essere trasferito allo Stato potrebbe essere impiegato
dagli imprendi-tori e dai loro collaboratori alla produzione in beni di consumo
e in beni strumentali, con un'eccessiva espansione delle imprese e con minor
rendimento finanziario pel Tesoro.
Vero è pure che l'offerta di alti prezzi è stimolo necessario perché i privati
realizzino attualmente redditi futuri, nelle varie forme accennate di
mobilitazione e liquidazione del capitale. Ma anche quest'operazione pur
indispensabile a una lunga guerra potrebbe andare oltre il segno indicato, di
un'utilità complessiva presente e futura. E in genere, l'aumento dei prezzi,
sebbene mezzo più facile o di minore resistenza per superare momentaneamente
certi problemi impellenti dell'economia di guerra, specie del suo finanziamento,
indebolisce questa stessa economia, rende in seguito più difficile la politica
finanziaria, altera le condizioni dell'equilibrio economico anche pel futuro.
Inoltre ferisce la giustizia e turba con ciò lo stesso equilibrio sociale,
perché si risolve a danno delle categorie che hanno potere di acquisto minore,
anzi decrescente, con l'aumento crescente dei prezzi; determinando un'ingiusta
aspra concorrenza dei consumatori a colpi di prezzi di domanda, con
l'inevitabile prevalenza dei portatori di redditi più alti e crescenti con
l'aumento dei prezzi.
Questi effetti sono cumulativi; presto si entra nella spirale dell'inflazione,
che divora il potere di acquisto della moneta in mano dei privati e dello Stato
stesso. Poiché i prezzi sono costi di produzione per le imprese e per lo Stato,
richiedente in guerra della maggior parte dei beni e servizi disponibili,
aumentando i prezzi aumentano le spese dello Stato, e deve aumentare il potere
monetario di acquisto delle imprese particolari per mantenere la marcia della
produzione. Ciò implica la necessità di crescenti emissioni monetarie e
creditizie, che porta alla inflazione. Con tutte le conseguenze note di questa:
economiche, di dissesto dell'equilibrio dell'economia nazionale; finanziarie, di
dissesto dei bilanci pubblici; sociali, di sacrificio dei percettori di redditi
fissi e minori a vantaggio degli speculatori.
3. Il controllo del sistema dei prezzi.
L'aumento dei prezzi può essere, sì, un metodo alternativo o sussidiario del
gravoso e fastidioso razionamento, per limitare il potere di consumo dei
privati, a vantaggio del maggior potere di acquisto oggi necessario allo Stato.
Ma è un metodo che ha in sé la logica dell'inflazione, della svalutazione
crescente della moneta, della conseguente rivoluzione dei redditi e del
gravissimo disagio sociale. È la politica liberale di finanziamento dell'altra
guerra, con le rivoluzioni sociali che ne seguirono.
Oggi di quell'esperienza si tien conto dappertutto. O si cerca di tenerne conto,
come lo permette la generale organizzazione politica e sociale. Così, per lo
spirito liberaloide che, malgrado l'inevitabile dittatura dell'amministrazione
pubblica, prevale nella condotta della guerra delle sedicenti democrazie, le
varie misure, anche severe, di controllo dei prezzi non riescono qui ad
allontanare lo spettro dell' inflazione, già causa di disagio sociale e di
difficoltà politiche. La Germania, con la sua organizzazione quasi militare di
lunga data, era preparata a realizzare i frutti dalla passata esperienza, per
lei specialmente tragica. Qui è bastata la costituzione di un ufficio di
coordinamento, per attuare una politica di bassi prezzi: invece che di aumento,
di diminuzione dei prezzi, correlativa ad una diminuzione dei salari, resa
d'altra parte possibile con la larghezza dei minimi di esenzione dei salari
stessi dall'imposta. Che vuoi dire ricercare i mezzi dell'alimentazione della
guerra per via totalmente diversa da quella dell'aumento dei prezzi e quindi dei
salari, e insomma della svalutazione della moneta. Due regimi, due sistemi di
politica economica: due diverse possibilità di dominare la congiuntura bellica.
Il sistema nostro corporativo avrebbe, per l'occorrenza, leve già sperimentate:
quelle stesse istituzionali, e in certo senso naturali, del coordinamento
spontaneo delle varie quantità del sistema economico, attraverso
l'organizzazione sindacale dei portatori dei corrispondenti interessi. Non
occorre che dare un indirizzo unico e chiaro, per i fini preferibili e
decisamente scelti; in una situazione che, d'altra parte, non offre alternative,
perché dominata dagli imperativi fonda-mentali del sistema: la giustizia
sociale, condizione di prosperità economica e di potenza politica e militare,
tra loro connesse.
Se ciò è, il finanziamento dei bisogni straordinari dello Stato non si può
trovare. nell'inflazione, ma nella difesa del potere di risparmio della
popolazione. V'è una differenza fondamentale, di carattere sociale oltre che
economico e finanziario, tra il risparmio «forzato» dall'inflazione, che
aumentando i prezzi diminuisce il potere di acquisto delle grandi masse e lo
trasferisce allo Stato, e il risparmio volontario, o sollecitato o anche
obbligatorio, ma consistente in effettive riserve, lasciate alla disponibilità
più o meno libera di chi ne ha affrontato il sacrificio.
I1 rincaro dei prezzi apre il circolo vizioso, che più non si chiuderà, dei
maggiori salari e stipendi, causa e conseguenza insieme di nuovi aumenti dei
prezzi, con una maggiore viscosità relativa di quelli, che si ripercuote in un
peggioramento del tenore di vita oltre che alla lunga in una disorganizzazione
dell'economia. Ma sopratutto l'equilibrio finanziario, malgrado la crescente
pressione della pompa fiscale, risulta minato. L'aumento dei prezzi fa diminuire
via via lo stesso potere di acquisto trasferito allo Stato; ad un aumento dei
bisogni corrisponde un aumento delle spese, più che proporzionale appunto pel
crescere dei prezzi; quindi nuove emissioni, e una svalutazione crescente con
ritmo accelerato, fino alla volatilizzazione del valore della moneta. Sono
troppo note le conseguenze sociali di questa ferrea dinamica: la dissipazione
dei maggiori redditi creati dalla cresciuta domanda statale; e, peggio,
l'annientamento delle classi a redditi fissi, formatrici del solido quanto
su-dato risparmio volontario.
Occorre invece difendere questo potere di risparmio e far rientrare al più
presto nel circuito quei maggiori redditi, attraverso la manovra fiscale o
finanziaria dello Stato. Per questo non v'è che un modo: moderare la tendenza
all'aumento dei prezzi, sì da permettere il formarsi di un sedimento di
risparmio dai redditi moderatamente cresciuti per la nuova congiuntura e non
assorbiti totalmente da quell'aumento. Il risparmio così formatosi riaffluirà in
parte al finanziamento diretto, e realmente proficuo se anch'esso moderato,
della produzione; e in parte alle casse pubbliche, attraverso moderate imposte
sui redditi più alti e attraverso le molteplici forme di risparmio popolare pei
redditi minori.
Contraddittorio con la limitazione dei consumi è il blocco dei prezzi di alcune
merci e servizi; che d'altra parte si spiega per rattenere la dinamica
dell'economia di guerra evitando l'inflazione, e per assicurare certa stabilità
del tenore di vita e dei rapporti economici e sociali durante l'inevitabile alto
dinamismo della congiuntura bellica. Si tratta di contemperare, e non è
impossibile, due opposte esigenze. Da una parte, consentire un certo aumento dei
prezzi per attirare la maggiore offerta di beni occorrenti alla guerra
attraverso la maggiore produzione e il trasferimento dei redditi dal presente al
futuro, e per limitare insieme il consumo. D'altra parte, mantenere più che sia
possibile stabili i prezzi, per evitare l'inflazione, assicurare il consumo
necessario allo Stato a costi non troppo rovinosi per l'equilibrio finanziario,
e il consumo necessario alle masse a prezzi non troppo rovinosi per l'equilibrio
sociale. Quest'ultimo fine è particolarmente importante: bisogna mantenere i
prezzi adeguati al potere di acquisto generale mantenuto deliberatamente basso,
non solo per rendere possibile il proficuo risparmio di massa, ma per evitare
profonde alterazioni nella distribuzione della ricchezza, ingiustizia e rancore
e lotta fra i vari ceti, indebito arricchimento di alcuni produttori e
impoverimento di benemerite categorie sociali, come quei precettori di redditi
fissi che sono i ceti medi, midollo della nazione.
Ma il controllo dei prezzi è il punto più difficile dell'economia di guerra;
anche perché, fra l'altro, implicherebbe controllo dei costi. Vero è che
specialmente in guerra devono prevalere i concetti oggi invalsi anche
nell'economia normale, del prezzo giusto e del profitto giusto, quest'ultimo
inteso come quello normale in senso assoluto e relativamente ad altri redditi
fissi. Ma difficile è discernere profitti che servono alla produzione di guerra
o necessaria anche in guerra per la vita civile, o alla produzione che da tali
punti di vista è superflua. Se l'accertamento dei costi non è fatto
scrupolosamente, e anche quando è fatto in tal modo è comunque errato, imponendo
bassi prezzi di vendita si possono rovinare imprese marginali e si può
compromettere l'estensione della produzione che si vuole invece accrescere.
Inoltre forzando a vendere a prezzi inferiori si accresce il consumo della merce
così calmierata. In ogni caso non si evita che crescano con ciò i prezzi di
altri prodotti, data la naturale concorrenza fra beni surrogabili.
Per tutte queste ragioni il controllo dei prezzi dev'essere anzitutto integrale,
e riflettersi sul loro livello generale senza creare squilibri nel sistema con
irragionevoli aumenti di redditi e di consumi in alcuni settori soltanto.
Importa specialmente alla massa non il livello assoluto dei prezzi, ma quello
relativo; non l'aumento ma la stabilità dei redditi.
A differenza del calmiere che limita il prezzo di
alcuni beni soltanto di più largo consumo, il controllo dei prezzi dev'essere,
come oggi generalmente è, diffuso, o almeno bloccare alcuni punti strategici
essenziali dell'equilibrio economico: insieme con gli altri prezzi anche i
redditi, come stipendi e salari, e oltre certo limite anche i profitti. E dove
non basta la limitazione dei redditi e si tratta di beni insufficienti a un
consumo tuttavia necessario per l'esercito in armi e pei civili, deve provvedere
la limitazione diretta dei consumi, che diminuisce le domande concorrenti ai
consumi pubblici di guerra e la pressione sui prezzi.
4. Il risparmio forzato degli imprenditori.
L'economia concreta e la politica economica che la regola, con certe loro
inevitabili contraddizioni, non consentono le soluzioni unilaterali e
intransigenti dell'ipotesi teorica. Così, in un'organizzazione solo parzialmente
collettivista dell'economia di guerra:
a) si ricorre alla inflazione regolata
da una nuova tecnica, la quale crea le condizioni della sua innocuità; e vi si
ricorre come anticipatrice della maggiore e più pronta produzione del reddito e
mobilitazione del capitale, e come limitatrice dell'eccesso di consumo di alcuni
beni che sia opportuno lasciare a un gioco della domanda sorvegliato ma libero.
b) E si ricorre insieme al blocco e al controllo dei prezzi di un certo numero
di merci e servizi fondamentali per la dinamica economica di guerra: quelli
interessanti Io Stato, per un minore costo finanziario della guerra, e í
privati, cui si vuole assicurare per ragioni economiche sociali e politiche un
minimo di esistenza al riparo dalla lotta ineguale di una concorrenza dei
redditi al consumo; naturalmente questo blocco dei prezzi implica una disciplina
e una limitazione diretta dei consumi relativi, alternativa della leva indiretta
dell'aumento dei prezzi.
Da questa duplice manovra conseguono due diversi ma congiunti risultati:
a) Con
la limitazione dei consumi per la via indiretta dell'aumento dei prezzi si crea
una massa di risparmio forzato, ma accentrato, che dai consumatori affluisce ai
produttori attraverso più alti profitti e che lo Stato deve avocare nei modi che
vedremo.
b) Con la limitazione diretta dei consumi accompagnata al blocco dei
prezzi si ha pure un risparmio forzato, ma diffuso nella massa, che durante la
guerra viene ad avere un potere di acquisto maggiore per aumento di offerta di
lavoro e di altri capitali produttivi e potrebbe giovarsene realizzando rendite
di consumatore per effetto del blocco dei prezzi, ma è messa in condizioni di
non poter fare ciò per effetto della limitazione diretta dei consumi. In ambedue
i casi si ha un potere di acquisto libero, un risparmio forzato che lo Stato può
utilizzare per la sua domanda di beni di guerra; si ha concretamente una
limitazione di beni di consumo e di produzione civili, a vantaggio di una
maggiore proporzione di beni utili alla guerra. E poiché l'una manovra non
esclude l'altra, anzi richiede l'ausilio dell'altra in un'integrazione reciproca
che cerca di conciliare le contraddizioni della realtà, il successo della manovra
totale dipende dall'impiego dei mezzi concreti che, avendo scelto le due vie,
devono effettivamente assicurare i risultati voluti, al fine ultimo di limitare
i consumi ed impieghi privati civili a vantaggio dei consumi e impieghi pubblici
o privati di guerra.
Perché l'aumento dei prezzi attraverso l'aumento di certi redditi,
specialmente dei profitti, assolva la sua funzione di collettore di risparmio o
di potere di acquisto da passare allo Stato, le condizioni sono due, e devono
essere severamente assicurate:
1) Occorre che non tutti i prezzi dei beni e dei
servizi aumentino, che cioè non si crei la spirale dell'inflazione, la quale
assorbirebbe attraverso l'aumento contemporaneo e inseguentesi dei costi delle
imprese il margine di reddito, o profitto, da risparmiare;
2) che tale margine,
risultante dalla prima condizione, non sia speso in consumo di beni diretti e di
beni strumentali dai privati, per essere effettivamente riservato al potere di
acquisto dello Stato. Il rispetto di queste due condizioni implica quel
controllo dei prezzi e dei consumi insieme, che sembra proprio della seconda
manovra, alter-nativa dell'aumento incontrollato dei prezzi: proprio cioè del
blocco dei prezzi come collettore di risparmio, non più dei pochi, ma della
massa. E questo mostra che reale alternativa non c'è, ma piuttosto necessità di
quel piano che deve sanare le contraddizioni della complessa politica economica
di guerra.
Più facile è ottenere la seconda condizione della manovra poggiata sull'aumento
dei prezzi. Occorre limitare i consumi degli imprenditori, con imposte o
prestiti pubblici o limitazioni dirette del genere di quelle che si devono
impiegare per la massa. Ma i profitti degli imprenditori, assai più che in
consumi anche di lusso, che sono scandalosi ma non hanno obiettiva importanza
quantitativa ai fini del finanziamento della guerra, possono essere devoluti al
consumo di beni strumentali e ad investimenti di beni capitali, che implicano
sfiducia nella moneta, richiedono obiettivamente emissione di crescenti mezzi
monetari e creditizi, e creano perciò la spirale dell'inflazione, facendo
dileguare quel risparmio che lo Stato mira a riservarsi. Bisogna evitare
l'afflusso del risparmio verso investimenti diversi da quelli statali e di
guerra, contenere il valore dei beni capitali e quello dei titoli a reddito
variabile, i quali fanno concorrenza ai titoli che lo Stato deve emettere per
rastrellare il risparmio occorrentegli.
Ciò si può fare con provvedimenti vari di politica economica e finanziaria, come
quelli che durante la guerra sottopongono a controllo statale più severo le
costruzioni edilizie, l'aumento degli impianti industriali e il finanziamento
delle imprese, anche nella forma coperta dell'autofinanziamento che sembra
innocua ma è elusiva della manovra di cui discorriamo; o istituiscono imposte
straordinarie sugli investimenti, come si è fatto con l'avocazione parziale del
sopravalore risultante al trasferimento di immobili o di titoli azionari
privati, o sul reddito di questi. Ma sopravalori e sopraredditi sono conseguenza
e causa insieme di una tendenza all'inflazione, cioè all'aumento dei prezzi. E
perciò occorre anche qui la misura indiretta del blocco dei prezzi delle cose e
dei servizi; che serve dunque ad ambedue le condizioni: evitare l'impiego
privato del risparmio delle imprese ad alti redditi di guerra, dopo di aver
procurato che questi alti redditi si realizzino.
5. Il risparmio forzato dei lavoratori.
Assai più difficile è raggiungere questa prima condizione, della formazione
reale di maggiori redditi in alcune classi o in alcuni mercati, attraverso la
diminuzione dei costi, cioè dei prezzi di altri beni e servizi che toccano altre
classi e altri mercati. Sembra anzi impossibile, data l'interdipendenza dei
prezzi, che non consentirebbe di alterarne alcuni senza influire sugli altri. E
sembra ingiusta perché in ogni caso altera il sistema dei prezzi, cioè il loro
livello relativo. Ciò specialmente influendo sul tenore di vita delle masse ha
una colorazione di ingiustizia sociale, cui si può resistere solo in una visione
abbastanza spregiudicata e informata della realtà. Infatti, fra i prezzi che
bisogna bloccare sono i salari, perché sono parte molto importante dei costi
delle imprese e sono pure ingente potere di acquisto che le grandi masse
potrebbero destinare al consumo di beni diretti. Ché anzi altri prezzi sono
insieme bloccati, non solo per diminuire il costo finanziario della guerra per
lo Stato, ma per rendere possibile appunto il blocco dei salari, che sarebbe
spezzato da un aumento dei prezzi dei beni di consumo delle categorie operaie.
Certo, è apparentemente ingiusto far crescere alcuni prezzi e non aumentare i
salari, il cui potere di acquisto è realmente diminuito da quell'aumento,
malgrado il blocco di altri prezzi. La logica della «scala mobile» porterebbe
a fare aumentare i salari in corrispondenza temporale abbastanza esatta con
l'aumento generale dei prezzi. Ma è la logica di un'economia normale di pace,
quando si tratta di adeguare il reddito monetario ai beni prodotti per il
consumo, secondo un equilibrio libero, in cui la scala mobile dei salari segue,
non dirige il movimento del mercato. Quello di guerra è un equilibrio
strettamente vinco-lato alla riduzione dei consumi civili e all'aumento dei
consumi di guerra. Inutile e dannoso sarebbe dare ai lavoratori un potere di
acquisto di cui non potrebbero giovarsi mancando i beni reali in cui impiegarlo;
la concorrenza al consumo farebbe rialzare i prezzi, e nella concorrenza a colpi
di prezzi i lavoratori avrebbero la peggio, col loro reddito relativamente basso
anche se libero. Ciò tanto più, che i prezzi dei beni di consumo determinanti il
tenore di vita delle masse costituiscono una importante misura del potere di
acquisto della moneta; e i salari costituiscono un elemento assai importante
della linea dei costi delle imprese, malgrado l'osservazione che sembra decisiva
ed è illusoria, sulla prevalenza del capitale fisso rispetto al capitale salari,
che dimentica come il capitale fisso sia a sua volta prodotto anche da lavoro.
Dunque aumentando i salari secondo la logica dell'economia normale si
determinerebbero in guerra le condizioni dell'inflazione; che complicherebbe il
problema del finanziamento della guerra, oltre a creare fermenti di disagio
economico e morale di cui sarebbero vittime proprio i ceti lavoratori. E
rispetto alla manovra intesa a forzare il risparmio, quell'aumento dei salari ne
farebbe venir meno i presupposti, dato che l'aumento dei prezzi ha la funzione
di far aumentare la produzione e mobilitare il capitale da una parte, e ridurre
i consumi dall'altra. Ambedue questi presupposti cadrebbero, nella misura in cui
i salari sono costi per le economie di cui si dovrebbe promuovere la produzione
e la mobilitazione del capitale, e sono potere di acquisto dei beni di consumo.
Quest'ultimo inconveniente, non il primo, sarebbe secondo alcuni sanato con il
sistema dei salari differiti, cioè cresciuti in certa proporzione del livello
generale dei prezzi, ma non convertibili in potere di acquisto cioè non
spendibili. Che sarebbe modo di realizzare il secondo tipo di risparmio forzato,
quello della massa. Direttamente forzato, e non indirettamente con aumento dei
prezzi, perché questo sistema si basa sull'aumento dei salari, non solo dei
profitti, e sul blocco dei prezzi dei beni di consumo operaio, che rende
possibile il margine di potere di acquisto da destinare a risparmio operaio.
La necessità che questo risparmio della massa, a differenza di quello ottenuto
con aumento dei prezzi, sia direttamente e non indirettamente forzato, sia cioè
obbligatorio, positivamente coattivo, discende da questa osservazione ovvia. I
bisogni marginali delle classi lavoratrici sono elastici, nel senso che sono
pronti ad espandersi appena cresca il potere di acquisto capace di soddisfarli.
Normalmente la possibilità di risparmio sui consumi cresce più che
proporzionalmente del reddito, perché i bisogni marginali dei gruppi che stanno
su gradini superiori della scala dei redditi sono nello stesso senso più rigidi,
e la possibilità di risparmio del reddito è per questo fatto maggiore. Questa è
una ragione per cui il potere di acquisto delle grandi masse della popolazione
(coi loro bisogni molto sensibili all'aggiunta di nuovo potere di acquisto, che
spiegano, a parte altre ragioni psicologiche e sociologiche, la poca propensità
al risparmio dei portatori dei redditi più bassi) è di minor rendimento ai fini
bellici del maggiore possibile risparmio.
È poi di minor rendimento perché
obiettivamente minore, dato che il potere di acquisto creato dalle cresciute
spese statali tende a diffondersi, in modo che solo i primi prenditori di esso,
cioè i produttori di guerra, possono effettivamente risparmiare, creando
risparmio fresco, sia pure solo monetario, a disposizione dello Stato. Ecco
infine perché - a parte pur valide considerazioni sociali e politiche - dei due
metodi di raccolta del potere di acquisto liberato dallo Stato e a questo di
nuovo occorrente, quello ottenuto attraverso l'anticipazione dell'aumento dei
prezzi sull'aumento dei salari sembra più facile e più redditizio, rispetto al
metodo opposto, della creazione di possibilità di risparmio della massa
attraverso l'aumento degli stipendi e salari anticipato sull'aumento dei prezzi
dei beni di largo consumo.
Se questo risparmio si vuoi mantenere intatto a disposizione dello Stato bisogna
prendere provvedimenti analoghi a quelli ricordati per la tutela del risparmio
degli imprenditori; naturalmente, per la maggior diffusione, più severi e
difficili: non solo il blocco diretto dei consumi, cioè il regolamento della
domanda, ma più efficacemente il metodo accennato dei salari differiti per un
vero risparmio obbligatorio.
Il sistema consisterebbe: nell'attribuzione ai lavoratori di un assegno di
famiglia in danaro, con la garanzia di un'adeguata razione di derrate di prima
necessità a buon mercato; nell'accumulazione della ricchezza dalla classe
operaia risparmiata rispetto ai salari ad essa spettanti, sotto il suo diretto
controllo e con la promessa di un'imposta sul capitale dopo la guerra per
rendere possibile il pagamento dei salari così differiti. Se si toglie lo scopo
politico e sociale, dichiarato con intenzioni piuttosto demagogiche, di «trarre
dalle necessità della guerra alcuni miglioramenti sociali positivi, con una
nuova spinta maggiore tra quelle osservatesi nel corso degli ultimi anni verso
l'uguaglianza economica»; e comunque se si toglie il fine di dare al lavoro
l'illusione che il suo lavoro più severo e più lungamente protratto del tempo di
guerra è compensato, malgrado la necessità di ridurre i consumi ; della proposta
del Keynes qui riassunta non resta che l'avocazione allo Stato del regolamento
della domanda dei beni di consumo delle masse lavoratrici, con l'assicurazione
di un minimo di esistenza: ch'è il risultato finale necessario di tutte le
altre possibili misure di economia di guerra.
Intanto i salari, perché solo differiti, cioè pagati sebbene accumulati, non
cesserebbero di essere costi per le imprese, quindi di produrre l'aumento dei
prezzi, e per le interdipendenze del sistema dei prezzi anche di quelli dei beni
di consumo operaio, senza la possibilità di un margine da accantonare
specialmente là dove il tenore di vita della massa è già effettivamente a un
livello minimo di esistenza; tale margine si verificherebbe solo nel caso di un
aumento inflazionista dei redditi di lavoro e dei sussidi statali alla
produzione di merci da vendere a buon mercato, che alla lunga non mancherebbe di
inghiottirlo. Anche nei paesi più ricchi il risultato della manovra sarebbe
assai dubbio, ed è perciò sospetto alle classi operaie interessate: troppo
avvedute per non dubitare che il potere di acquisto attualmente sterilizzato
perché reso inesigibile, sia esso garantito dallo Stato o sia accantonato a cura
delle stesse organizzazioni operaie, potrebb'essere annullato, nel primo caso
con un diverso impiego successivo dello Stato, nel secondo caso con la
diminuzione del valore della moneta. Che alla liquidazione ultima delle spese di
guerra si provveda con imposte naturalmente maggiori sui più abbienti, è un
problema di ricostruzione futura, la cui soluzione non può impedire che intanto
anche le classi operaie devono subire parte dei sacrifici attuali di consumo -
consumo di riposo, cioè maggior lavoro, e consumo di altri beni diretti - coi
quali si alimenta come sappiamo la guerra. Lo stesso deve dirsi del sistema
delle imposte anticipate, cioè calcolate a credito dei contribuenti per un
rimborso nel dopo guerra, che in Inghilterra attua il differimento dei redditi
in genere.
Quando lo Stato sviluppa i propri consumi senza che il reddito nazionale e il
provento della liquidazione possibile del capitale nazionale crescano in
proporzione, il privato, a qualsiasi ceto appartenga, deve ridurre i consumi
suoi. Or poiché lo spirito patriottico di rinuncia non basta, e il metodo
indiretto dell'inflazione cioè dell'aumento dei prezzi, oltre che essere
ingiusto, è insufficiente a regolare la domanda e dannoso nel promuovere
un'offerta concorrente coi nuovi impieghi di guerra, non restano che due vie.
Regolare direttamente l'offerta nel modo indicato, trasferendo la produzione
dall'attività intesa a soddisfare la domanda privata verso quella richiesta per
soddisfare i bisogni dello Stato, che implica riduzione effettiva necessaria dei
consumi privati; e regolare direttamente la domanda cioè i consumi.
6. La limitazione diretta dei consumi.
Solo la rigorosa disciplina dei consumi privati e dei consumi pubblici non di
guerra, limitando per un certo gran numero di beni la quantità acquistabile, può
neutralizzare gli effetti dell'incremento dei redditi nominali dovuto ad
emissioni monetarie o altre cause reali di aumento dei prezzi, cioè quel tanto
di inflazione che durante la guerra è conseguenza inevitabile della necessità di
promuovere una produzione a costi crescenti e una mobilitazione di tutte le
risorse disponibili comprese quelle già impiegate. Solo quella disciplina può
rimediare all'insufficienza tradizionale di ogni forma di blocco dei prezzi, e
risolvere la contraddizione della necessità di mantenere un'offerta di danaro
abbastanza abbondante da conservare con gli alti redditi la possibilità di
trasferire potere d'acquisto allo Stato a basso saggio di interesse, senza
d'altra parte correre il rischio di far aumentare la domanda delle merci, e
quindi di far salire sempre più il livello dei prezzi. Per questo la disciplina
diretta dei consumi è astrattamente preferibile a quella indiretta inflazionista
e in concreto deve comunque accompagnarla.
D'altro canto, la disciplina dei consumi deve accompagnare la manovra opposta
del blocco di alcuni prezzi, per prevenire l'espansione dei consumi e insieme
per garantire a tutti il minimo di consumo. Infatti i prezzi tenuti
artificialmente bassi potrebbero far espandere la domanda, diminuendo la
disponibilità di beni necessari al mantenimento e armamento dell'esercito e al
mantenimento delle masse non combattenti. Inoltre, poiché lo Stato preferisce
dare ai produttori di certe merci dei sussidi prelevabili sulle imposte,
piuttosto che far aumentare i prezzi che accrescerebbero i costi finanziari
della guerra e richiederebbero aumenti di salari per le imprese, bloccare con
questo sistema i prezzi senza limitare direttamente il consumo, aggraverebbe
oltre il conveniente, oltre cioè la necessità di difendere il potere di acquisto
minimo delle masse, le condizioni di quelli che con le imposte devono
provvedervi,
e che sono in massima parte diversi da quelli che se ne giovano.
Nella commistione di elementi di due diverse direttive di regolamento dei
consumi attraverso la manovra dei prezzi - cioè prezzi alti
o prezzi bloccati - la limitazione diretta dei consumi, ch'è sussidiaria di
quella manovra, si atteggia diversamente, secondo i fini spesso contraddittori
che si tratta di raggiungere. Così, si avrà un razionamento al minimo come
complemento di una politica di prezzi alti, per assicurare consumi necessari ai
meno abbienti, e difendere il blocco del prezzo dei servizi specialmente e di
alcuni altri prezzi. Si avrà un razionamento al massimo come complemento di una
politica di blocco dei prezzi, per evitare che il prezzo mantenuto
artificialmente basso accresca la domanda e comprometta, insieme con la politica
generale di limitazione dei consumi, anche la possibilità di assicurare il
razionamento minimo.
Molti sono gli inconvenienti del razionamento nelle sue due forme, che nella
loro concreta attuazione poi si identificano. La necessaria, sebbene illogica
uniformità delle razioni porta insoddisfazione per un verso
e sciupio per l'altro; le razioni devono essere adeguate alla disponibilità
totale dei beni che si vogliono lasciare al consumo, ma talora manca la capacità
di acquisto e si hanno cessioni dai meno ai più abbienti con elusione della
regola del tesseramento. Una maggiore giustizia si raggiungerebbe a prezzo di un
minuto razionamento soffocatore. Ma alcuni inconvenienti possono essere
attenuati con diverse forme di razionamento, secondo gli scopi che si vogliono
raggiungere in date condizioni di fatto.
Vi sono i contingenti di produzione e i contingenti di distribuzione a
commercianti; vi sono le assegnazioni particolari, come il vincolo del bestiame
alle necessità della riproduzione, e le limitazioni alla vendita, come quella
della carne o di altri generi in alcuni giorni della settimana. E il
razionamento in senso stretto, cioè mediante tesseramento, può essere a sua
volta in termini quantitativi di singoli beni, come in Italia,
o di valore, cioè di dosi (punti) di potere di acquisto da distribuire
liberamente fra vari beni secondo le valutazioni dell'utilità marginale dei
singoli, come in Germania.
Il razionamento è in ogni caso fastidioso e molesto, e non evita l'occultamento
di beni da parte di produttori e intennediari e l'accaparramento da parte di
possessori di redditi maggiori. Bisogna attenuarne gli inconvenienti con un
ottimo servizio di distribuzione dei beni; meglio se affidato a enti di
produttori e commercianti, come è possibile con un'organizzazione corporativa
già in atto; che ha reso in questo campo buoni servizi, attraverso gli ammassi
obbligatori di certi beni di necessario e diffuso consumo, e attraverso
opportuni consorzi di distribuzione collegati a quelli di produzione, cioè con
un'organizzazione della produzione in vista di consumi razionati, che ha il
vantaggio di unificare le due manovre fondamentali dell'economia di guerra.
Il razionamento integrale dei beni occorrenti in via diretta o indiretta alla
guerra, per il consumo della popolazione armata e della popolazione civile,
sarebbe il metodo diretto quasi collettivista, assai più logico e meno costoso,
di amministrazione dei beni a disposizione del gruppo per le necessità della
guerra. Per le ragioni più volte accennate dovrebbe però estendersi a grandi
quantità di merci della più diversa qualità, e non eviterebbe quel caos che il
razionamento cerca di attenuare in mancanza della leva regolatrice del libero
prezzo di offerta e di domanda. Ma in mancanza di un razionamento generale,
corrispondente all'accentramento nell'amministrazione statale di tutti i beni di
consumo diretti e strumentali, bisogna pur provvedere che il potere di acquisto
del mercato accresciuto dalla maggiore produzione o dalla liquidazione del
capitale e dalla limitazione delle spese private per razionamento o disciplina
dei prezzi, non vada ad aumentare la domanda di beni non razionati e gli
investimenti in beni capitali, compromettendo il successo del fine ultimo di
un'economia di guerra : dare cioè allo Stato il potere di acquisto dei beni che
non abbia creduto di avocare a sé direttamente con un'organizzazione pienamente
collettivista. Sia, il potere di acquisto creato dalle spese statali, accentrato
negli imprenditori attraverso l'aumento dei prezzi il blocco dei salari e la
disciplina dei consumi e degli investimenti, sia esso diffuso fra la massa
attraverso il blocco dei prezzi e il razionamento, bisogna in definitiva che lo
Stato lo faccia rientrare nel Tesoro per essere devoluto ai beni di guerra. E a
ciò servono l'imposta e il prestito pubblico.
Ora, questi due istituti, insieme con l'inflazione cioè con le emissioni
monetarie che producono aumento dei prezzi, sono anche mezzi indiretti di
limitazione dei consumi. L'imposta ch'è prelievo obbligatorio - e non solo
quella sui consumi che si vogliono limitare, ma anche quella sui redditi - e il
prestito libero o obbligatorio implicano decurtazione del potere di acquisto dei
privati; sono mezzi per ottenere da questi una limitazione dei consumi, oltre
un'offerta maggiore di lavoro. Con questi tre metodi: l'emissione di carta
moneta, il prestito pubblico e l'imposta, la limitazione del consumo si
avvicina, col primo di essi addirittura si identifica, al trasferimento allo
Stato del potere di acquisto risparmiato. I tre istituti collegano il
finanziamento economico della guerra con quello finanziario vero e proprio.
Il finanziamento della guerra.
1. Il circuito dei capitali.
Si hanno due accezioni di finanziamento della guerra. Una generica, economica: come impiegare nell'alimentazione della guerra le risorse che sono a
disposizione del gruppo nazionale, e si riferisce appunto alla nazione
nell'insieme, in tutti i suoi elementi economici: si dice appunto che la guerra
si finanzia con un flusso di determinati beni, che provengono da nuova
produzione o da liquidazione di capitale esistente; e da altri si dice da un
diverso punto di vista che la guerra si finanzia in parte con la produzione in
parte col risparmio.
Una diversa concezione strettamente finanziaria del fenomeno consiste invece nel
vedere come lo Stato si procura i beni che l'aumento dell'offerta e la
diminuzione della domanda da parte di privati hanno lasciato al suo potere di
acquisto; e ciò implica una distinzione fra l'economia nazionale e l'economia
statale, con fenomeni interni di redistribuzione fra i diversi gruppi sociali:
si dice in questo senso che la guerra si finanzia con le emissioni monetarie o
col prestito o con l'imposta.
Sappiamo già che per duplice via convergente - aumento di produzione e
diminuzione di consumo civile - si può pervenire ad accrescere o lasciare
invariato il flusso di beni che specialmente in via diretta lo Stato deve
destinare a consumo di guerra. E' tempo di aggiungere la manovra del credito,
che può procurare allo Stato una certa somma di risparmio scontato, cioè futuro,
necessario quando si tratti di una guerra oltre previsione lunga e costosa.
Qui specialmente interviene la tecnica finanziaria, oggi tanto più perfezionata
nel regolamento dei fenomeni di circolazione della ricchezza. Ecco il problema
fondamentale di questa tecnica: come trasferire allo Stato i mezzi di pagamento
corrispondenti alla possibilità di prelevare i beni residuati dalla predisposta
limitazione delle disponibilità private: mezzi di pagamento in che
concretamente consistono le spese di guerra.
Questa operazione è della più grande importanza:
finanziaria, pel suo rendimento utile ai fini delle maggiori disponibilità dello
Stato; economica, per l'indirizzo che può imprimere alla produzione e al
risparmio; infine sociale, perché sotto il velo finanziario si verificano
fenomeni di redistribuzione di ricchezza e di redditi, non solo nel tempo se
trattasi della disponibilità di risparmio futuro, ma nello spazio, fra i diversi
gruppi dei percettori attuali di reddito, già variamente colpiti dai primi
provvedimenti di risparmio coattivo.
È noto che il metodo più semplice per mettere rapidamente a disposizione dello
Stato mezzi di pagamento per le sue spese è l'emissione di carta moneta
accompagnata dalla dichiarazione del corso forzoso, una specie di titolo di
credito verso lo Stato. Esso è allettante per la sua stessa semplicità e perché
non costa nulla: almeno immediatamente allo Stato, perché in sostanza è causa
di una rivoluzione più o meno lenta e visibile di redditi, di una
disorganizzazione della produzione e della finanza statale, di un turbamento
della circolazione sociale.
Ora, fatto tecnico nuovo molto importante, che deriva dalla nuova tecnica della
guerra e delle istituzioni giuridiche economiche finanziarie dappertutto
predisposte per farvi fronte, è che le due accennate concezioni di finanziamento
sono portate quasi a identificarsi, nell'attenuazione del dualismo fra economia
privata ed economia pubblica, fra economia della nazione ed economia dello
Stato, tra economia di guerra
e finanza di guerra.
Questo fatto rafforza il finanziamento della guerra attraverso la raccolta di
mezzi monetari, con il finanziamento come mobilitazione delle capacità
produttive; porta l'economia monetaria ad aderire all'economia dei beni; tende
ad agire sull'offerta dei beni attuali che servono realmente alla condotta della
guerra, sui beni reali più che sul loro aspetto monetario. Si ha una maggiore
consapevolezza del fatto che il denaro non è che semplice mezzo o veicolo del
trasferimento allo Stato dei beni necessari alla guerra; che questi oggi
occorrono in quantità immensa, e pronti e continuamente prodotti, senza
possibilità di limitarsi a semplici manovre monetarie. La manovra finanziaria è
mezzo soltanto parziale e sussidiario per orientare l'offerta dei beni, cioè la
produzione del reddito e la liquidazione o mobilitazione delle risorse di
capitale,
e per orientare la domanda sopratutto nel senso di limitare i consumi.
Ma il fatto centrale dell'economia e della finanza di guerra insieme, è
l'aumento e la disciplina del reale potere di acquisto, conseguiti in modo che
la maggiore frazione possibile di questo rimanga riservata allo Stato pei
bisogni di guerra. Aumentate le possibilità di offerta dei beni
e diminuite le possibilità di consumarli, la differenza creata dalle due manovre
concordanti cadrà automaticamente nelle mani dello Stato, sarà indifferentemente
assorbita con le varie manovre monetarie fiscali finanziarie vere e proprie
dello Stato, cioè con un insieme di imposte o di requisizioni o di crediti
diretti o bancari. Che sono però solo strumentali rispetto ai mezzi primi
fondamentali assai più efficaci, piuttosto di politica economica e
sussidiariamente di politica finanziaria, che avranno creato in quella
differenza, in quel margine, un campo di manovra più libero per il finanziamento
vero e proprio; appunto col mettere in opera le condizioni fondamentali del
finanziamento economico, cioè in beni reali, attraverso il diretto regolamento
della produzione e del consumo; il fatto monetario rimanendo mezzo tecnico di
trasferimento, limitato dal cosiddetto circuito dei capitali.
Il circuito consiste in ciò. Pel fatto stesso delta guerra si ha una maggiore
offerta di beni e di servizi, e maggiore massa di denaro è fornita dallo Stato
per rendere possibile questa offerta ai rifornimenti di guerra; se, con la
disciplina degli investimenti e dei consumi all'interno e col controllo dei
cambi all'estero, si evita che il potere monetario d'acquisto via via emesso
dallo Stato sia speso o investito altrimenti che in beni utili alla guerra, esso
rientrerà nelle casse dello Stato; salvo poi a riemetterlo come lubrificante di
nuove offerte di beni e di servizi, e a riassorbirlo nuovamente nel circuito. Le
condizioni del circuito sono quelle già viste a proposito del risparmio per la
guerra : la disciplina dei prezzi e dei redditi per evitare la spirale
dissolvente dell'inflazione, e, fondamentalmente, la limitazione dei consumi in
beni diretti e strumentali e degli investimenti interni ed esteri. Create queste
condizioni, il circuito si forma automaticamente, permettendo il completo e
continuo finanziamento della guerra senza alcuna ripercussione sull'emissione
dei mezzi monetari.
Un esempio di buon funzionamento automatico del circuito è quello del nostro
paese durante il presente conflitto. Allo scoppio della guerra si è avuto
divario fra spese ed entrate statali, da cui la necessità di maggior ricorso del
Tesoro alla Banca d'Italia per anticipazioni. Queste erano spese per commissioni
di guerra, che diventavano mezzi tecnici di alimentazione del sistema della
circolazione monetaria, cioè delle scorte monetarie delle aziende di produzione
e di credito e dei privati. Queste scorte nel loro insieme costituivano la massa
del circolante, e per ovvie esigenze delle economie aziendali e domestiche
dovevano adeguarsi all'aumento delle remunerazioni e dei prezzi per aumento di
elementi obiettivi di costo, che aveva tratto con sé aumento del giro degli
affari delle aziende e delle correnti spese individuali. D'altra parte, se
l'aumentata spesa pubblica era in parte precedente all'aumento dei prezzi,
essendo finanziata sia pure transitoriamente dalla Banca d'emissione,
contribuiva inevitabilmente a sua volta ad aumentare i prezzi, attraverso
maggiore impiego di mano d'opera e prolungamento di orari di lavoro, quindi
attraverso creazione di un'importante massa di sopraredditi monetari (salari e
profitti), cui non corrispondeva uguale aumento della massa dei prodotti per uso
civile. Perché vi fosse equilibrio, non solo fra massa della circolazione e
livello dell'attività produttiva come nell'economia normale antinflazionista, ma
sopratutto, per le contingenze di guerra, fra quella massa e i beni lasciati a
disposizione dei civili, occorreva che una parte dei sopraredditi, cioè quella
non spesa per le predisposte limitazioni dei consumi e degli investimenti,
andasse in aumento dei depositi a risparmio; e di qui in sottoscrizioni dei
buoni del Tesoro. Cessava a questo punto la necessità di anticipazioni al
Tesoro, e la Banca di emissione poteva impiegare invece le sue anticipazioni
nella necessaria assistenza delle banche al momento del ritiro dei depositi per
prestiti al Tesoro. Ma il circuito si chiudeva facendo giocare sempre la stessa
massa di carta moneta.
L'economia italiana poteva a questo scopo giovarsi di una organizzazione già dì
tutto punto prestabilita, per l'autarchia, per la resistenza alle sanzioni e poi
per la preparazione di una guerra ritenuta inevitabile. Nei suoi fattori
fondamentali, di produzione di consumo di circolazione, l'economia nostra era
ormai da tempo mobilitata come economia di guerra, e capace di bene affrontare
anche i problemi affacciantisi inevitabilmente pel passaggio a un nuovo
equilibrio di domande e di offerte, determinato dagli scopi di una guerra
aperta. La stabilità del nuovo equilibrio, determinato da deviazioni di
produzioni e di consumi verso i bisogni nuovi di guerra, si è subito assicurata
col blocco dei prezzi delle merci dei servizi degli stipendi dei salari e delle
pigioni: elemento di stabilità economica e di giustizia sociale, affiancato da
altri provvedimenti volti a regolare la nuova dinamica industriale a scanso di
rendite eccessive, e sopratutto al fine di convogliare verso i consumi di guerra
la produzione interna, che i provvedimenti stessi dovevano d'altra parte
promuovere al di fuori di un eccessivo stimolo del profitto.
Analogamente in Germania, il piano accuratamente preordinato del finanziamento
automatico della guerra ha potuto essere realizzato col miglior successo
evitando un notevole ricorso alla manovra monetaria e fiscale e creditizia,
mercé la copertura delle necessità di tesoreria col flusso continuo di risparmio
nei canali del debito fluttuante di breve periodo. Le basi del piano sono: il
potenziamento della produzione, la limitazione ferma dei consumi e degli
investimenti privati, il controllo fermissimo dei prezzi, la disciplina del
commercio estero, l'amministrazione della valuta pei cambi esteri.
Come si vede, le emissioni monetarie, che in altri tempi, e nelle proporzioni
più gravi durante l'ultima guerra, erano mezzo primo e più facile di
finanziamento della guerra sono diventate mezzo temporaneo di avvio della
mobilitazione delle risorse nazionali, e sono rese inoffensive nella loro
portata inflazionista col pronto riassorbimento nel circuito; mentre l'imposta e
il debito pubblico, in forme facili e temporanee pur esse di anticipazioni
bancarie o di imposta e di prestiti a breve o brevissimo termine, rimangono
mezzi di rastrellamento del potere di acquisto libero perché coattivamente o
forzatamente risparmiato.
Ciò non toglie che la manovra, sebbene residuale e strumentale, del
finanziamento in senso proprio, nella sua triplice forma monetaria fiscale
finanziaria, abbia importanza sostanziale, sia essa sussidiaria nella formazione
del risparmio per la guerra, attraverso lo stimolo alla maggiore offerta di beni
e alla minore domanda per consumi ed impieghi privati, sia essa mezzo per
regolare la distribuzione del reddito nella nuova congiuntura bellica e la
ripartizione stessa dei costi della guerra. Ch'è molto importante, perché non
riguarda solo il momento della liquidazione e della ricostruzione fin nelle
strutture economiche e sociali; non solo queste, ma la stessa resistenza e il
successo della guerra di-pendono in parte notevole dal modo onde i suoi costi,
che sono attuali e continui, vengono attualmente e continuamente ripartiti.
2. Le emissioni monetarie e creditizie.
Gli strumenti finanziari con cui lo Stato regola
il circuito monetario, nei tre momenti dell'apertura (anticipazioni alle imprese
produttive), dell'alimentazione (riduzione dei consumi e degli impieghi) e della
chiusura (rastrellamento del potere di acquisto libero), sono rispettivamente e
in parte congiuntamente:
1) la emissione di carta moneta;
2) il prestito ;
3) l'imposta.
Ha importanza solo marginale nelle economie non collettiviste l'avocazione
diretta allo Stato dei beni e servizi occorrenti alla guerra (requisizione in
caso di beni, coscrizione in caso di servizi): che sono prelievi contro
corrispettivo di somme che lo Stato si procura con gli in-dicati tre mezzi.
Le emissioni monetarie sono necessarie allo scoppio della guerra e alla sua
continuazione troppo severa. Nel primo caso, per portare il mercato all'alto
regime imposto dai bisogni della guerra, mercé l'aumento della produzione e la
liquidazione dei beni capitali; nel secondo caso perché le scorte si
esauriscono, la produzione avviene a costi via via crescenti e le emissioni
tentano di anticipare alla meglio fino agli estremi della resistenza il
risparmio corrente dei beni realmente necessari alla guerra, e che pure viene a
mancare.
In un'economia non preparata alla guerra dalla nuova tecnica finanziaria oggi
tanto evoluta, quella appunto del circuito, le prime emissioni producono presto
gli effetti inflazionisti delle emissioni successive; e le due forme di
emissione monetaria, corrispondenti a due diverse finalità - di tecnica
monetaria l'una, di vera e propria spogliazione dell'economia nazionale l'altra,
- si congiungono rapidamente e finiscono col confondersi. E l'esperienza troppo
presente dell'ultima guerra mondiale.
Allora il solo scoppio della guerra aveva sconvolto il sistema economico e la
finanza pubblica e privata. Allo sforzo immane dell'economia e delle finanze
ordinarie si era sovrapposta l'inflazione, mezzo per superare quello sforzo, ma
causa di sicura rovina di un sistema che, legando la misura nazionale dei valori
a una misura internazionale relativamente fissa, l'oro, rendeva, non solo facili
e proficui gli scambi, ma stabili gli stessi rapporti economici e sociali fra
gli individui ed i gruppi e sicura la condotta della pubblica e delle private
imprese. Il danno era prevedibile, non sappiamo se effettivamente preveduto; ma
era necessario. Anche autorevoli economisti sostennero poi che, senza le
requisizioni e quella particolare forma di esse ch'è l'inflazione, il paese
sarebbe stato impoverito nella sola misura del costo reale della guerra, che
insomma non necessariamente l'inflazione si era accompagnata alla guerra.
Tuttavia, l'inflazione era il minor male della logica ferrea, e disordinata
perché impellente e non preparata, dell'intervento dello Stato per assicurare il
necessario all'esercito in campo e il minimo di esistenza alla nazione in una
guerra che doveva man mano apparire non più solo di eserciti ma di popoli.
Occorreva spendere per questo più del reddito disponibile, né si pensava allora
a scoraggiare i produttori di guerra con l'eversione immediata dei
sopraprofitti, né sì poteva sollecitare a maggior rendimento un sistema fiscale
assai rigido, né tanto meno operare massive mobilizzazioni di patrimonio che non
avrebbero evitato ma forse aggravato l'inflazione. Lo Stato, che neppure poteva
a tutto provvedere con prestiti esteri e con prestiti interni non facilmente
assorbiti dal mercato, rilasciava allora promesse di pagamento in forma di carta
moneta, specie di prestito pubblico facile e proficua almeno in primo tempo per
la finanza. Lo Stato realizzava in tal modo un altro fine pure urgente, in
mancanza di una disciplina integrale dei consumi : quello di creare un risparmio
forzato in classi numerose di cittadini, e di eliminare sul mercato dei beni di
consumo la concorrenza di questi compratori privati accrescendo il proprio
potere di acquisto.
Tuttavia gravissime dovevano apparire, secondo le previsioni scientifiche, le
conseguenze dell'inflazione così creata.
a) Conseguenze economiche, per la instabilità dell'equilibrio delle imprese
produttive e per la rottura dell'equilibrio economico generale nel suo sistema
di prezzi e di valori.
b) Conseguenze finanziarie, per le crescenti spese statali seguite all'aumento
dei prezzi, che richiedono sempre nuove emissioni e creano appunto la spirale
dell'inflazione, cioè la logica del suo ritmo crescente, anche per via dei
sempre maggiori mezzi monetari che sono necessari alle imprese private per la
continuazione della produzione.
c) Conseguenze sociali, per l'accentramento del potere di acquisto in alcuni
gruppi che si giovano dell'aumento dei prezzi e per la redistribuzione di
ricchezza dai creditori ai debitori, dai consumatori percettori di redditi fissi
ai produttori di merci rincarate, dai produttori di industrie a minore intensità
di domanda agli altri produttori, e nelle stesse industrie più prospere dai
salariati agli imprenditori, ecc.: danno sociale cui non corrisponde esattamente
il beneficio pure sociale del favore a ceti più attivi di imprenditori e
speculatori che si ,giovano dell'inflazione.
Lo Stato, d'altra parte, sembra facilitare i problemi del finanzia-mento, cioè
del trasferimento a sua disposizione del potere di acquisto dei privati, per la
via della minore resistenza, ma le conseguenze qui accennate complicano dopo
breve tempo i problemi del finanziamento in senso economico, cioè della
produzione e del risparmio reale dei beni, e quelli del finanziamento monetario;
e rendono insolubili senza una rivoluzione economico-sociale e talvolta politica
i problemi essenziali della ricostruzione.
L'esperienza di queste conseguenze dell'inflazione non è stata estranea alla
condotta molto diversa adottata dai belligeranti durante questa guerra, e sin
dall'inizio di essa. Hanno giovato la preparazione psicologica delle
popolazioni, la nuova tecnica economica e finanziaria e la preparazione
all'economia di guerra in una vera e propria economia militare già in atto. La
liquidità ed elasticità del sistema bancario, i nuovi metodi di finanziamento
del commercio, il sostegno già largamente praticato dei titoli di Stato e la
maggiore formazione del risparmio, per una già predisposta accelerazione della
produzione e una limitazione del rinnovamento delle scorte e degli impianti,
hanno fatto sì che lo scoppio della guerra trovasse una eccezionale liquidità
del mercato monetario, e si evitasse la consueta corsa al ritiro dei depositi,
la applicazione della moratoria e la tesaurizzazione, che avrebbero richiesto
l'intervento di grandi emissioni statali. Le emissioni erano sì necessarie, ma
in misura molto limitata, solo adeguata al nuovo ritmo dell'economia nazionale,
quindi senza alcuna conseguenza inflazionista. La liquidità del mercato
monetario si manteneva poi in seguito, appunto con l'azione automatica del
circuito, attraverso emissioni rese innocue dalla limitazione degli investimenti
e dei consumi e dal controllo dei prezzi ; con l'eliminazione, cioè, di tutti
quei vari fattori inflazionisti che durante l'altra guerra ave-vano ostacolato
l'afflusso al mercato delle disponibilità liquide ed ave-vano costretto lo Stato
a continue emissioni. Finché la carta moneta si emette contemporaneamente e
adeguatamente a ordinazioni belliche e resta nel circuito, cioè ritorna al
tesoro e alla banca emittenti, senza andare a consumi e investimenti diversi,
essa non provoca inflazione: è questa l'esperienza fortunata della presente
guerra.
Ad essa ha contribuito un sistema creditizio e bancario più evoluto e preparato
alla nuova emergenza bellica. La tecnica odierna del mercato finanziario, con le
banche di investimento e il collocamento diretto o indi-retto delle obbligazioni
statali, attenua grandemente il bisogno del ricorso a emissioni monetarie.
Queste possono consistere in emissione di biglietti che lo Stato fa direttamente
a corso forzoso, o che lo Stato chiede alla Banca Centrale contro il privilegio
dell'emissione, oppure in acquisto di titoli governativi da parte della Banca
Centrale stessa. Oggi tale acquisto di titoli statali non è tanto una garanzia
delle emissioni della Banca, quanto piuttosto un largo servizio di
intermediazione che la Banca fa, col sistema di banche minori, al maggior
credito statale.
Durante la guerra le banche cessano di essere collocatrici di titoli privati
presso la loro clientela; sono strumento di prima mano per la raccolta del
risparmio reso disponibile e il suo convogliamento verso lo Stato col
collocamento di titoli pubblici attraverso gli istituti bancari che il
risparmio, effettivo finanziatore della guerra, acquista efficacia,
trasferendosi allo Stato, diventando potere di acquisto dello Stato. La
liquidità ed elasticità del sistema bancario costituisce e mantiene quella
liquidità del mercato monetario e finanziario che evita l'inflazione. I depositi
a brevissimo e breve termine nelle banche, accresciuti dalla mancanza del potere
e del diritto di consumare e di investire, offrono allo Stato un flusso continuo
di credito a buon mercato. Le anticipazioni ai privati sono ancora concesse
dalla banca, ma per facilitare il pagamento delle imposte o la sottoscrizione ai
prestiti emessi dallo Stato.
Naturalmente la banca può trasferire allo Stato il risparmio già creato dai
privati; non può creare risparmio; al più può creare temporaneamente del
credito. Le banche possono trasformare in depositi il proprio credito, sono esse
creatrici di credito, e come tali possono notevolmente contribuite alla finanza
di guerra. I mezzi di pagamento possono trasferirsi dai privati allo Stato, e
restituirsi poi man mano dallo Stato ai privati, mediante emissione di assegni,
che si riducono a semplici scritturazioni bancarie. E' il metodo usato
dall'Inghilterra per il .particolare sviluppo del congegno creditizio e bancario
di quel paese. L'emissione di questi titoli, come quella dei biglietti, non
costituisce inflazione, se rappresenta promessa di risparmio futuro, garantita
dai capitalisti con depositi di merci o di titoli rappresentativi di altri
valori (azioni, obbligazioni, titoli di debito pubblico, ecc.).
Perciò il credito bancario è un'operazione
transitoria.
È
un'anticipazione sul ritorno del circolante nel circuito, in corrispondenza con
effettivo risparmio; se supera questi limiti, la banca è costretta ad emettere
crescenti mezzi di pagamento e si ha l'inflazione. È allora che le stesse
sottoscrizioni al debito pubblico fatte dai privati dietro anticipazioni
bancarie diventano una lustra, poiché i titoli restano nelle casse delle banche
a garanzia delle anticipazioni, cioè del credito bancario, e non sono assorbiti
dal mercato.
Per tutto ciò le anticipazioni bancarie devono restare nei limiti della mole
effettivamente restituibile, e devono rientrare prontamente nel circuito.
All'operazione provvisoria di anticipazione bancaria deve seguire un'altra
operazione, neanch'essa definitiva, ma in certo modo stabile, perché assicura
effettivamente la saldatura del circuito : cioè l'acquisto di titoli di debito
pubblico a brevissima o breve scadenza, i buoni del Tesoro, che lo Stato potrà
poi a suo agio, secondo le condizioni generali del mercato, consolidare in
prestiti di più lunga durata o estinguere con imposte. Successione logica, non
temporale; perché non si esclude, anzi per i bisogni crescenti della guerra
avviene normalmente che si ricorra, insieme, al prestito nelle due forme qui
accennate e all'imposta.
Anche le emissioni monetarie e creditizie fin qui trattate, se raggiungano un
livello tale da importare aumento dei prezzi perché non rientrano nel circuito
attraverso risparmio creato, giocano come imposta, nella misura in cui decurtano
il potere di acquisto dei privati. Si tratta di un'imposta cieca che non tiene
conto della capacità contributiva dei cittadini, è anzi regressiva, in quanto
colpisce il possesso della moneta, che è per la massa potere di acquisto dei
beni indispensabili all'esistenza, avente quindi una utilità maggiore della
moneta posseduta dai ricchi.
Né se la carta moneta viene ritirata, come è poco probabile, si ristabiliscono
le situazioni turbate dalla sua emissione equivalente ad un'imposta. In tal caso
le emissioni equivalgono a un prestito senza interesse; ma per la massa, non per
i singoli, che hanno già subito il danno della prima decurtazione del loro
potere di acquisto, e dalla deflazione potrebbero ricevere nuovo danno, se la
loro condizione si fosse intanto modificata per gli spostamenti frequenti
all'interno della massa.
3. Prestiti o imposte?
La stessa equivalenza economica si verifica tra
l'imposta e il prestito. In ambedue questi casi, come in quello delle emissioni
monetarie, si tratta di mettere a disposizione dello Stato le risorse dei
privati cittadini. Ma nel caso dell'imposta ciò avviene per mezzo di una
coazione su tutti o su alcuni gruppi di cittadini, senza riguardo alle loro
effettive disponibilità di risparmio liquido, e senza interesse. Nel caso del
prestito avviene per mezzo di sottoscrizioni libere da parte di coloro che
possono fare a meno di una quota delle loro disponibilità e si decidono
facilmente a darla allo Stato contro un interesse che, se il prestito è
volontario, è superiore al frutto che ricaverebbero da un altro investimento o
all'utile che ricaverebbero dal consumo; e comunque l'interesse non manca, sia
pure in misura minore, neanche se il prestito è obbligatorio.
Si dice anche che per l'imposta, come per le emissioni monetarie, i due momenti
della formazione forzata del risparmio e del suo trasferimento allo Stato
coincidono, mentre il prestito suppone una formazione precedente del risparmio.
Ma questo rilievo serve a mostrare come oggi le differenze fra le due forme di
prelievo siano di poco rilievo. Sia l'imposta che il prestito sono mezzi
marginali di coazione al risparmio. Il risparmio è forzato piuttosto da manovre
di politica economica, e va a depositarsi nelle banche in attesa che lo Stato lo
assorba; cosa che può fare, secondo complesse circostanze concrete, con
l'emissione di prestiti a breve termine o con l'imposta, generalmente oggi con
l'uno e l'altro mezzo.
I quali infine si equivalgono, non soli) per il fatto che il risparmio è già
creato anche dall'impossibilità di investimenti civili, sì che non s'infligge al
soggetto colpito da un'imposta che non sia una gravosa leva sul capitale il
sacrificio del disinvestimento, che secondo la teoria farebbe preferire il
libero prestito al mezzo coattivo di prelievo. Ma si equivalgono, come vedremo,
anche per la loro essenza economica, se non proprio giuridica; perché nell'un
caso o nell'altro si tratta di prelievi più o meno evidentemente coattivi, che,
più o meno evidentemente, non fruttano interesse e che si riducono come le
emissioni monetarie ad un'imposta sui consumi, ossia appunto a un prelievo che
lo Stato fa, pei suoi bisogni di guerra, dei beni concreti attuali a questa
occorrenti.
Ciò detto sulle generali, non si esclude che vi siano ragioni finanziarie
economiche e sociali, come già per escludere le emissioni monetarie
inflazioniste, ora per preferire il prelievo con l'imposta o quello attraverso
il prestito.
Un piano di finanziamento della guerra va giudicato alla stregua della
possibilità di raggiungere congiuntamente i seguenti fini: apprestare alla
guerra nel modo migliore e più pronto i beni necessari; diminuirne il costo
complessivo per la nazione e quello finanziario per Io Stato; distribuire tale
costo equamente fra i vari gruppi sociali; alterare il meno possibile le
esistenti strutture economiche, per lo scopo immediato della migliore condotta
della guerra e per quello a venire della ricostruzione.
Come si vede, questi fini, se possono apparire in parte contradditori, sono tra
loro coordinati in logica sequenza; e quel tanto di contraddizione ch'è in essi
può venire sanato, da un piano che renda positivo ed evidente il coordinamento
logico; aiutato come oggi può essere da una nuova tecnica finanziaria e
sopratutto economica, che si appoggia a sua volta a una nuova tecnica delle
istituzioni, fra cui specialmente efficaci quelle di un'economia militare già in
atto nella forma corporativa o comunque diretta.
Fatto nuovo importantissimo è il concepire il finanziamento della guerra assai
più come problema di organizzazione economica e quindi di politica economica,
che come problema di organizzazione finanziaria e quindi di politica
finanziaria; questa se mai, come in pace, mezzo di quella, in un largo margine
di indifferenza dei relativi mezzi di azione, però tutti sottratti alle opposte
esagerazioni delle ideologie e dei princìpi teorici supinamente ricevuti.
di questo fatto che bisogna tener conto per spiegarsi come si sia potuta
rovesciare una vecchia formula teorica di finanziamento della guerra, ancor oggi
ripetuta. Che cioè una forte e spregiudicata finanza di guerra richiede pronto
esaurimento delle possibilità di imposizione e cauto ricorso al debito; nelle
forme che meno ostacolino l'organizzazione dell'economia di guerra e il rispetto
delle esistenti strutture economiche, anche pei compiti della ricostruzione. Ora
si vede che precisamente questi scopi sono meglio raggiunti con l'opposta
formula dell'esaurimento delle possibilità di credito, rese inconcepibilmente
vaste dalla liquidità del mercato monetario mantenuta da una opportuna politica
economica, e del ricorso solo sussidiario all'imposta.
Pronte e alte imposte, si diceva e si ripete:
a) per approfittare del momento psicologico della
patriottica disposizione ai sacrifici;
b) per colpire tempestivamente i sovraprofitti di
guerra;
c) per assicurare l'equilibrio del bilancio contro
la diminuzione di altri cespiti di entrata e per provvedere al servizio dei
nuovi prestiti;
d) per attenuare il ricorso a questi e sopratutto
alle emissioni monetarie;
e) infine e insomma per alterare il meno possibile
le condizioni dell'equilibrio economico. E tuttavia, per la stessa teoria, uso
giudizioso dello strumento fiscale e ricorso preferibile ai contributi volontari
di disponibilità di risparmio, come forma più economica di finanza
straordinaria, proprio ai fini di non turbare e sconvolgere l'attrezzatura
economica e lo stesso equilibrio finanziario della nazione con forzate
liquidazioni di capitali produttivi. Ch'è insomma l'essenza della moderna teoria
del circuito; non nuova, perché corollario di una concezione scientifica della
finanza di guerra nei suoi dati fondamentali; ma che la nuova tecnica di questa,
mutando parzialmente i dati o rendendoli solo più evidenti o positivamente
operanti, va dappertutto più o meno pienamente attuando, nella misura in cui la
manovra finanziaria, nella sua triplice forma tradizionale, monetaria creditizia
fiscale, subordina alla manovra integrale dell'economia di guerra.
Se si può far sì che la moneta spesa dallo Stato per i bisogni di guerra rientri
al Tesoro, subito dopo aver raggiunto lo scopo di fornire alla guerra i beni
necessari, si può sostenere questo processo abbastanza lungamente senza
inflazione; almeno nel senso che una relativamente limitata massa di danaro
mantiene la semplice funzione di generatore e moltiplicatore della maggiore
energia economica occorrente alla guerra, restando solo più il problema di
regolare il movimento di diastole e sistole della circolazione, in modo da
assicurare la saldatura del circuito, cioè l'afflusso del circolante al Tesoro,
per un nuovo temporaneo deflusso, in ritmica vicenda. Che è prima un problema di
limitazione e distribuzione del potere di acquisto creato dallo Stato, da
risolvere piuttosto con provvedimenti di politica economica; e poi un problema
di rastrellamento del potere di acquisto libero, da risolvere con la scelta fra
i due metodi tradizionali della finanza straordinaria : prestito o imposta.
Questa scelta non è arbitraria:
a) sia perché, di fronte agli ingenti bisogni
della guerra totale l'alternativa non si pone fra prestito e imposta, ma sulla
proporzione relativa dell'uno e dell'altra e sulla loro successione temporale;
b) sia perché questa pur limitata alternativa
di-pende dalla durata e dal costo dello sforzo bellico, dalle condizioni
dell'equilibrio economico finanziario e sociale su cui questo incide
(consistenza e distribuzione della ricchezza, elasticità del sistema fiscale
ecc.) e sopratutto dipende dalla riuscita della cennata manovra di politica
economica, che crea i dati fondamentali del circuito di finanziamento.
La liquidità del mercato monetario, che permette allo Stato di provvedere alle
sue ingenti spese di guerra senza inflazione e con moderato ricorso all'imposta,
meglio cioè col ricorso al prestito a breve o medio termine e saggio di
interesse assai modico, non deve discendere da manovre monetarie tipicamente
inflazionaste, ma da una manovra economica che agisce sui fattori reali
dell'equilibrio, la produzione e il consumo. Deve cioè risultare automaticamente
dalla differenza tra il maggiore potere di acquisto creato dalla mobilitazione
delle risorse del paese per i bisogni di guerra, tramite lo Stato; e il potere
di acquisto utilizzato dai privati per consumi e investimenti, mantenuti al
minimo livello possibile. Punto di forza della manovra è il mantenimento di
questo ridotto livello del potere di acquisto civile, attraverso il controllo
dei cambi contro l'esportazione dei capitali, il controllo degli investimenti e
del mercato finanziario interno, e il blocco dei consumi privati e pubblici non
di guerra; da limitare, sia in beni reali sia nella loro espressione monetaria,
che se non fosse controllata attraverso il livello dei prezzi assorbirebbe
automaticamente tutto il potere di acquisto creato.
Il finanziamento della guerra nel senso più lato, cioè economico, si fa appunto
con questo margine di potere di acquisto libero, passato dai privati allo Stato;
purché derivi da aumento di produzione, disimpegno da altri impieghi interni od
esteri, e riduzione di consumi, quindi da risparmio reale attualmente
disponibile; ch'è il solo limite del ricorso statale al debito, privo di
conseguenze inflazioniste. E il finanziamento in senso proprio può dirsi
dipendere dalla disciplina del potere di acquisto. Il problema economicamente
più importante è dunque di mantenere il più largo margine possibile tra il
flusso dei beni utili alla guerra e il deflusso dei beni consumati dai privati,
cioè il massimo risparmio effettivo di questi.
Sia questo risparmio volontario o forzato, procuri a chi Io fornisce un compenso
o non, in certo senso poco importa; perché comunque equi-vale a un'imposta, a un
prelievo statale sui consumi, produttivi o meno, dei privati; e in questo senso
si ha certa equivalenza economico-finanziaria dei due diversi modi di prelievo.
La cosa è in sé evidente se si considera la collettività come un tutto; ma è
altrettanto vera se si riferisce ai singoli e ai gruppi, salvo marginali
conseguenze di redistribuzione di ricchezza che non sono le più importanti fra
quelle palesi od occulte, che un fatto di altissimo dinamismo come la guerra non
manca di produrre, e non sono irreparabili.
Sembra diversa la distribuzione dei carichi di guerra, secondo che si faccia
ricorso all'imposta, cioè a un prelievo generale senza interesse, o al prestito
che frutta un interesse e che appare come un normale impiego di capitale non
solo, ma sembra costituire una rendita dei risparmiatori che altrimenti
dovrebbero contribuire con imposte. Certo, proprio per le necessità di guerra,
bisogna incoraggiare la disposizione al risparmio a sussidio della coazione
diretta o indiretta; e ciò si può ottenere mantenendo alta l'utilità delle somme
risparmiate per l'impiego statale, rispetto all'utilità dei beni consumati, cioè
corrispondendo un interesse. Ma questo è destinato a riaffluire nel circuito,
cioè allo Stato, attraverso l'imposta; con effetti tanto minori sulla
distribuzione della ricchezza, quanto più i prestiti sono diffusi in modo
proporzionale al reddito e in genere alla capacità contributiva, partecipandovi
il risparmio pur tenue della massa. Perciò risponde a un interesse e a un dovere
insieme di tutti i cittadini finanziare la guerra con la maggiore produzione e
il maggiore risparmio, da portare prontamente e continuamente alle casse dello
Stato in qualsiasi forma: acquisto di buoni del Tesoro, depositi a risparmio
ecc.
Tuttavia, nella misura in cui gli stessi risparmiatori, come generalmente
avviene, provvederanno con imposte al pagamento degli interessi dei prestiti
sottoscritti, questi equivalgono a un prelievo senza interesse, a una
contribuzione solo apparentemente libera ma indirettamente forzata, e non
provvisoria ma definitiva, semplice acconto di una vera e propria leva sul
capitale.
Fine equivalente lo Stato raggiunge, se non vuole prelevare imposte pel
pagamento di alti interessi, manovrando al ribasso il saggio dell'interesse e
facendo una conversione dei debiti contratti, che in tal caso non ha bisogno di
essere obbligatoria, ma è tuttavia solo larvatamente volontaria, perché dipende
dalla manovra del mercato monetario per un più basso saggio d'interesse che
riduce automaticamente il valore del capitale.
In ogni caso può aversi un ammortamento automatico del debito pubblico, che non
lascia grave strascico di ingiustizia; e perciò anche si dice che il ricorso
maggiore e più diffuso al debito è il modo anche socialmente più opportuno di
finanziamento della guerra.
4. L'imposta e la liquidazione delle spese di
guerra.
Certa indifferenza e concorrenza dei metodi di
finanziamento della guerra non toglie tuttavia importanza alle conseguenze
economiche e sociali, immediate e lontane, dell'adozione dell'uno più che
dell'altro. Così non si può escludere, tutt'altro, il ricorso al metodo fiscale,
cioè all'imposta, come mezzo di distribuzione ultima degli oneri di una grande
guerra.
Giova a tal proposito la giusta ma intransigente applicazione di strumenti
straordinari, come le imposte sui sopravalori (incrementi di valori capitali non
meritati) e specialmente sui sovrapprofitti (profitti superiori a quelli normali
di pace, e non solo delle industrie per fabbricazioni di guerra, ma di tutte le
imprese produttive in quanto realizzino eccezionali guadagni in occasione della
guerra).
E giova anche lo sfruttamento più intenso dell'ordinario sistema fiscale, che
non è sempre così rigido come sembra, se consente, com'è certo, l'estensione
della materia imponibile mercé più efficaci accertamenti; e potrà con questi
colpire cospicue rendite di guerra eventualmente non soggette all'imposizione
straordinaria, perché nascoste nelle pieghe degli inevitabili fenomeni bellici
di redistribuzione di ricchezza.
Gravare su questa materia imponibile derivante da congiuntura, ha il vantaggio
di non turbare l'equilibrio economico e quindi di non procurare aumento dei
prezzi; che si trasferirebbe sullo Stato, in guerra massimo consumatore di merci
e di servizi, e su quelle classi per la cui difesa di giustizia sembrerebbero
introdotte le maggiori imposte.
Se queste consistessero in nuovi parziali strumenti fiscali o in addizionali
alle imposte esistenti, non solo complicherebbero il sistema fiscale, o
sarebbero insufficienti allo scopo di giustizia che si desidera raggiungere e
alla soluzione del problema ben più complesso della finanza di guerra; ma
graverebbero in gran parte su quelle classi medie e a reddito basso o fisso che
subiscono il massimo peso della finanza ordinaria e dello sforzo non solo
economico della guerra.
Se invece si pensasse a una leva sul patrimonio durante la guerra, si avrebbe
una mobilitazione forzata o addirittura coattiva del capitale in aggiunta a
quella già vista per aumento dei prezzi, ma cieca e irragionevole, con le
conseguenze prevedibili di una virulenta inflazione, per l'ingente ricorso al
credito bancario, e di un grave turbamento delle attrezzature produttive. In
ogni caso si scoraggerebbe la formazione del risparmio.
Certo, l'effettiva traslazione dei carichi di guerra e la loro distribuzione
equa fra i vari gruppi sociali richiedono imposte straordinarie sui profitti di
guerra e sul patrimonio; ma qui si tratta del tempo tecnico della loro
applicazione. E in definitiva, quella ripartizione dipende dalla sistemazione
dei debiti e dalla distribuzione dell'imposta che sarà necessaria per provvedere
al loro interesse ed ammortamento giuridico. Torna in parte vero quel che già
dicevano gli economisti, che il Tesoro inizia la guerra, il prestito l'alimenta
e l'imposta la liquida. E non sarà ingiusto, tutt'altro, che a questa
liquidazione partecipino con imposte indirette le masse che sfuggono
all'imposizione diretta, se la guerra è un fatto nazionale che impegna tutti
nella solidale distribuzione di costi presenti e di utili futuri. Né si tratterà
di fare sottilizzazioni teoriche sulla preferibilità di alcuni rispetto ad altri
strumenti fiscali; piuttosto, di una tecnica avveduta che ridia elasticità
all'intero sistema e ne solleciti il rendimento integrale; cercando di livellare
gli oneri dei risparmiatori e dei produttori, e di distribuire su più larga base
possibile i costi della guerra, secondo il principio della capacità
contributiva, corporativamente inteso, cioè nel senso del minimo sacrificio
comune; a tutti essendo garantito, nella pratica dei redditi individuali
contenuti, il frutto del maggior lavoro e del maggior risparmio sulla ricchezza
futura di pace.
In realtà, anche per la liquidazione ultima delle spese di guerra vi è da
contare assai meno sullo strumento fiscale redistributore, che su un'economia
potenziata e resa più produttiva dalla vittoria sull'ingiustizia sociale
internazionale; che sola, attraverso una maggiore disponibilità di ricchezza per
il gruppo come un tutto e un conseguente ribasso del saggio dell'interesse,
permetterà, insieme con la conversione del debito pubblico e le più facili
imposte e il risanamento delle finanze statali, un effettivo stabile
accorciamento delle distanze fra le posizioni rispettive dei gruppi sociali e
quindi una maggiore giustizia sociale interna. Suscitare aspettative messianiche
in senso diverso, oltre che inutile può essere dannoso al compito della
ricostruzione nella « crisi della pace », cioè negli squilibri inevitabili del
passaggio dall'assetto di guerra all'assetto di pace.
Sembra per tutte queste considerazioni ineccepibile il piano di finanziamento
della guerra e della sua liquidazione, seguito durante questa conflitto dall'
Italia e dalla Germania e anche da altri belligeranti, come le diverse
istituzioni di ciascuno possono permetterlo. Il piano consiste nei seguenti
elementi tra loro coordinati:
a) utilizzare fino ai limiti del possibile la
liquidità del mercato monetario per prestiti pubblici a breve e medio termine;
b) sfruttare le possibilità dell'ordinario sistema
fiscale e impiegare l'imposizione straordinaria solo per i sopravalori e
sovraprofitti di guerra;
c) preparare un piano di conversione volontaria
dei debiti contratti, a interesse più mite; d) preparare una riforma del sistema
fiscale per la liquidazione delle conseguenze della guerra.
Naturalmente questo piano, basato sui principi del circuito monetario, può
riuscire solo in quanto resti coerentemente e integralmente fedele a tali
principi; cioè in quanto siano assicurate le condizioni fondamentali del
finanziamento economico della guerra : maggiore produzione, minore consumo e
integrale devoluzione del risparmio occorrente ai bisogni bellici. Ciò significa
che bisogna mantenere ermeticamente chiuse le vie di fuga dal circuito, di
fronte a tendenze verso l'evasione che sembrano irresistibili e non lo sono,
come appare dalla rigida e intransigente organizzazione germanica.
La sopravalutazione dei titoli a reddito variabile e dei beni capitali, cui in
genere si assiste durante la guerra, ha un aspetto speculativo, che sconta un
movimento al crescere dei prezzi, e volendo assicurare gli investitori contro i
rischi monetari sollecita l'avvento e accresce la mole di questi. Solo in parte
quella sopravalutazione è dovuta a un saggio di capitalizzazione naturalmente
basso di redditi attuali e sperati, effettivamente distribuiti o convertiti in
riserve patrimoniali delle aziende. Diverso dal prudenziale accantonamento di
certa frazione dei maggiori utili per far fronte al maggior logorio tecnico ed
economico degli impianti verificantesi nel passaggio all'assetto di pace, è
l'autofinanziamento. Questo maschera sovrapprofitti di congiuntura, toglie
materia fiscale allo Stato, facilita le immobilizzazioni che costituiranno
posizioni pesantissime per la liquidazione dell'attrezzatura di guerra, e
favorisce l'aumento dei prezzi dei titoli a reddito variabile in concorrenza con
gli impieghi pubblici. La corsa all'autofinanziamento e agli investimenti in
titoli a reddito variabile e in beni capitali implica sfiducia nella moneta e
crea l'atmosfera dell'inflazione, oltre il fatto obiettivo che richiede se
sfrenata maggiori mezzi monetari, i quali non rientrano nel circuito.
Altra via di fuga, con questa comunicante, è la
non piena disciplina dei fattori obiettivi dell'aumento dei prezzi, che porta
non solo ad aumento del livello assoluto di questi, ma ad ingiuste fratture
dell'equilibrio del loro sistema, cioè dei loro livelli relativi. Da parte
dell'offerta bisogna controllare i costi ; da parte della domanda bisogna
controllare i consumi. Vi sono profitti che superano manifestamente il livello
entro il quale sono retribuzione di un'offerta di beni necessari alla guerra:
retribuzione giusta, cioè rispondente al criterio del servizio sociale più che
all'avidità del lucro individuale. E questi alti profitti bisogna prevenire,
ancor prima di avocarli allo Stato con la manovra fiscale. Vi sono consumi non
indefinitamente riducibili, perché vi è un risparmio di specie, per un tenore
minimo di esistenza civile, che si pone sullo stesso piano di importanza del
risparmio per la guerra; e poi perché una limitazione totale dei consumi
porterebbe alla rovina di alcune imprese produttrici, con diminuzione di impiego
per il lavoro e di ordinarie entrate fiscali per lo Stato. Ma la disciplina dei
consumi richiede giusto e intransigente rigore.
Gli stessi elementi psicologici che si sprigionano dall'impressione generale di
una mancanza di giusta intransigenza, amplificano i fatti reali, e possono
minacciare insieme col valore della moneta l'equilibrio dell'intero sistema di
finanziamento della guerra. Essi possono irradiare pericolosamente dalla
effervescenza delle borse dei valori come dal rigurgitare scandaloso dei
pubblici esercizi specie di lusso, in cui i portatori di redditi elevati possono
eludere anche quelle limitazioni necessarie ed elementari che ai più sono
imposte dal rigido tesseramento o dalla limitazione delle entrate rispetto
all'aumento dei prezzi. Con la conseguenza di minare, insieme con la possibilità
di consumo, la stessa possibilità di risparmio monetario sia pur tenue delle
masse; sul quale come abbiamo visto dovrebbe solidamente poggiare l'ottimo
sistema di finanziamento della guerra, nella stessa logica più intima del
sistema corporativo. E con grave turbamento morale, perché, se la guerra è fatto
di solidarietà nazionale, non dev'esservi neppure l'impressione ch'essa costi
sacrifici solo ad alcuni e dia solo utili ad altri.
In definitiva, dai metodi di finanziamento economico e di finanzia-mento vero e
proprio coerentemente seguiti dipendono: i costi della guerra, - la loro
distribuzione, - la loro riparazione: che non sono problemi indipendenti, sì
invece strettamente interdipendenti. La guerra implica la necessità di
affrontare costi non consueti. Ciò stesso importa una redistribuzione di
ricchezza, e non nei limiti dei soli costi della guerra, che però da tale
redistribuzione sono influiti. Ciò infine complica i problemi già gravi della
ricostruzione sulle devastazioni di una Moderna guerra totale.
Alla soluzione coordinata dei problemi della
guerra e della ricostruzione, specie nel senso di attenuarne le conseguenze
economiche e sociali, devono presiedere insieme: un senso virile del dovere e
del sacrificio, un senso incorruttibile della giustizia e della solidarietà.
Sono queste virtù nella specifica vocazione dell'ordine fascista corporativo;
che dunque dovrebb'essere particolarmente appropriato alla condotta
dell'economia di guerra.
NOTE
Celestino Arena, nato a Pizzoni (CZ) nel 1890.
Economista ed insegnante di Scienza delle finanze ha scritto fra l'altro "Corso
di economia del lavoro" (1933-1935), "La teoria generale della finanza" (1945),
"Manuale di scienza della finanza". Durante gli anni del fascismo diresse con
Bottai la "Nuova Collana di Economisti
Stranieri ed Italiani" edita dalla UTET.
FONTI
Celestino Arena,
"L'economia di guerra", in Quaderni di
cultura politica, serie XI n. 2, supplemento al n. 8 agosto 1941-XIX di «Civiltà
Fascista», I.N.C.F., Roma, 1941.
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